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Patti Smith compie 70 anni 
 
 
Il 30 dicembre Patricia Lee Smith compie 70 anni.  
La sua storia è stata condensata in tre cliché: poetessa del rock, signora del punk, sacerdotessa della musica.  
 
Ma chi era davvero quella ragazzina che inseguiva i poeti? “Nessuno mi stava aspettando, tutto mi aspettava”, ricorda del suo arrivo a New York, la città che cambiò tutto. 
 
 
New York, primi anni Settanta.  
Una passeggiata nel lato selvaggio. Al numero 213 di Park Avenue South di New York, tra la 17ª e la 18ª strada, è molto tardi ma dentro vibra la vita. Little Joe ha le palpebre coperte di brillantini, un nastro di raso stretto al collo, il chiodo spalancato sul petto e due mollette da bucato sui capezzoli; Rene Ricard, circondato da bottiglie di champagne vuote e resti di cibo, sta facendo sesso in pubblico con un ragazzo di colore tutto nervi e muscoli con il volto coperto senza che nessuno faccia una piega; la stanza sul retro è come sempre occupata da Andy Warhol e dal suo entourage: impossibile entrarci se non si è invitati; nella toilette dalle piastrelle rosa antico Angela Bowie, con il viso sempre più somigliante a quello di Ziggy Stardust, abbraccia Cyrinda Foxe; fuori dal locale, Jackie Curtis e Guy Heron sono appena arrivati in taxi: uno indossa solamente un paio di slip a pois, l'altro ha una tuta impermeabile lunga fino alle caviglie. 
 
Gli anni Sessanta sono appena finiti e il Max's Kansas City è il club che rappresenta un nuovo fulgore artistico, un ponte sconnesso tra il mondo beatnik e il rock&roll, e diventa subito il punto di ritrovo preferito di musicisti, pittori, performer, drag queen e provocatori di ogni sorta che cercano di sbarcare il lunario nella Grande Mela. Mentre i sotterranei del CBGB's sono il luogo caldo dove far deflagrare i semi del punk, il Max's è la controparte più glamour, volatile e tutto sommato sofisticata. Molti, nelle foto che documentano quella lunga, calda stagione, sono rimasti 'unidentified', volti 'non identificati', altri semplicemente dimenticati oppure persi per strada. 
 
Sul palco c'è una ragazza di quasi 175 cm di statura per neanche 50 chili di peso. È arrivata da appena due anni e in quel club pieno di fumo e di caos creativo sta cercando di tenere a bada le battute di quei pochi elementi che le prestano attenzione. Si chiama Patricia Lee Smith e sta recitando una sua poesia, accompagnata dalle note del chitarrista, l'amico che non la abbandonerà mai, Lenny Kaye. È lì per via di un errore. E' l'estate del 1966, ha 19 anni, quando concepisce la prima figlia. È successo, non c'è altro motivo. “Mi sono cacciata nei guai”, si confida nelle pagine di Just Kids, il libro vincitore del National Book Award per la saggistica nel 2010 che raccoglie i ricordi sulla sua vita col fotografo, partner artistico e anima gemella Robert Mapplethorpe. 
 
Patti Smith, 70 anni sempre in lotta: poesia, rock, politica e spiritualità 
Patti non pensò nemmeno per un attimo di coinvolgere il padre della bambina, un ragazzino di 17 anni: rimase seduta per un attimo, con le mani nelle mani, a contemplare la sua casa famigliare, i panni da lavare, le camicie del padre da stirare; e il tavolino sopra il quale aveva poggiato le matite da disegno e il blocco per gli schizzi sul quale disegnava i mondi costruiti dalla sua immaginazione. “Decisi che non sarei tornata in fabbrica né a scuola. Sarei diventata un'artista. Avrei dimostrato il mio valore”: Patti viene allontanata dal college statale per insegnanti di Glassboro, nel New Jersey, dopo aver dato in adozione la bambina nata con la luna piena, nata nell'anniversario del bombardamento di Guernica. Non poteva mantenerla. “Anche se non ho mai messo in dubbio che me ne sarei separata, ho imparato che concedere una vita e poi abbandonarla non è così facile”. 
 
Chicago, 1946.  
Nata nella tempesta. Non c'era un'aria dolce né la luna piena quando era toccato a lei venire al mondo. Patricia Lee Smith è nata il 30 dicembre, un lunedì, nel North Side di Chicago, all'epoca della grande bufera di neve del 1946. Una famiglia numerosa, umile, la sua: era la quarta figlia e la maggiore, nata da Beverly Smith, una cantante jazz che per sopravvivere era diventata cameriera, e Grant Smith, macchinista negli impianti Honeywell, il polo industriale che dava da mangiare a tante famiglie. Chicago è una città che non fa sconti. D'altronde, quale città degli Stati Uniti li fa? “Sono venuta al mondo con un giorno d'anticipo, troppo presto, perché i bimbi nati l'ultimo dell'anno venivano dimessi dall'ospedale con un frigorifero nuovo”, racconta nel suo memoir. “Mia madre ce la mise tutta per trattenermi ma entrò in travaglio a bordo del taxi che arrancava in un turbinio di neve e vento costeggiando il lago Michigan. Secondo il racconto di mio padre vidi la luce che ero un esserino lungo e scheletrico con la broncopolmonite e lui mi salvò la vita sorreggendomi al di sopra di una tinozza fumante”. 
 
Appariva come un ragazzetta longilinea che poteva spezzarsi con un solo tocco e il padre, che non la considerava abbastanza attraente per trovare subito marito, l'avrebbe indirizzata immediatamente sul mercato del lavoro. In realtà stava per diventare una donna che non avrebbe mollato mai. Era convinta che la strada da percorrere fosse la stessa, tormentata strada battuta dai poeti. “Disegnavo, ballavo e scrivevo poesie”, racconta di quando aveva 14 anni. “Non ero certo talentuosa, però avevo molta immaginazione e i miei insegnanti mi incoraggiavano. Quell'estate trovai lavoro in una fabbrica; ispezionavo manubri per tricicli. Era un posto miserabile. Lavoravo a cottimo e nel frattempo mi rifugiavo nella fantasia”. Quei momenti sono condensati nel lato B del suo primo singolo, uscito nel 1974. In Piss Factory, letteralmente “Fabbrica di m***a”, canta: “Diventerò qualcuno / Salirò su un treno, andrò a New York City / Sarò così cattiva, diventerò una grande star e non tornerò mai più / Non tornerò, no, non farò mai ritorno per esaurirmi dentro questo stabilimento di m***a”. 
Aveva provato a cercare, una volta arrivata in quell'El Dorado che aveva lo skyline di New York, un po' ovunque. Aveva battuto ogni libreria possibile per trovare un impiego. Tra i libri, l'unico posto dove si era sentita a suo agio. In quel periodo, quando ha solo 20 anni, Patti dorme dove capita.  
Negli androni dei portoni, sui vagoni della metropolitana che girano in tondo e finiscono al capolinea, una volta persino in un cimitero. Incontra altri sognatori come lei, coi piedi nudi e i sandali in spalla, dai quali impara i trucchi e conosce i luoghi per procurarsi qualcosa di fresco e decente da mangiare. Saranno i compagni bohémien di una manciata di giornate. 
 
La sua ossessione si concentrava soprattutto su Arthur Rimbaud, ma anche Sylvia Plath, negli anni della formazione, prima delle canzoni, fu per lei fondamentale. Patti si perdeva nei libri, sempre.  
“Rimbaud rappresenta il cuore della giovinezza ed è il cuore della curiosità, dell'entusiasmo e di una mente elevata. Il suo spirito è ovunque, è qui proprio ora, è nelle nostre mani”, aveva dichiarato nel 2011, quando era stata chiamata, in Francia, a celebrare i 120 anni dalla morte del poeta. Il fato: è esattamente nel giorno in cui decide di partire per New York che s'imbatte per la prima volta nello sguardo “borioso” di Rimbaud che la guarda dalla copertina di Illuminazioni. Il libro, che spuntava da una bancarella davanti alla stazione, costava 99 centesimi ma lei non aveva nemmeno quelli.
 
 
 
 
 
Lo mise in tasca lo stesso, perché era necessario. “In fabbrica lavoravo con un gruppo di donne bisbetiche e analfabete”, ricorda, “mi lasciai tormentare in suo nome, nel nome di Rimbaud; col sospetto che fossi una comunista, poiché leggevo un libro in lingua straniera, mi avevano minacciata nei gabinetti esortandomi a sconfessarlo. Era in quell'atmosfera che ribollivo. Era per lui che scrivevo e sognavo. Divenne il mio arcangelo; seppe liberarmi dagli orrori quotidiani della vita in fabbrica”. Lei, dagli stereotipi, da un'elevazione a genio che le è stata attribuita ma che non le è mai appartenuta, si è sempre tenuta però a distanza. Patti Smith era solo una che ci credeva così tanto da finire per farcela. Era testarda e non si arrendeva davanti a nessuna sfida. “Sono una donna che lavora duramente perché l'arte richiede disciplina”, ha spiegato in un recente passaggio nella sua seconda patria, l'Italia, il paese che adora e che l'ha sempre accolta con grande affetto. “Sono una semplice operaia delle parole, delle note. Ho studiato la Bibbia, ho una connessione spirituale con l'universo ma considero questa materia molto più complessa rispetto al rock. Forse nel mio modo di porgere le canzoni c'è qualcosa di sciamanico, ma non è voluto”. 
 
1967.  
Un biglietto di sola andata. “Non c'è nessun luogo che ti seduce e ti perverte e ti ispira come New York”: è l'estate del 1967, l'estate in cui muore John Coltrane, l'estate in cui Jimi Hendrix incendia la sua chitarra, l'estate in cui la ragazza Patti Smith incontra un altro ragazzo, Robert Mapplethorpe. Ha solo due mesi più di lei. Quando sale sul treno per lasciare la famiglia e la fabbrica e tutto quanto apparteneva alla sua vecchia vita, ha solo una valigia con dentro il blocco da disegno, delle matite, qualche indumento e un indirizzo scritto su un foglietto. È quello di alcuni suoi amici, studenti del Pratt Institute, la scuola di arte e design di Brooklyn. Pensava che forse avrebbero potuto aiutarl a entrare nel loro ambiente, avrebbe potuto imparare da loro. Un'artista: questo voleva essere. Quando giunge di fronte al portone indicato sullo scampolo di carta, non c'è nessuno: i suoi amici si sono trasferiti altrove. Sale le scale, nella stanza spoglia c'è un ragazzo che dorme su un letto di ferro. Ha folti ricci scuri e una collana di perline sul petto nudo. Si volta, le sorride. Lei non gli chiederà il nome. Senza dire molto, la porterà dove avrebbe potuto aspettare quei suoi amici. Non arriveranno mai. Patti è ancora sulla strada. 
Ma New York la abbraccia continuamente. Le lancia, ad ogni angolo, ad ogni caffè, tra le panchine dei parchi, segni di buon auspicio. Quando ha fame, qualcuno le offre del cibo. Quando è senza soldi, trova degli spiccioli nell'erba, quando sta per telefonare alla sorella, per tornare a casa, dentro la cabina telefonica, appoggiata sotto il ripiano, una borsa: c'è dentro un amuleto e un portafoglio con 32 dollari che le permettono di rimanere. “Contro i miei migliori propositi mi tenni i soldi, ma lasciai la borsetta nella speranza che la proprietaria potesse almeno ritrovare il medaglione. Non c'era nulla che sapesse rivelarmi la sua identità. Posso soltanto ringraziare”. 
Quando cerca un lavoro, lo trova quasi subito. Diventa cassiera in una delle librerie della catena Brentano, sulla quinta strada, dove vende gioielli etnici e manufatti d'artigianato. Avrebbe preferito stare nel reparto poesia. Poi, entra lui. È vestito elegantemente, ha una camicia bianca e la cravatta. Non lo riconosce subito, l'aspetto è completamente diverso da quando lo aveva visto sdraiato in quella stanza spoglia, buttato su una branda. “Somigliava a uno scolaretto cattolico”, ricorda Patti. Cominciano a parlare: anche lui lavora da Brentano, in un altro punto vendita. Un giorno, quando in cambio di un pasto Patti accetta di uscire con uno scrittore di fantascienza molto più vecchio di lei che le è stato presentato dal responsabile della libreria, riesce a scampare a un finale indesiderato. Ancora una volta, la terza, mentre stanno attraversando il parco di Tompkins Square e l'uomo le ha proposto di salire a casa sua, incontra quel ragazzo pallido con i ricci arruffati. “Mi guardai in giro con disperazione, incapace di rispondere a quella proposta, quando scorsi un giovane avvicinarsi. Fu come se uno squarcio di futuro si fosse aperto”. Lui stava camminando in quel modo dinoccolato nella sua direzione. Lei si alzò di scatto, gli saltò al collo e gli sussurrò: “Ciao, ti ricordi di me? Mi serve una mano. Faresti finta di essere il mio ragazzo?”. 
Era l'estate in cui i quarti di dollaro lasciati scivolare dentro al juke-box da Patti somigliano tanto alle monetine gettate con gesto scaramantico dentro un pozzo della fortuna. Era l'estate in cui Robert Mapplethorpe diventerà il ragazzo che accompagnerà Patti per mano, la vedrà crescere e trasformarsi da vagabonda sognatrice in “donna con le palle”. Patti avrebbe recitato poesie nelle serate 'open mic' al Mercer Arts Center del Village, scritto e recitato per il teatro 'off', si sarebbe improvvisata giornalista musicale e poi sarebbe salita su un aereo verso Parigi alla ricerca dei fantasmi di Rimbaud e Verlaine. 
È il novembre del 1975 quando con Lenny Kaye mette insieme, definitivamente e con un gruppo più consistente di musicisti, rock e poesia: lo spettacolo si intitola Rock n'Rimbaud, dura quattro serate, e in pratica coincide con la nascita del Patti Smith Group. È la visione new wave della Grande Mela, il primo disco, il più folgorante, Horses. La foto di copertina la scatta quel suo vecchio amico, Robert. Patti ha scelto una camicia bianca tra quella montagna comprata all'Esercito della Salvezza sulla Bowery. Ne sceglie una con delle iniziali sotto il taschino. Di quei giorni, Patti si ricorda tutto, li descrive con dettagli puntigliosi, meticolosi: la luce mattutina di un giorno molto nuvoloso, quello che aveva mangiato di corsa (un panino con olio d'oliva, acciughe e menta fresca, che Rob invece rifiuta), l'agitazione. “Tagliai via i polsini per indossare la camicia sotto la giacca nera, che adornai con una spilla a forma di cavallo. Robert venne a prendermi. Finii di prepararmi: pantaloni neri col risvolto, calze bianche di filo di Scozia, Capezio nere (scarpe da ballo, ndr)”. I capelli di Patti sono una zazzera spettinata. La stanza è vuota, totalmente bianca, con una sola pianta in un angolo. Non ci sono assistenti. Robert scatta in tutto dodici fotografie. “Io avevo in mente il mio aspetto. Lui aveva in mente la luce. Ancora oggi, quando la guardo, non vedo me stessa. Vedo noi”. Due ragazzi. 
 
2016.  
Vivere d'arte. Quarant'anni dopo quel disco, il disco che l'ha fotografata come la donna prototipo del punk, che l'ha resa una delle figure femminili più influenti agli albori del rock newyorkese, Patricia Lee Smith salirà di nuovo su un palcoscenico per cantarlo. Ha scelto quello del Riviera Theatre di Chicago, la metropoli che l'ha battezzata avvolgendola e cullandola tra le gelide mani di una bufera di neve, e ha scelto il giorno del suo settantesimo compleanno. “L'anno sta per arrivare alla fine; il 30 dicembre suonerò Horses con la mia band, mio figlio e mia figlia, nella città in cui sono nata. Penserò a entrambi loro”, scrive sul New Yorker parlando dei genitori, in un pezzo in cui racconta cosa si prova a cantare - e a rimanere schiacciata dall'emozione - alla cerimonia per l'assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Probabilmente, Patti quando salirà su quel palco penserà anche a tutti coloro che l'hanno accompagnata, in quell'estate calda in cui il destino le ha messo in mano qualche moneta, e qualche amico. 
Uno: Rob, che le ha insegnato la strada e, in punto di morte, gliel'ha indicata ancora, con una telefonata e poi con una melodia. “Quando morì mi chiamò Edward. Il fratello minore di Robert. Diceva di avergli dato un ultimo bacio da parte mia, come mi aveva promesso. Sono rimasta immobile, paralizzata; poi, lentamente, come in sogno sono tornata alla sedia. In quel momento Tosca attaccava la grande aria Vissi d'arte. 'Vissi d'arte, vissi d'amore'. Ho chiuso gli occhi e intrecciato le mani. La provvidenza aveva decretato che in quel modo gli avrei detto addio”. Patricia Lee Smith: 70 anni di arte, 70 anni di amore. Tre parole per lei: ribellione, libertà, rock'n'roll. 
di Ninni Raimondi 
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                                                                                            31 Dicembre 2016