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L'India di Girone e Latorre 
 
Nonostante non se ne abbia assolutamente percezione nei paesi del primo mondo, l’India è, solo sulla carta, definita come una nazione unica. In concreto è l’unione di realtà economiche e culturali profondamente differenti e che singolarmente per popolazione e ricchezze intellettuali potrebbero essere comparate ai principali stati europei (il Tutar Pradesh, stato più popoloso dell’India, se fosse indipendente sarebbe la quinta nazione più popolosa al mondo), basti pensare all’esistenza di ventidue diverse lingue ufficialmente riconosciute e la maggior parte di esse con alfabeti completamente diversi gli uni dagli altri. Questo si riflette nella realtà politica. Ha, dunque, davvero poco senso sviluppare un’analisi a livello nazionale, l’India è dominata da una marea di movimenti che ricevono enorme supporto e appoggio in alcuni stati, ma sono assolutamente assenti e irrilevanti in altri. Conscio di questa realtà lo stato Indiano si è attrezzato conseguentemente sin dall’indipendenza nel 1947. Il sistema politico indiano, definito federale sulla carta, prevede invece una fortissima concentrazione del potere nelle mani del governo centrale. Basti pensare che i governi dei ventotto stati dell’India sono completamente dipendenti finanziariamente dal governo centrale, e inoltre l’articolo 356 della costituzione dà a quest’ultimo il potere di sciogliere uno qualsiasi dei governi locali; l’utilizzo di questo “privilegio” non è stato assolutamente lesinato. Superano il centinaio i governi “dismessi dall’alto”, in particolare durante gli anni ‘70/’80 sotto il governo di Indira Gandhi e contro i governi guidati dai partiti di opposizione in generale e in particolare dal fronte comunista nel Kerala e nel Bengala Occidentale, quando il cosiddetto Left Front, di cui parleremo diffusamente nel seguito, aveva ancora qualche piccola ambizione rivoluzionaria. Tale centralismo è ovviamente giustificato con le solite argomentazioni propagandistiche di governabilità ma è chiaro l’intento di impedire qualsiasi possibilità che i movimenti locali, che come detto caratterizzano l’India in ogni sua parte, e che hanno raggiunto in talune occasioni un’avanzatissima organizzazione di classe (vedi il primo Melanzana Movimento negli ultimi anni ‘40, nonché l’attuale insurrezione maoista negli stati tribali dell’India centrale), possano rappresentare una reale minaccia per la sovversione della struttura economica del paese. Inoltre, molteplici sono stati i tentativi di svilire i governi locali di potere. Inizialmente il sistema amministrativo indiano, che tutt’ora, eccezion fatta per i governi statali, non definisce chiaramente come articolare la governabilità locale, semplicemente suggeriva l’indizione di elezioni locali a base quinquennale, la qual cosa accadeva di rado e in maniera assolutamente casuale ad eccezione per quegli stati, Kerala e Bengala Occidentale, dove un forte movimento di sinistra si è sviluppato negli anni. 
 
La vita parlamentare indiana nei ‘60 anni di indipendenza, per quel che concerne il governo centrale, è stata nient’affatto avvincente. Dal primo governo nel 1950, che brutalmente represse l’insurrezione comunista nel Telangana cui abbiamo accennato sopra, il dominio del partito “Indian National Congress” (INC) è stato schiacciante. A parte brevissime parentesi, in sessanta anni l’INC è stato tagliato fuori dal potere solo nel governo del 1999 guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) per poi ritornare prontamente al potere nel 2004 e riconfermarsi nel 2009. Il BJP è la faccia pulita del movimento fascista/Induista fondamentalista Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS). Date le sue complessità e diversità rispetto ai caratteri nostrani, ci proponiamo di sviluppare l’analisi del fascismo e dei partiti che potremmo chiamare fascisti presenti in India in altra sede. L’INC è il partito paladino di tutte le propagande borghesi che mostrano solidarietà con astratti spiriti rivoluzionari e pacifisti: il Mahatma Gandhi. Il partito, sempre al fianco della borghesia e dei poteri forti per stessa ammissione del suo primo e più celebre leader, il quale non ha mai mostrato alcuna simpatia per spiriti comunisti e rivoluzionari, potrebbe però essere caratterizzato come di centro-sinistra rispetto alle categorie politiche del panorama europeo. É questa una delle principali differenze tra la storia dell’India e quella dell’Italia del dopo guerra. 
 
Da porre in rilievo è anche la situazione internazionale in cui l’India era coinvolta in quel periodo, stretta com’era tra l’Unione Sovietica e la Cina Popolare. L’influenza del socialismo sovietico sulla politica, anche economica, indiana è, infatti, innegabile. Chiara evidenza di quest’influenza è l’aggiunta nel 1976 della parola “socialista” alla descrizione del sistema di governo indiano che è ora definito Sovrano, Socialista, Secolare, Democratico e Repubblicano. Non vogliamo così dare legittimità politica a simili elementi che rimangono assolutamente uno specchietto per le allodole, basti guardare all’influenza attuale degli Stati Uniti nella politica indiana, la fame e miseria che dilaga ovunque al pari di fortissimi contrasti religiosi e di caste, e le condizioni di vita del popolo indiano nel suo complesso per invalidare i primi quattro aggettivi, ma è al contempo indubbio un ruolo del pubblico nell’economia indiana, durante gli “anni sovietici”, sicuramente incomparabile rispetto alle realtà europee dominate da partiti filo-americani (le relazioni tra l’India e la Cina Popolare sono stati per lungo tempo complesse e tutt’altro che distese ma non parleremo di tale tQuesto quadro è radicalmente cambiato quando nel 1991 l’INC preferì la tanto agognata apertura dei mercati e finalmente furono aperte le porte a capitali stranieri che vedevano nell’India e nel suo miliardo e passa di abitanti, un boccone molto, troppo, invitante in termini di potenziale ampliamento dei consumi. Il 1991 è anche l’inizio di quello che fu definito “boom economico dell’India”. Il PIL indiano è iniziato a crescere a ritmi mai visti in precedenza. Tutti contenti. Tutti uniti nel celebrare i miracoli del capitalismo. Nella celebrazione generale alcuni, irrilevanti particolari, sono sfuggiti ai più: quante bocche ha da sfamare questo PIL? Quante ore ha da lavorare al giorno per garantire una pseudo-educazione ai propri figli?  
 
Come sempre, dietro i numeri di un’astratta e impersonale “crescita economica”, si cela la verità. Negli ultimi vent’anni non solo le differenze di classe hanno assunto connotati indecenti con i 100 indiani più ricchi che, stando alle statistiche del periodico americano Forbes, posseggono un quarto della ricchezza di un paese composto da oltre un miliardo e duecentoventiquattro milioni di abitanti, ma le condizioni della parte più povera della popolazione, che spiacevolmente per l’India si aggira a un 60/70%, sono addirittura peggiorate in senso assoluto. Su questo punto le statistiche sono, volutamente. Un dato è chiaro: il consumo medio per le famiglie più povere di cereali si è abbassato da 880 Kg a 770 Kg. E l’attuale governo UPA (United Progressive Alliance, un’alleanza di governo guidata da... l’INC!) al potere dal 2009, si è proiettato sempre più nell’arena del liberismo e il supporto al grande capitale, che si evince dalla finanziaria per il 2012, è senza precedenti nella storia del paese. Di fronte ad un’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità come riso e zucchero a un ritmo che si aggira attorno al 20 % annuo, il governo UPA ha deciso di scegliere un taglio del 12 % dei sussidi per il cibo e il carburante (quest’ultimo ha un ruolo essenziale nell’aumento dei costi degli alimenti dato il diffuso uso di trattori e il già elevatissimo costo del diesel in India), e per un aumento irrisorio per i progetti di sviluppo delle zone rurali che, tenuto conto dell’inflazione, si ripercuoterà in un’effettiva riduzione. Per non parlare degli scandalosi tagli alla tassazione diretta di 4.3 miliardi di Euro a vantaggio di quel 2% della popolazione con un reddito superiore a 5000€ annui (tali tagli sono cinque volte superiori al totale dedicato allo sviluppo dell’India rurale) che recupererà da un aumento pari a quasi il doppio, 8.3 miliardi di Euro, per la tassazione indiretta che invece affliggerà tutta la popolazione. Insomma una politica certamente non in linea con i propositi sbandierati, in ogni dove, di riduzione dell’enorme differenze di classe nel paese! 
 
LE FORZE DELLA SINISTRA 
In India le forze di sinistra sono molto frammentate. Cominciando dal 1964 si sono susseguite scissioni continue dell’allora Communist Party of India (CPI). Le ragioni di tali scissioni, come sempre accade, sono un misto di opportunismo e di questioni ideologiche. Non ci soffermeremo sull’analisi di ognuna di esse, tra l’altro davvero troppo numerose per essere analizzate singolarmente, ma ci limiteremo a descrivere la situazione odierna derivante da tale frammentazione. Una parte dell’allora dirigenza rivoluzionaria del CPI è rimasta fedele a tale linea, e tra i vari partiti che fanno del Leninismo la propria bandiera citiamo the Socialist Union Center of India (SUCI) e gli antisistemici Communist Party of India Marxist-Leninist (CPI), il Communist Ghedar Party of India (CGPI), e il Communist Party of India Maoist (detti semplicemente Maoisti), questi ultimi perseguono la strada della lotta armata. Sull’analisi di quest’ultima forza, che è stata dichiarata illegale in India, avremo tempo e modo di soffermarci in seguito. Diversa è stata la linea abbracciata dai partiti (autodefinitesi) comunisti di maggioranza, nello specifico il Communist Party of India Marxist (CPI), il Communist Party of India (CPI), All India Forward Block e il Revolutionary Socialist Party, questi ultimi formano il citato Left Front. 
 
Normalmente siamo abituati a non entrare nel dettaglio dell’analisi della politica dei partiti (autodefinitesi tali) comunisti di governo, poiché non riconosciamo a quella via parlamentare alcuna prospettiva. Nel caso indiano, però, faremo un’eccezione per due motivi. Da un lato in India tali partiti comunisti di governo sono riusciti effettivamente a conquistare il potere in alcuni stati (tramite elezioni!), dall’altro, l’analisi delle politiche sviluppate durante tali esperienze di governo ci possono dare preziosi spunti per comprendere l’effettivo abbandono delle politiche sociali da parte di queste forze politiche. Va sicuramente detto che il Left Front è molto più vicino a una realtà del tipo “vecchio partito comunista” piuttosto che a uno qualsiasi dei partiti dell’attuale “sinistra radicale”. Il Left Front da un lato gode indubbiamente dell’appoggio di massa, in particolare di matrice proletaria, che non permette di liquidarlo semplicemente come forza parlamentare anti-rivoluzionaria, e da l’altro va riconosciuto che, seppur non proprio comunista ortodosso e con mille contraddizioni, almeno rappresenta una reale forza progressista con una ben identificata classe di riferimento. 
Un dato interessante per la statistica è che la prima elezione della storia, in cui un partito di stampo comunista ha trionfato, è avvenuta in India. Per la precisione nel 1957, nello stato del Kerala, l’allora unito CPI riuscì ad aggiudicarsi il governo dello stato, prontamente poi dismesso nel 1959 dal governo centrale grazie all’articolo 356 di cui abbiamo parlato all’inizio. Procedendo con ordine i comunisti, in varie alleanze, variazioni sul tema del Left Front, sono al potere in tre stati, di due abbiamo già citato il nome, Kerala e Bengala Occidentale, mentre il terzo è uno stato del nord est dell’India poco rilevante per estensione e popolazione, lo stato del Tripura.  
Il Tripura non offre tanti spunti di riflessione, un po’ per i soli tre milioni di abitanti che lo rendono uno degli stati meno popolosi, un po’ per una locazione geografica “periferica”. Diremo solo che la forza del Left Front è schiacciante, il CPI (m) controlla da solo più del 60% del parlamento locale ed è, in buona sostanza, al governo ininterrottamente dal 1977. Tripura, fin dagli anni post-indipendenza, è stato teatro di diverse ribellioni che si sono però placate negli anni recenti. 
Il Bengala Occidentale è, indubbiamente, più ricco di spunti. Lo stato ha una popolazione di oltre ottanta milioni di abitanti e la capitale è una delle principali città dell’India, Calcutta. Anche qui il Left Front domina incontrastato dal 1977 ma, a differenza del Tripura, il controllo è stato totale. Dal 1977 al 2000 lo stato è stato guidato da una delle figure principali del movimento comunista indiano, Jyoti Basu, scomparso nel gennaio 2010. L’analisi dell’operato del Left Front, soprattutto in tempi recenti, è inclemente e i dati delle elezioni politiche del 2009 lo testimoniano. Per la prima volta dopo trentadue anni, nel Bengala Occidentale, il CPI ha guadagnato meno parlamentari del INC. Una delle principali ragioni di questa sconfitta è da imputarsi alla svolta, intrapresa nei primi anni 2000, per sviluppare un faraonico processo di “industrializzazione”. L’enorme supporto popolare di cui gode il Left Front deriva, infatti, dalle politiche sviluppate nei primi anni dei governi Basu in cui il partito redistribuì la terra ai contadini come mai era avvenuto in India. I ventitré anni di governo Basu hanno anche, per molti versi, rappresentato un’eccezione rispetto al panorama nazionale. La partecipazione popolare alla vita politica dello stato ne è un esempio cosi come una struttura di welfare nei confronti dei lavoratori che nel Bengala Occidentale hanno “privilegi” e un livello di organizzazione sindacale molto maggiori rispetto alle condizioni medie indiane. La riforma agraria del Bengala Occidentale testimonia da un lato quanto il Left Front abbia in talune occasioni supportato la causa dei proletari e dall’altro come le politiche di classe siano le uniche che possano generare ampi e duraturi consensi popolari. Il partito, negli anni a seguire, ha gradualmente ceduto alla borghesia indiana. 
 
Se la svolta è stata graduale durante i ventitré anni di governo Basu, il processo ha ricevuto un’impennata dal 2001, quando Bhuddadep Bhattacharjee è stato eletto primo ministro del Bengala Occidentale sostituendo un’ormai troppo vecchio Basu. Da quella data il Left Front ha aperto le porte a capitale straniero e permesso alle multinazionali, indiane e non, d’iniziare finalmente a estorcere profitti anche alla popolazione bengalese, cedendo così, alle critiche che vedevano nell’eccessiva protezione dei lavoratori, la ragione della stagnazione dell’economia del Bengala Occidentale. L’esplosione delle contraddizioni di classe, generate da questo tradimento in piena regola delle aspirazioni dei lavoratori e dei contadini, che costituiscono da soli il 60 % della popolazione dello stato, non si è fatta attendere. Alla proposta di impiantare la costruzione di enormi stabilimenti chimici, nonché di aprire le porte a I.A.T.A. (la principale, gigantesca, industria indiana del mercato automobilistico e con diramazioni in tutti gli ambiti dell’economia del paese) e alle successive espropriazioni di grandi quantità di terra dalle mani di quei stessi contadini, che con i loro voti hanno dato per trent’anni legittimità al governo del Left Front, la classe ha risposto con ribellioni senza precedenti in varie zone dello stato. La più famosa diesse è senza dubbio quella del Nandigram. A queste esplosioni di collera popolare, il Left Front ha fornito prova di quanto fosse ormai lontano anni luce da qualsiasi politica che possa essere definita socialista. Barbariche repressioni e uccisioni sommarie hanno rappresentato l’unica risposta che il CPI (m) e gli altri partiti del Left Front ha reputato di dover dare. C’è da dire che ci sono state forti critiche interne alla linea scelta Bhattacharjee ma che comunque il partito ha iniziato realmente a ragionare sui propri errori solo dopo la sconfitta elettorale senza precedenti del 2009. Alla fine è stata fatta pubblica ammenda: l’inizio di una nuova linea politica o una rapida pulitura di faccia onde evitare una sconcertante sconfitta nelle elezioni locali che si terranno nel 2011? Ci chiamerete scettici, pessimisti o come volete ma è per noi davvero difficile credere alla prima ipotesi... 
 
Ne parleremo più diffusamente nel seguito, quando avremo modo di affrontare la questione maoista in maniera più specifica, ma non possiamo non rilevare come sui trentatré anni di governo pesino gravemente un numero imprecisato di assassinii e di nefandezze di ogni genere contro gli appartenenti al cosiddetto Naxalbari Movement. 
La guerra aperta tra CPI e Naxaliti (sinonimo del Naxalbari Movement) ha assunto livelli di durezza terribili dal 1967, anno dell’insurrezione di Naxalbari da cui il movimento prende il nome. Nonostante diverse contraddizioni e limiti di tale movimento, soprattutto nel Bengala Occidentale, è innegabile che i Naxaliti ottengano supporto in questo stato da quella fetta più povera della popolazione tradita dalle politiche del CPI e Left Front. Le reazioni a queste contraddizioni da parte del governo dello stato del Bengala Occidentale non è stata nient’affatto diversa da quella della borghesia imperialista che tanto criticano nelle loro sedi di partito: polizia e repressione! 
 
Ulteriore, e dal nostro punto di vista enorme, limite delle politiche del Left Front, chiaramente nella prospettiva del volerle giudicare come rivoluzionarie, è l’assenza totale in trentatré anni di sforzi per la costruzione di una coscienza di classe al livello nazionale. Il partito si giustifica con l’impossibilità di reale agibilità politica dovuta alla forte centralizzazione del potere in India. L’esempio di Cuba ci dimostra come anche in condizioni di oppressione sia possibile non abbandonare una politica di internazionalismo proletario, e in questo caso non si tratterebbe neanche di internazionalismo ma di una sorta di nazionalismo proletario, e come esso paghi a lungo termine. L’atteggiamento del partito rispetto alla assenza su scala nazionale di una reale prospettiva rivoluzionaria ci pare piuttosto quello di chi vuole lavarsene le mani e opportunisticamente tenersi stretto il controllo di una piccolissima isoletta, dalla quale, appunto per la forza del potere centrale, non può altro che svilupparsi una politica riformista destinata a lungo termine, così come pare stia accadendo, a essere schiacciata dal liberismo della peggior specie. Il terzo stato in cui i “comunisti” sono al potere è il Kerala in cui, però, la situazione è considerevolmente differente. Qui il dominio delle forze di sinistra è notevolmente meno schiacciante, anzi è prassi un’alternanza che ricorda in pieno il modello bipolare che tanto ispira i politici nostrani. Nel caso presente la polarizzazione tra i due schieramenti è quanto meno assai più netta dei nostri centro-sinistra e centro- destra.  
Attualmente il governo è nelle mani del Left Democratic Front (LDF) che è costituito dai quattro partiti del Left Front, con l’aggiunta di altri partiti locali di minoranza.  
 
di Ninni Raimondi 
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L’alternanza va avanti da oltre quarant’anni. Nonostante ciò anche nel Kerala va riconosciuto alla sinistra di essere stata in grado di creare condizioni di uguaglianza invidiabili per la condizione complessiva dell’India. Anche qui la riforma agraria è stata una delle priorità del partito sin dalla prima affermazione nel 1957. L’entità della distribuzione non è comparabile con quanto fatto nel Bengala Occidentale, infatti, il fiore all’occhiello del CPI (m), molto partito maggioritario nel LDF, è indubbiamente l’elevatissimo tasso di alfabetizzazione raggiunto nel Kerala, in sostanza del 100 %, contro una media nazionale che si attesta intorno al 60 %. La principale caratteristica della politica del LDF nel Kerala è stata la partecipazione popolare. La coalizione, sin dagli anni ‘60, ha tentato di sviluppare un controllo democratico dal basso i cui sviluppi sociali (il 100% di alfabetizzazione ne è un esempio) sono di indubbio interesse. Tali sforzi hanno trovato strenua opposizione da parte dell’INC, forte anche del sostegno del governo centrale, ma gradualmente il Kerala è riuscito in un processo reale di decentralizzazione del potere, che ha raggiunto nella campagna nota come “People’s Campaign for Decentralized Planning”, lanciata dopo la vittoria del LDF alle elezioni governative del 1996, uno dei suoi livelli di coinvolgimento più alti. Dato l’indubbio interesse che quest’esperienza può suscitare, e al contempo l’estrema complessità della stessa, ci proponiamo di sviluppare un’analisi dell’esperienza del Kerala in un’altra sede, in modo da poter dare ampio spazio a tutte le analisi del caso. In quest’editoriale ci limiteremo a trarre un sommario giudizio in qualche maniera in linea con quanto detto nel caso delle politiche del CPI e dei vari partiti del Left Front nel Bengala Occidentale. 
 
Le politiche sviluppate nel Kerala hanno permesso conquiste sicuramente di non trascurabile spessore per la classe. La già citata alfabetizzazione nonché un’elevatissima organizzazione sindacale dei lavoratori (tutt’altro che comune su scala nazionale) sono solo alcuni esempi. D’altra parte l’atteggiamento riformista della coalizione è quantomeno altrettanto chiaro. Indicative sono le posizioni che il leader storico del LDF, nonché del CPI nel Kerala, E. M. S. Namboodiripad chiaramente espresse nei primi anni novanta e che invitavano l’INC, allora al governo nello stato, a cooperare per uno sviluppo concertato dei progetti di decentralizzazione del potere. Insomma una politica dal basso è sicuramente un elemento costitutivo del nuovo modello di società per cui noi tutti lottiamo, la matrice di classe di tale partecipazione democratica è però imprescindibile per infrangere le catene di sfruttamento del sistema attuale. Nell’esperimento del Kerala ci pare chiaro che si sia cercato una sorta di supporto bipartisan, atteggiamento a lungo termine fallimentare. L’incapacità di costituire un consenso duraturo ha reso impossibile alcun avanzamento reale rispetto alla modifica del sistema di produzione. Anche nel Kerala la risposta alla crisi e la crescente disoccupazione è stata l’apertura ai capitali privati. Seppur le contraddizioni non siano esplose in maniera chiara come nel Bengala Occidentale, e dunque il LDF non si è dovuto macchiare in questo stato di crimini e nefandezze schifose in termini di repressione come avvenuto nello stato roccaforte del CPI (m), ci pare di poter giungere alle stesse conclusioni sulle politiche dei principali (ma solo per numero di iscritti e sostenitori!) partiti comunisti indiani. 
 
E alle stesse conclusioni si giunge analizzando le posizioni del Left Front al livello nazionale. Negli ultimi mesi il lavoro della coalizione si è concentrato nella creazione di un fronte di opposizione popolare alle politiche neo-liberiste del governo centrale che hanno generato questo folle aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. C’è stata una discreta risposta popolare: durante le periodiche mobilitazioni chiamate dalla coalizione, è sceso in piazza un numero di persone che va dal centinaio di migliaia fino a sfiorare il milione. Fra le varie rivendicazioni del movimento: la lotta alla disoccupazione, l’introduzione di una sorta di salario minimo garantito per la popolazione urbana (per la popolazione rurale durante il precedente governo INC è stato introdotto un qualcosa di simile che va sotto il nome di NREGA, National Rural Employment Gurantee Act), una politica economica che fermi l’inflazione dei beni alimentari di prima necessità e soprattutto lo stop alle violenze maoiste. Ciononostante, la prospettiva di un mondo nuovo privo di oppressione e sfruttamento sia completamente assente dalla propaganda del CPI e vari; è proprio quest’assenza che smaschera la completa infermità dell'alleanza al sistema capitalistico indiano. Interna a tal punto da richiedere l’intervento del braccio armato del padronato contro le offensive maoiste. 
 
GUERRA DI GUERRIGLIA 
Repressione della peggior specie è, appunto, pane quotidiano per quello che rappresenta l’unico gruppo impegnato in un’insorgenza armata nella nazione: i Maoisti. Senz’altro la comprensione dei limiti e prospettive di questo movimento rappresenta una dei temi più interessanti. Cercheremo dunque in questa sede di abbozzare un’analisi, sviluppando per quanto possibile la complessità che il Naxalbari Movement rappresenta. É impossibile parlare di maoismo in India senza ricollegarlo con la brutale e quotidiana repressione da parte delle forze dell’ordine. Dunque lo sviluppo delle prospettive di insurrezione armata in India ci permetterà di capire anche il livello di repressione da parte dei vari poteri locali a braccetto con il potere centrale (abbiamo visto che da questo punto di vista anche i cosiddetti “stati comunisti” non fanno eccezione). Abbiamo già accennato a qualche dato storico sulla nascita del movimento che prende vita nel 1967 con la ribellione nel villaggio di Naxalbari nel Bengala Occidentale. Proprio l’atteggiamento rispetto a quest’avvenimento causò una delle molteplici scissioni del fronte comunista. In particolare questa fu la volta della separazione tra CPI e CPI (ml). Il CPI (ml) si è poi frammentato in decine di nuovi gruppi negli anni successivi. La formazione del CPI (maoist) è avvenuta solo recentemente, per la precisione nel 2004, quando due dei molteplici gruppi generati dalla creazione del CPI (ml), hanno deciso di riunire le forze per guidare l’insurrezione armata. Quando si parla di maoisti, ci si riferisce in generale a quella parte del Naxalbari Movement rimasto fedele alla linea della lotta armata. Vari slittamenti semantici hanno fatto si che si utilizzassero i termini Maoisti e Naxaliti come sinonimi gli uni degli altri, noi faremo lo stesso. Il movimento maoista ha vissuto in questi cinquant’anni momenti enormemente complicati in cui lo stato indiano sembrava avesse sconfitto l’insurrezione armata.  
 
Nonostante ciò i Naxaliti sono sempre riusciti a resistere alla disarticolazione e in questo periodo hanno raggiunto un livello di organizzazione e forza senza precedenti. Abbiamo detto che il movimento si è originato nel nord ovest del Bengala Occidentale. Per un periodo i maoisti sono riusciti a estendere la propria influenza anche nella parte Nord dell’Andra Pradesh (AP), che ha rappresentato per anni la loro roccaforte. Fu proprio nell’Andra Pradesh che il movimento ha visto la repressione più brutale che ne ha decimato la presenza politica. A tal punto che oggi è difficile annoverare l’AP tra gli stati d’influenza maoista, nonostante si sia parlato di una rinascita del movimento maoista sulla scia dei violentissimi scontri che hanno caratterizzato il secondo Telangana movement, scoppiato non più di qualche mese fa dopo l’annuncio del governo centrale della possibile separazione dalla regione del Telangana, a maggioranza Telagu, dal restante Andra Pradesh. L’attuale movimento maoista si concentra prevalentemente nella zona centrale dell’India centrale: parti non irrilevanti degli stati del Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa, Bihar e Bengala Occidentale sono oggi controllati dai ribelli. Le ragioni del fortissimo supporto popolare che indubbiamente i maoisti riscuotono in queste regioni ha due matrici distinte tra loro. In primo luogo tutte queste regioni, seppur siano tra le meno industrializzate dell’India, hanno la caratteristica di essere molto ricche di minerali e metalli, nonché di uranio. L’intera area è assolutamente selvaggia e presenta fitte foreste, ideale, infatti, per azioni di guerriglia. Proprio l’inaccessibilità di queste risorse ha permesso ai milioni di persone che abitano l’area di sfuggire alla schiavitù, per anni. In tempi recenti la situazione è, però, fortemente cambiata data l’apertura alle multinazionali straniere e la forza sviluppata dalla stessa borghesia nazionale (vedi TATA), ormai in grado di accedere alle ricchissime risorse della zona. Inutile dire che la bramosia di profitto delle multinazionali ha trovato porte spalancate negli ultimi due governi UPA che hanno iniziato operazioni di rastrellamento della zona per accontentare le aspirazioni padronali. Non c’è da sorprendersi che il ministro degli interni indiano sia stato per anni nella direzione della Vedanta, una multinazionale dell’alluminio, desiderosa di poter mettere le proprie mani grondanti di sangue sulle risorse dell’Orissa e Chhatisgarh.  
Il popolo Adivasi, ovvero la parte tribale della popolazione di quelle zone, ha però una storia di ribellioni e resistenza. Questo, associato al fatto che i maoisti, sotto nomi e frazioni di vario genere, hanno lavorato per decadi in quelle zone per la creazione di una coscienza di classe e sviluppo di lotte organizzate, ha generato fin da subito una fortissima risposta popolare ai tentativi di rapina orchestrati dalle forze dell’ordine. I ribelli Naxaliti sono l’unica forza politica indiana che dia un sopporto reale alla resistenza del popolo Adivasi, non c’è da sorprendersi che godano dunque di un supporto genuinamente popolare molto forte e radicato. La resistenza alla sicura schiavitù conseguente alla cosiddetta industrializzazione è la prima, seppur molto principale delle due ragioni. La seconda deriva dalle condizioni molto arretrate, in particolare dal punto di vista sociale, in cui è costretta l’intera area. Nello specifico l’organizzazione dei villaggi è marcatamente maschilista e moltissimi sono gli episodi di estrema discriminazione. Numerose sono state anche le battaglie condotte dai ribelli in favore del superamento nella divisione di sesso e caste nell’india tribale. E molte sono state le donne che hanno abbandonato la propria realtà di oppressione e abbracciato la guerriglia. Il numero di donne coinvolte nell’insurrezione maoista è, infatti, sorprendente alta, e tocca quasi il 50 % del totale dei militanti. 
 
Nonostante il movimento maoista sia, genuinamente, rivoluzionario è necessario interrogarsi sulle reali possibilità di riuscita dell’insurrezione armata per la conquista finale del potere e il conseguente rovesciamento del governo capitalista indiano. Su questo punto il movimento pare essere abbastanza arretrato. Un modello rivoluzionario maoista, e in particolare quello attuato dai ribelli Naxaliti, vede nell’insurrezione delle masse contadine e delle zone rurali in generale, il perno su cui articolare la conquista del potere. La condizione dell’India nel 2010 è però molto diversa da quella della Cina degli anni ‘40 e ‘50. Più precisamente l’area tribale del centro dell’India è quella che più si avvicina alle condizioni in cui versava la Cina ai tempi di Mao, con un tessuto industriale inesistente, enorme povertà diffusa e ampie sacche che sfuggono completamente al controllo dello stato centrale. Non è però così in altre parti dell’India. Non annoverare l’India tra i paesi a pieno sviluppo capitalistico sarebbe un errore d’analisi enorme vista la forza della borghesia nazionale che si è sviluppata in particolare negli ultimi anni. Come sempre l’India è anche il paese dei contrasti tra i più stridenti. Nonostante il 70 % della popolazione viva in zone rurali di agricoltura e spesso organizzata in strutture feudali, la condizioni nelle grandi metropoli del paese è radicalmente distinta. Enormi masse di schiavi salariati affollano baraccopoli assolutamente fatiscenti, vittime dello sviluppo in un sistema di produzione capitalistico con tanto di apparato di repressione a tenere sotto controllo i centri di potere. Se nelle campagne si vive uno stato di quasi anarchia con intere aree in cui lo stato indiano è completamente inesistente, nella metropolitana di Delhi telecamere, metal detector e militari armati di mitra fanno, ormai, parte dell’arredamento. 
 
Il movimento maoista è in concreto inesistente nella situazione metropolitano. Così come inesistente è lo sforzo dei maoisti per organizzare gli operai e i lavoratori coinvolti nel tessuto industriale. Non si vuole sottovalutare il ruolo cruciale della popolazione rurale in un’India prevalentemente contadina, ma a noi appare chiaro che in un paese capitalistico le catene dello sfruttamento padronale possono essere spezzate solo con una piena coscienza operaia. Questo non pare essere il modello rivoluzionario seguito dai ribelli Naxaliti. Una fetta dei partiti comunisti di stampo leninista, come il CPI (ml) e CGPI, e che lavorano quotidianamente per l’organizzazione delle lotte operaie, hanno scelto, però, strade molto diverse rispetto al CPI (m) e Left Front nel svolgersi una relazione con i maoisti. Aperte critiche sono state portate avanti da parte di queste forze Marxiste-Leniniste alla linea rivoluzionaria maoista. Va anche detto che fino a questo punto il governo centrale ha mobilitato solo una minima parte della propria capacità militare. Questo non vuol dire che i maoisti non siano stati vittime di una repressione feroce e barbarica, ma semplicemente che le forze di polizia che fronteggiano i ribelli Naxaliti nelle foreste sono armate in maniera disastrosa, e spesso mancano addirittura di beni di prima necessità come cibo e vestiario appropriato. Non è chiaro come interpretare quest’atteggiamento dello stato indiano, ma c’è anche chi sostiene che i maoisti possano in qualche maniera essere funzionali allo stato centrale cui è così servita sul piatto d’argento una legittimazione per la perpetuazione delle barbariche violenze, anche nelle aree fuori dal controllo maoista, finalizzate a poter finalmente mettere le mani sulle enormi risorse naturali delle foreste dell’India centrale. 
 
Repressione dicevamo. L’atteggiamento delle forze di polizia nell’intera area tribale ricorda atteggiamenti medievali più che di repressione sistematica. Non si contano gli episodi in cui la polizia ha incendiato interi villaggi, stuprato donne ed effettuato uccisioni sommarie di cui ovviamente la propaganda borghese non parla affatto. Va da sé che l’atteggiamento dei giornali e delle televisioni cambia radicalmente nel dipingere, invece, gli attentati terroristici dei sanguinari maoisti contro le eroiche forze di polizia. Dopo la riorganizzazione del movimento maoista nel 2000 con la formazione del People Liberation Guerrilla Army (PLGA) le operazioni anti-ribelli, che già non andavano poi tanto per il sottile, si sono notevolmente intensificate. La prima grande operazione per sradicare la resistenza Adivasi è iniziata nel giugno del 2005 con l’indizione da parte del governo del Chattisgarh, supportato dal governo centrale guidato dall’INC, della Salwa Judim (letteralmente Caccia di Purificazione) in cui la polizia locale avrebbe dovuto costituire dei campi di accoglienza sorvegliati e controllati, dove far confluire la popolazione rurale per poterla controllare e addestrare a combattere i ribelli. Queste speciali forze di polizia tribali erano appunto chiamate “Special Police Officers” SPO. Chiaramente le metodologie per convincere la gente ad abbandonare le proprie case sono state delle più democratiche. Il primo ministro del Chattisgarh dichiarò che chiunque non avesse lasciato i propri villaggi sarebbe stato considerato un maoista e trattato conseguentemente. Il primo villaggio fu bruciato solo qualche giorno dopo l’inizio dell’operazione. A esso seguirono una serie di violenze tanto numerose che è impossibile anche pensare di riportarle tutte. Sfortunatamente il risultato di quest’operazione di repressione massiccia non fu quello sperato. Le file maoiste si espansero enormemente in questo periodo, facendo perno su un’enorme parte della popolazione tribale che a causa delle violenze della polizia era stata privata di tutto, oltre ad aver maturato un senso di rabbia e voglia di giustizia. Ne conseguì un aumento nella capacità militare del movimento che presto passò alla controffensiva iniziando azioni di guerriglia contro la polizia regolare e gli SPO. La Salwa Judim è stata recentemente dichiarata conclusa con un totale fallimento. 
 
Un paio di dati sono interessanti per capire quanto l’interesse delle multinazionali sia centrale nella zona. La Salwa Judim è stata indetta giusto il giorno dopo il raggiungimento di un accordo che si aggira attorno al miliardo di euro tra la T.A.T.A. e il governo BJP dello stato del Chatisgarh, per la costruzione di una fabbrica di acciaio nella regione. Nonché da vari report pare che la stessa TATA e l’Essar Steel, un’altra compagnia nel campo dell’acciaio, siano stati tra i maggiori finanziatori dell’operazione. Dopo il fallimento della Salwa Judim, lo stato indiano, visti soprattutto gli interessi coinvolti nell’area, ha rilanciato dando inizio all’operazione Green Hunt.  
 
In quest’operazione, la cui esistenza è stata ripetutamente negata dal ministro dell’interno Chidambaran, sono state mobilitate non solo le forze di polizia locali ma anche quelle federali, in altre parole del Central Reserve Padra Force (CRPF).  
 
Ed è proprio un battaglione delle CRPF che è stato letteralmente decimato il 6 aprile scorso in quella che rappresenta la più grande operazione della storia degli oltre cinquant’anni d’insurrezione maoista in India: nel sud del Chattisgarh, precisamente nelle foreste del Dantewada, 120 agenti delle (CRPF) sono caduti in un’imboscata orchestrata dai ribelli Naxaliti. Di questi solo quarantaquattro sono riusciti a sopravvivere.  
Quest’evento dimostra chiaramente quanto, il movimento maoista, sia molto forte. Ci sarà da vedere i connotati che la repressione assumerà nei mesi a seguire e se i ribelli Naxaliti sapranno, come fino ad ora hanno sempre fatto, incrementare il proprio supporto popolare anche da quest’ennesima ondata repressiva. 
 
 
 
 
20  Giugno 2013