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La stetta di mano di Putin 
di Ninni Raimondi 
 
"Putin porta Iran e Turchia a un audace piano di pace per la Siria", titola il britannico Guardian sul vertice tra i tre leader a Sochi, dove del resto il giorno prima era stato ricevuto Bashar Al- Assad. È solo l’ultima tappa di una precisa strategia che vede ormai Mosca non solo più come crocevia dei destini mediorientali, e nemmeno semplice tappa di confronto obbligato come è stato sino all’apparire di Trump sulla scena internazionale: la Russia è ormai non solo a pieno diritto un player internazionale, ma il king maker dei destini del Medio Oriente. E per quella pur complessa via, aspira con determinazione a scrivere il nuovo ordine mondiale. 
Si sa che in politica non esistono spazi vuoti, e anche in diplomazia se si lascia libero il campo esso viene rapidamente riempito. E la confusione, a dir poco, in cui a ormai quasi un anno dall’insediamento di Trump versa la politica americana, con la leadership del mondo libero preda della confusione trumpista, e ridotta a tweet postprandiali prontamente smentiti dal primo dei sottoposti ( di fronte alla minaccia di attacchi alla Nord Corea i generali han fatto pubblicamente sapere che nessuno di loro ubbidirebbe all’ordine di sganciar bombe, tantomeno nucleari), ha lasciato a Vladimir Putin e al suo ministro degli Esteri Sergeji Lavrov, una prateria. 
 
La foto del nuovo tavolo di pace sulla Siria, con Putin che riesce a far stringere sulla sua le mani del leader iraniano sciita Hassan Rouhani e quelle del sunnita turco alleato della Nato Recep Erdogan, sorridenti come moschettieri con alle spalle le bandiere dei rispettivi Paesi, è la plastica rappresentazione di quanto è in atto. Non solo Trump era stato avvisato del vertice di Sochi con una telefonata di cortesia solo il giorno prima, come del resto anche il re Saud, Netanyhau, e Al Sisi. In contemporanea da Teheran, tornata ad essere il diavolo per gli Stati Uniti, Rouhani decretava «sconfitto definitivamente l’Isis», e «terminata la guerra». Diplomaticissimo memento per Washington: in prima linea contro Daesh, da quel lontano settembre 2015, ci son militarmente stati anzitutto gli iraniani, e i russi. Oltre ai curdi appoggiati (anche se solo fino a un certo punto) dagli americani, e che per Erdogan restano comunque "terroristi", «bande sanguinarie». 
Quel che accade attorno alla Siria, al sesto anno di guerra, è interessante proprio per comprendere la strategia di Putin, affiancato da un ministro degli Esteri di lungo corso come Lavrov, considerato da tempo come uno dei più abili diplomatici, molto al di sopra anche degli standard occidentali attuali. Il verrice di Sochi convocato a ridosso alla consueta riunione che sulla questione siriana si terrà il 28 novembre a Ginevra è la
replica di quanto già accaduto ad Astana prima di un altro vertice ginevrino lo scorso febbrario. Stavolta, per giunta, l’incaricato speciale dell’Onu Staffan De Mistura volerà prima a Mosca da Putin. E soprattutto, stavolta, sul piatto di Ginevra Putin e Lavrov metteranno la soluzione concordata con Iran e Turchia, attori strategici della questione: Bashar Al Assad, rafforzato proprio dai tre moschettieri di Sochi, e saldo tra le macerie della Siria nel suo palazzo di Damasco, è disposto a concedere una revisione della Costituzione e libere elezioni sotto il controllo dell’Onu. 
La vulgata occidentale, che per usare un eufemismo non dispiace all’attuale amministrazione Usa, è che la colpa sia di Barack Obama e Hillary Clinton, fermi nell’obiettivo di volere vedere Bashar Al Assad uscire di scena, e imbelli di fronte alla tragedia di Siria. Le cose stanno però in maniera diversa. Hillary Clinton uscì di scena, ufficialmente per motivi personali, anche per la sua posizione che era invece interventista. Obama rigettò con un escamotage la possibilità di intervento diretto, che intendeva attuare solo dopo un ( impossibile) via libera del Congresso. Ma gli Stati Uniti hanno mandato sul campo consiglieri militari, e anche armato fazioni anti- Assad, continuando a partecipare con John Kerry a tutti i tavoli multilaterali sulla Siria. E questo perché dopo lo sfacelo della guerra di Bush in Iraq e Afghanistan ( costate al contribuente americano secondo calcoli del Pentagono qualcosa come mille miliardi di dollari) Obama voleva veder chiaro sul dopo Assad: non replicare, insomma, la scellerataggine bushista di destabilizzare regioni cruciali sotto il profilo geopolitico ed energetico senza saper come gestire il dopo. In quei tavoli di trattativa ai quali oltre alle parti in causa e alle fazioni siriane partecipavano anche Ue, Onu, Russia, Cina, finché alla Segeteria di Stato c’era John Kerry, il dopo- Assad era in discussione: e quel che si profilava è che potesse rimanere, ma nelle vesti di capo della comunità alawita. Qualcosa di ben diverso da quel che si intravede oggi. 
 
Con il cambio di amministrazione Usa, dunque, Putin ha avuto gioco facile a introdursi negli scenari geopolitici, svolgendo un ruolo di leadership globale.  
Chi crede sia solo in vista delle presidenziali che si terranno in Russia nel marzo 2018 coltiva illusioni.  
Nel vuoto lasciato dall’amministrazione Trump, la cui politica internazionale per ora consta di molti tweet e moltissime smentite del day after, il rischio è che a disegnare il nuovo ordine mondiale sia Putin. E pensare che l’urgenza di un nuovo ordine mondiale era stata indicata dal vecchio buon Henry Kissinger ... .
Licenza Creative Commons 10 Dicembre 2017