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Wahabita e la svendita della Palestina 
di Ninni Raimondi
 
 
La dinastia wahhabita e la svendita della Palestina 
 
 
1- Un regno fondato su una impostura 
Schiava degli Inglesi nel XX secolo, la dinastia wahhabita ha svenduto la Palestina in cambio di un trono. Dipendente dagli USA nel XXI secolo, per mantenersi questo trono e a onta di qualche protesta formale, essa ha approvato, con la sua tacita connivenza, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, ultima tappa dell’annessione della Palestina. Senza alcuna vergogna, è giunta a rendere onore all’artefice del “Muslim Ban” (il bando contro gli immigrati), Donald Trump, il presidente più xenofobo della storia statunitense, arricchendo il complesso militar-industriale USA con 380 miliardi di dollari, per sottrarsi ai fulmini della giustizia statunitense, a causa del suo coinvolgimento nel raid terrorista dell’11 settembre 2001, sulla base della legge Jasta. 
Quasi cento anni dopo il suo emergere sulla scena internazionale, la dinastia wahhabita, la più fedele alleata delle potenze occidentali, l’alleata sottobanco di Israele, la nemica più accanita del Movimento nazionale arabo, la più risoluta nella sua guerra contro la nozione stessa di “liberazione”, l’incubatrice assoluta del terrorismo islamista takfir radicale, uno dei grandi incendiari del pianeta, si rivela essere la dinastia più catastrofica e malefica per il Mondo arabo e l’islam. 
Per opera sua, cento anni dopo la promessa Balfour, il "Focolare Nazionale Ebraico" è così diventato il “Grande Israele”, e la Palestina un bandustan (territori assegnati nel Sudafrica dell’apartheid alle etnie nere) palestinese in balia degli Israeliani. Un risultato che testimonia della potenza delle lobbie ebraica in Occidente, della paralisi che ha colto il Mondo occidentale sulla questione ebraica, a causa del suo coinvolgimento nel genocidio hitleriano, al quale né i Palestinesi, meno che mai gli Arabi e i Mussulmani hanno preso parte. 
Facendosi beffa della legalità internazionale, il Grande Israele appare così retrospettivamente come una compensazione fatta con un bene di altri, più precisamente dei Palestinesi, a ristoro delle turpitudini occidentali, con la connivenza dei reucci del Golfo. 
Sotto ogni punto di vista, il riconoscimento unilaterale statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele, in spregio delle costanti risoluzioni dell’ONU e in assenza di qualsiasi soluzione del problema palestinese, resterà nella storia come un marchio di infamia per i paesi occidentali. La fine del loro ruolo prescrivente sul piano morale. Una macchia morale indelebile. Oramai il punto critico del conflitto palestinese su basi nuove si è cristallizzato attorno al nocciolo duro della contestazione dell’ordine egemonico israelo-statunitense nella zona. L’ultimo atto di potenza di un impero USA sul viale del tramonto. 
Qui sotto la datazione al carbonio 14 della dinastia wahhabita. 
L’Arabia saudita è il paese del mondo che invoca più quotidianamente di tutti Allah, ma questa incessante invocazione divina sembra non produrre effetti davanti alla demagogia dei suoi leader, e al loro nanismo politico, a giudicare dallo stato di decomposizione del Mondo arabo, del quale è grandemente responsabile. 
La dinastia wahhabita ha infatti fondato la sua legittimità su una impostura. Il Regno è certamente la terra della profezia, ma non sta scritto da nessuna parte che debba essere proprietà della famiglia Al Saud. 
Ancora meglio, in materia di tradimenti, il clan Salman si è particolarmente distinto. Calpestando il sacrosanto principio della successione per primogenitura, che attribuisce il potere al maggiore della generazione più antica, Salman ha imposto suo figlio come principe ereditario. 
Rivoluzionando l’ordinamento considerato immutabile del dogma wahhabita, ha anche trasformato l’Arabia saudita da “Regno dei figli di Abdel Aziz” a “Regno dei figli di Salman”. 
Per salvare il trono, col pretesto di combattere lo sciismo iraniano, la dinastia wahhabita ha svenduto la Palestina e, avvertendo l’urgenza di evitare le conseguenze di questo tradimento, si è messa nelle mani di quello che i suoi predicatori dogmatici hanno da sempre considerato come l’ “usurpatore della Palestina”. 
 
2- Il becchino della causa nazionale araba 
Il Guardiano dei Luoghi Santi ha sicuramente finanziato la promozione dell’islam nel mondo, ma il suo proselitismo religioso a tutto campo si è spesso confuso con una strumentalizzazione politica della religione usata come arma di lotta contro i nemici degli Stati Uniti, soprattutto l’ateismo comunista, a detrimento degli interessi strategici del Mondo arabo. 
Il capofila dell’islam sunnita ha portato la guerra ai quattro angoli del mondo per conto del suo protettore statunitense, ma il finanziatore degli interventi militari USA nel Terzo mondo – dall’Afghanistan al Nicaragua, all’Iraq, alla Siria al Libano, addirittura anche in Algeria- non è mai riuscito a liberare l’unico Alto Luogo Santo dell’islam sotto occupazione straniera, la Moschea di Al Aqsa di Gerusalemme. Al punto che la sua leadership soffre oramai della concorrenza del nuovo giunto sulla scena diplomatica regionale, l’Iran, e viene contesto dai suoi ex pupilli jihadisti. 
Il protetto degli USA, autore di due piani di pace per il Medio Oriente, non è mai riuscito a far ratificare dal suo protettore statunitense e dal suo partner israeliano le sue proposte di soluzione del conflitto israelo-palestinese, né a prevenire la progressiva annessione di Gerusalemme, né la giudeizzazione della 3° città santa dell’islam, meno che mai ha saputo evitare l’allontanamento delle grandi capitali arabe dalla sfera sunnita, e la loro caduta nel campo nemico: Gerusalemme sotto occupazione israeliana, Damasco controllata dagli alauiti e Baghdad, infine, sotto un condominio curdo-sciita. 
Il più ricco paese arabo, membro di diritto del G20, il direttorio finanziario del pianeta, ha dilapidato parte della sua fortuna in stravaganti realizzazioni di prestigio e nell’esaudimento di incredibili capricci principeschi, senza mai pensare di destinare la sua potenza finanziaria al risanamento economico arabo o al rafforzamento del suo potenziale militare, tenendo a freno anche ogni contestazione, trascinando sulla sua scia il mondo arabo verso la subordinazione all’ordine statunitense. 
La dinastia wahhabita, allontanando gli Arabi e i Musulmani dal loro principale campo di battaglia, la Palestina e impegnandoli invece nei furiosi combattimenti afghani, non ha mai sparato un solo colpo contro Israele, al punto che il migliore alleato arabo degli Stati Uniti appare, retrospettivamente, come il beneficiario principale dei violenti attacchi israeliani contro il nocciolo duro del mondo arabo, e Israele, come il migliore alleato oggettivo della monarchia saudita. 
In 89 anni di esistenza, questo paese a regime speciale è stato governato da sette monarchi (Abdel Aziz, Saud, Faysal, Khaled, Fahd, Abdallah, Salman), ma in un’epoca di transizione della storia del mondo arabo, nell’era dell’optronica, della balistica, dello scontro diffuso e di sistemi antiradar, nessuno dei sette monarchi ha mai conseguito un diploma universitario, tutti formati con lo stesso stampo di educazione beduina e scuola coranica. 
Al pari delle altre petromonarchie gerontocratiche del Golfo, vale a dire un terzo dei membri della Lega araba e i due terzi della ricchezza araba, mentre la vicina teocrazia iraniana ha già raggiunto lo stato di potenza quasi nucleare. 
In 89 anni di esistenza, nonostante le turbolenze, la famiglia Al Saud è riuscita a salvaguardare il suo trono, ma ha portato la zona alla rovina mentre Israele rovinava la zona. 
 
3 – La capitalizzazione di una rendita di posizione su di un approccio massimalista alla questione palestinese 
L’Arabia saudita ha capitalizzato una rendita di posizione su di un approccio massimalista con connotati antisemiti al conflitto israelo-palestinese, durante il primo mezzo secolo di sua esistenza. Ha finito poi con lo spostare la lotta in Afghanistan, a cinquemila chilometri dal campo di battaglia della Palestina, nel decennio 1980, strumentalizzando l’islam e usandolo come arma da guerra contro l’ateismo sovietico. E ad operare un ribaltamento di posizioni, per salvare il trono wahhabita, avviandosi verso una progressiva normalizzazione dei rapporti con Israele, di pari passo con la progressiva annessione della Palestina da parte dello Stato ebraico, sempre per salvare il trono wahhabita col pretesto di combattere l’Iran scismatico sciita. 
Oltre ogni decenza, Salman, uno dei maggiori finanziatori dei jihadisti attraverso il gruppo As Charq Al Awsat, ha sdoganato Donald Trump, l’artefice del “Muslim Ban”, e la sua politica xenofoba e ha distrutto il Consiglio di Cooperazione del Golfo, il sindacato delle sei petromonarchie, per scaricare sul piccolo Qatar il ruolo di incubatrice assoluto dello jihadismo errante. 
 
4- Della strumentalizzazione della religione e del corretto utilizzo del rituale mussulmano 
La monarchia wahhabita ha strumentalizzato senza vergogna l’islam a scopi politici per appagare la sua megalomania, piuttosto che favorire la promozione dell’islam alla fine del XV secolo di sudditanza coloniale e letargo ottomano. 
Incubatore assoluto del jihadismo errante il Regno, soprattutto sotto la leadership del clan Sideiry, ha grandemente contribuito, con le potenze occidentali, alla devastazione del Mondo arabo. Per salvare un trono e perpetuare una dinastia screditata in ampie frange del quarto mondo. 
Senza il minimo scrupolo, ha strumentalizzato la simbologia del Ramadan per soddisfare la sua sete di vendetta. 
In questo senso, il mese di Ramadan del 2017 ha costituito un’insperata occasione politica per il Regno, che ha approfittato di questo mese di digiuno e di sacrificio ed elevazione verso dio, per soddisfare il suo bellicismo, ingaggiando una guerra contro il piccolo fratello wahhabita del Qatar, sovrapposta alla guerra contro lo Yemen. E con – trovandosi – anche l’investitura nel giorno simbolico del 21 giugno, il Laylat Al Qadar, la “Notte del Destino”, del figlio del re, Mohamad Bin Salman, come principe ereditario del regno. Un personaggio impulsivo, impetuoso, impenitente e impotente, a giudicare dal doppio disastro inflitto al suo paese in Yemen e contro il Qatar. E nella gestione avventata della vicenda Saad Hariri. 
Già Daesh aveva utilizzato la simbologia del Ramadan per proclamare il suo califfato islamico impadronendosi di Mosul, il primo venerdì del mese di Ramadan 2014. 
L’appropriazione di una religione planetaria, la sua interpretazione in un senso ultra restrittivo, regressivo e repressivo, unitamente alla sua strumentalizzazione a fini politici al servizio del ex colonizzatori del Mondo arabo, costituisce una impostura. 
Il Regno è in uno stato di schizotimia, con la complicità delle “Grandi Democrazie Occidentali”, a causa delle turpitudini della dinastia wahhabita. Al punto che questo paese governato da una delle caste più misogine del mondo fa parte, dal 2017, della “commissione dei diritti delle donne dell’ONU”. 
 
5 – Il patrimonio genetico del potere reale nelle mani degli Statunitensi 
Da Abdel Aziz, fondatore del Regno, a Fahd, 5° monarca, affetto per una decina d’anni da emiplegia, impotente in un periodo di transizione nella storia del Golfo (1995-2005) segnato dalla rottura con Osama bin Laden, capo di Al Qaeda, e la seconda Guerra del Golfo contro l’Iraq; ad Abdallah, 6° monarca, colpito da una forte cardiopatia, al Principe ereditario Sultan, inamovibile ministro della Difesa per 40 anni, in trattamento prolungato per un cancro metastatizzato, e al suo effimero successore Nayef, inamovibile ministro dell’Interno per trenta anni, al Principe Salman, il nuovo principe ereditario, tutti i dignitari del regno sono stati ricoverati in ospedali statunitensi e il loro patrimonio genetico si trova dunque presso l’amministrazione ospedaliera statunitense. 
Anche altri autocrati arabi hanno preso la strada di Washington quando hanno avuto bisogno di cure mediche, come Re Hussein di Giordania, affetto da un cancro, o il generale Omar Souleymane, ex capo dei servizi di informazione del presidente egiziano Hosni Mubarak, misteriosamente deceduto al suo ricovero in ospedale, o anche il capo dell’OLP in persona, Yasser Arafat, in un ospedale francese, ma in nessun posto come in Arabia Saudita il pellegrinaggio sanitario verso gli USA è stato eretto a sistema. 
Un segno indiscutibile della dipendenza wahhabita nei confronti dell’amministrazione USA, che così conosce, anche biologicamente, le forze e le debolezze dei principali guardiani del dogma dell’islam, una religione che raggruppa un quinto della popolazione del pianeta, detentrice peraltro dei più grandi giacimenti energetici del mondo, la religione dell’universo dei consumatori. 
 
6 – Una dinastia libidinosa: 
A – Il Re Saud: 43 mogli, 115 figli/ Il Re Abdel Aziz: 38 mogli, 63 figli 
L’attrazione per il sesso – sembrerebbe – costituisce il marchio di fabbrica della dinastia libidinosa di Al Saud. Saud ha segnalato una netta preferenza per il genere femminile, di qualsiasi tipo, superando in questo campo tutti i fratelli. 
Secondo i documenti ufficiali, il 2° Re di Arabia ha sposato 43 donne lasciando un’abbondante progenie di 115 figli: 53 maschi e 62 femmine. 
Suo padre, Abdel Aziz, il fondatore del Regno, aveva l’abitudine di passare una notte d’amore con una donna – una sola e unica notte d’amore – per poi congedarla. Le più fortunate avevano diritto a diverse notti consecutive, prima di essere rigettate nell’anonimato. 
Né la moglie di suo fratello Mohamad, né la vedova dell’altro fratello Saad, meno che mai la vedova del suo nemico intimo, Saud Bin Rachid, governatore di Hael, sono state risparmiate dalla sua foga. Appena conquistata Haël si appropriò anche della vedova di Ibn Rachid, Fahida Bint Al Assi Ben Kleib Ben Chreim Al Rachid, che gli diede un figlio che altri non è che… Abdallah, l’ex Re d’Arabia. 
Abdel Aziz ha così onorato, senza interruzioni, le sue 38 mogli, oltre ad un numero incalcolabile di sconosciute, arricchendo il regno di una progenie di 63 figli. Una cifra che non tiene conto né dei figli morti in tenera età, né di quelli nati morti. 
La cosa più strana è che il Re Abdel Aziz, mezzo cieco, paralitico su una sedia a rotelle, ha continuato il tour de force procreativo: Moukren, Hazloul, Hammoud, Abta e Tarfa, sono i frutti dei suoi amori settuagenari, uno dei miracoli del fondatore del Regno. 
B- Il Re Abdallah: 21 mogli, 63 figli 
La virilità non è una dote solo del padre fondatore del Regno. Il re Abdallah, morto recentemente, ha dato prova delle sue grandi capacità riproduttive generando, a 75 anni, un piccolo Bandar, nato nel 1999, da sua moglie la principessa Haifa El Mehanna. Bandar è il 63° dei figli del Re Abdallah e delle sue 21 mogli. 
C- 500.000 dollari per 15 minuti di conversazione con Kristen Stewart e un milione di dollari per la speranza di una notte con Brigitte Nielsen 
L’ossessione sessuale non è appannaggio dei soli padri fondatori del Regno. Figli e nipoti sono animati da identiche pulsioni. I loro exploit si realizzano nella competizione sui dollari regalati alle bellezze di Hollywood. Storie infinite. Inimmaginabili. Della loro stupidità e inconsistenza. 
Harvey Winston, una ex guardia del corpo, racconta che un principe saudita ha offerto 500.000 dollari per avere l’onore di chiacchierare col suo idolo Kristen Stewart. L’attrice ha accettato, a condizione che il principe donasse mezzo milione di dollari al fondo di soccorso delle vittime del “Typhon Sydney”. 
Mark Young ha pubblicato, da parte sua, un libro intitolato "Saudi Bodyguard" nel quale questo britannico da tempo impegnato nella protezione del palazzo di Al Saud, dal 1979, narra le turpitudini della dinastia, “le sue devianze, la prostituzione che alcuni praticano, i furti, le rapine, le dipendenze dall’alcol, dagli stupefacenti e dal gioco". 
D- Khaled Bin Sultan e il fantasma di Brigitte Nielsen 
La storia più singolare di cui è stato testimone Mark Young è quella dell’ex vice ministro della Difesa, Khaled Bin Sultan, l’ex interfaccia saudita del generale USA Norman Schwarzkopf durante la 1° Guerra del Golfo (1990-1991), e proprietario del giornale “Al Hayat”. 
Affascinato dalla bellezza di Brigitte Nielsen, all’epoca moglie dell’attore Sylvester Stallone (alias Rambo), il generalissimo, secondo il racconto di Young, avrebbe studiato vari piani per riuscire a passare una notte d’amore con la bella e bionda danese. Al punto da offrire un milione di dollari per questa notte che prometteva focosa. Questa proposta, per dirla tutta indecente, si è alla fine concretizzata una certa sera del giugno 1997, in un lussuoso hotel della Croisette. 
E- Abdel Aziz, o la trasfigurazione di un principe dalla giovinezza agitata in predicatore wahhabita 
L’ultimogenito di Re Fahd si è entusiasmato per l’attrice televisiva Yasmine Bleeth, di confessione ebraica. Abdel Aziz Ben Fahd ha speso per lei somme così importanti che sarebbero bastate a risolvere i problemi di tutte le ragazze del Regno. 
Compagno di merende dell’ex primo ministro libanese Saad Hariri, le sue scappatelle parigine gli hanno valso un divieto di soggiorno in un grande albero di lusso della capitale francese. A conclusione di una giovinezza agitata, Abdel Aziz ha fatto atto di contrizione e pentimento: si è fatto crescere la barba ed è diventato predicatore wahhabita, finanziatore dell’emittente takfir “Wissal” (il nesso). 
F- Salman e Sylvia Kristel 
Alla pari di Khaled Bin Sultan, proprietario peraltro del giornale “Al Hayat”, che aveva fantasticato su Brigitte Nielsen, Salman, proprietario del Charq Al Awsat, ha, da parte sua, proiettato le sue fantasie su Sylvia Kristel, l’attrice del film “Emmanuelle”, un film all’epoca ricco d’azione. 
Lo sfizio di Salman, all’epoca governatore di Ryiadh, ha fatto guadagnare all’intermediario, l’onesto amante dell’attrice olandese – un falso play boy libanese - la somma di cinquecentomila dollari con il bonus aggiuntivo del regalo di una frequenza comunitaria a Parigi, e facendo della sua stazione la più importante stazione arabofona dello spazio francofono. 
 
Prima radio comunitaria arabofona dell’Europa continentale e con la sua posizione, la prima stazione radio in lingua araba d’Europa, Radio-Orient, trasmessa da Parigi, media off-shore per eccellenza, è stata a lungo una bandiera di comodo in una zona di non diritto, un condensato di storia della comunicazione e delle relazioni triangolari ancillari tra Parigi, le petro-monarchie del Golfo e il miliardario libano-saudita. 
Questa iperattività ormonale principesca è intervenuta nell’epoca in cui il loro ex "office boy" Osama bin Laden, capo di Al Qaeda, consumava la rottura coi sui padroni wahhabiti. Ma la libido di loro altezze non ha prezzo. Non si preoccupava per nulla di questa rottura che riempirà ulteriormente di incubi i sonni dei gerontocrati del Golfo. 
 
7- La dinastia wahhabita: unica impresa familiare ad avere un seggio alle Nazioni Unite 
Illustrazione caricaturale della realtà paralitica araba, il Regno saudita viene generalmente ritenuto uno dei becchini della causa nazionale araba. 
Unica famiglia ad aver dato il nome al suo paese, cosa che nemmeno Cristoforo Colombo, lo scopritore dell’America, si è sognato di fare; Unico paese a portare il nome della famiglia che lo ha conquistato, cosa che neppure Giulio Cesare ha osato pensare, l’Arabia saudita è anche l’unica impresa familiare al mondo ad avere un seggio alle Nazioni Unite. 
Un privilegio che nessuna dinastia, per quanto prestigiosa sia, che alcuna multinazionale, per potente che sia, hanno mai potuto esercitare. Un trattamento di favore che dà la misura della benevolenza di cui godono i governanti di questo paese per ragioni petrolifere. 
A servizio della sua ambizione e della sua prepotenza, due incomparabili atout naturali: 
La Mecca e Medina, i due Alti Luoghi Santi dell’islam, riferimento spirituale assoluto di una comunità di credenti composta da 1,5 miliardi di fedeli della seconda religione al mondo per importanza, 
Il petrolio, motore dell’economia internazionale, di cui possiede il più importante giacimento del mondo, 
Una immensa superficie che fa di questo paese di 2,5 milioni di km quadrati un quasi-continente di grandezza comparabile all’Europa occidentale (Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo), 
A ciò si aggiungono tre altri fattori: 
Una ridotta densità demografica (28 milioni di abitanti), infine, ultimo ma non meno importante; lo scudo statunitense messo in campo con il Patto di Quincy, dissuasivo contro ogni rivolgimento interno, ogni intervento straniero, ogni critica internazionale. 
Ma il pellegrinaggio, che doveva essere uno momento di comunione e confraternità, si è rivelato uno strumento di morte e desolazione: 90.000 pellegrini sono morti in 14 anni, compiendo il loro dovere religioso sui Luoghi Santi dell’islam, conseguenza delle negligenze colpevoli delle autorità saudite. 
 
8- Gli imbrogli diplomatici del regno saudita con la complicità occidentale 
A- L’Arabia saudita alla “Commissione dei Diritti delle Donne”: un piromane a capo dei pompieri. 
Il regno saudita, uno dei regimi più misogini del mondo, ha ottenuto il via libera, col voto segreto di 47 dei 54 Stati membri del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, per far parte della Commissione dei Diritti delle Donne: “È come designare un piromane capo dei pompieri”, ha commentato Hillel Neuer, direttore esecutivo dell’organizzazione UN Watch. 
Certo, il Re ha accordato alle donne il diritto di far parte del Consiglio Consultivo nel 2012, ma questo organismo, la cui prima sessione in composizione mista ha avuto luogo il 24 febbraio 2013, non dispone di alcun potere di decisione. Allo stesso modo, le signore hanno potuto, sempre per la prima volta, partecipare alle elezioni municipali a partire dal 2015, ma le donne restano sottoposte al regime della preventiva autorizzazione per uscire. 
La terminologia ne dà dimostrazione. Per quanto istruite e competenti siano, esse restano designate col vocabolo spregiativo di “dipendente”. 
B-La lotta contro il doping in ambito sportivo 
Nello stesso ordine di idee, l’Arabia Saudita, il maggior mercato di consumo di captagon (una sostanza stupefacente) nel Medio Oriente, è stata portata alla presidenza dell’Ufficio della Conferenza delle Parti della Convenzione UNESCO di lotta antidoping, concedendo una sovvenzione di 100.000 dollari per sostenere le attività dell’Agenzia Mondiale Antidoping mirante a sradicare il doping dallo sport. 
C- La tripla impostura di Tawakol Korman Premio Nobel per la Pace 2011 
Prima donna araba ad avere ottenuto il prestigioso Premio Nobel per la Pace 2011, la yemenita era in realtà una falsa attivista finanziata dall’amministrazione USA. Membro della Confraternita dei Fratelli Mussulmani, Tawakkol Karman ha appoggiato l’aggressione saudita contro il suo stesso paese. 
 
9- Del buon uso della spada al servizio della dinastia wahhabita 
A –La spada non scalfisce la carne di Al Saud 
La spada che stria la bandiera saudita al di sotto del primo versetto del Corano, descrive più del petrolio, più dell’islam, più di tutto, la dinastia wahhabita. 
Se l’Islam assicura la preminenza spirituale del Regno sugli altri paesi arabi e Musulmani, il petrolio una rendita di posizione, la spada resta però il marchio di fabbrica della famiglia Al Saud. Garantisce la sua sopravvivenza. 
Il Corano rientra nell’ordine della profezia divina, la spada permette il mantenimento dell’ordine terrestre della dinastia saudita, almeno sul territorio del Regno. È con la spada che la famiglia Al Saud si è assicurata il dominio sulle altre tribù della penisola arabica e ha riunificato il Regno. 
È con la spada che mantiene il suo dominio sui sudditi del regno. È con la spada che risolve le violazioni dell’ordine pubblico e assicura la pace sociale. 
La spada non scalfisce la carne di Al Saud. Questa regola cardinale teorizzata dal principe Sultan bin Abdel Aziz, inamovibile ministro della Difesa per quaranta anni, assicura impunità e immunità ai membri di questa turbolenta famiglia di quasi ventimila persone. 
Simbolo della conquista araba, Al Saud ne hanno abusato. La famiglia – il clan? – governa con la spada e sopravvive grazie ad essa. Né pentimento, né perdono, né riabilitazione, solo pene afflittive e infamanti. Solo le punizioni corporali hanno diritto di cittadinanza esclusiva. Secondo Amnesty International, l’Arabia saudita avrebbe giustiziato 27 persone nel 2008, 9 nel 2009, 4 nel 2010 e 79 nel 2011, per un totale di 119 esecuzioni capitali in 4 anni. Questo bilancio non tiene conto delle esecuzioni degli anni successivi, specialmente del dignitario religioso sciita, lo sceicco Al Nimr 
Un’ecatombe tale, che la Francia, facendo finta di chiudere con la sua abituale connivenza con le monarchie del petrodollaro, è stata costretta a condannare. Intervenuta dopo le rivelazioni del settimanale Le Point sulle forniture di materiale francese (soprattutto gas lacrimogeni) per la repressione delle manifestazioni antimonarchiche in Bahrein, la protesta della Francia contro i Sauditi appare come uno schermo fumogeno destinato a nascondere, se non l’ambiguità, almeno l’incoerenza della “Patria dei diritti umani” in materia. 
Da allora, la monarchia saudita si avvia verso l’abolizione di questo supplizio medioevale, non tanto per spirito umanitario, ma per mancanza di boia. L’Arabia Saudita deve far fronte ad una grave penuria, non di oro nero, ma di boia. Zeppa di petrolio, ma non di sciabolatori per decapitare. I colpevoli passeranno oramai davanti al plotone di esecuzione. 
L’omicidio, lo stupro, la rapina a mano armata, il traffico di droga, l’adulterio, la sodomia, l’omosessualità, il sabotaggio, l’apostasia, la stregoneria sono passibili di pena capitale. Le persone da giustiziare vengono storditi e lapidati per l’adulterio. L’assistenza di un avvocato nel processo è negata agli imputati, come anche la rappresentanza legale. Decapitazione, amputazione, come pratica corrente, sono le diverse forme di pena del Regno. Con la connivenza passiva delle “Grandi Democrazie Occidentali”. Il Codice penale… per i comuni mortali. 
È diverso per I principi di sangue. Abbondano gli esempi di crimini impuniti. Da Turki Bin Saud, assassino della sua guardia del corpo sotto effetto dell’alcol, a Fahd Bin Saud Bin Nayef, assassino della sua guardia del corpo, nel 2008, sotto effetto della rabbia. Due principi, miracolosamente sfuggiti alla decapitazione per effetto di una sorpresa divina: la grazia reale. 
Il 3°, Saud Abdel Aziz Bin Nasser Al Saud, che uccise la sua guardia del corpo, nel 2010, nel Regno Unito, non ha potuto beneficiare dell’amnistia. Normale nel paese dell’Habeas corpus. È stato condannato all’ergastolo. Che importa, il sangue reale non ha prezzo. È stato scambiato contro cinque inglesi opportunamente arrestati in Arabia saudita. 
La tendenza ha avuto un’eccezione con l’esecuzione del principe Turki bin Saud al-Kabir, un membro della famiglia reale, condannato a morte per avere ucciso un uomo a colpi d’arma da fuoco. La sua esecuzione, il 19 ottobre 2016, è stata la prima di un membro della famiglia reale dal 1975. Il principe Turki è per contro la 134° persona giustiziata in Arabia saudita nel 2016. 
B –Il crimine di lesa maestà 
La regola soffre però qualche eccezione. Non tutti i principi di sangue sono uguali e il crimine di lesa maestà non è negoziabile. Nessuna indulgenza è ammessa nei confronti di ciò che costituisce un tabù assoluto. 
C - I più famosi principi decapitati per crimine di lesa maestà sono: 
-L’assassino del Re Faysal, crimine di lesa maestà per eccellenza. Il Principe Faysal Bin Mussa’ad, nipote del Re assassinò suo zio, il Re, il 25 marzo 1975, per vendicare suo padre, assassinato durante una manifestazione di protesta contro la creazione della radio-televisione nazionale. 
-La principessa innamorata. Le storie d’amore non gradite finiscono male in Arabia Saudita. Misha’al bint Fahd al Saud, figlioletta del Re Khaled d’Arabia Saudita, è stata giustiziata in pubblico nel 1977 per avere commesso adulterio e il suo amante, per suprema crudeltà, decapitato con la spada dopo avere assistito alla decapitazione della sua dulcinea. La proiezione di un documentario su questo duplice supplizio, nel 1980 nel Regno Unito, “Death of a princess”, portò Londra e Riyadh sull’orlo della rottura delle relazioni diplomatiche. Non si scherza con l’amore all’ombra delle palme. 
A parte questi casi estremi, è licenza a briglie sciolte. Onore al merito. L’esempio viene dall’alto. Il Re Fahd in persona, quando era ministro dell’Interno, non esitava a sbattere, regolarmente, sui tappeti verdi dei casinò europei diverse centinaia di milioni di dollari per sera. Un passatempo che praticava, è vero, prima di assurgere al trono e prima della decisione compensatoria di avvolgersi nel ruolo di Guardiano dei Luoghi Santi dell’islam. 
D – Tangenti e narcotraffico 
Le tangenti costituiscono una piaga del Regno e lo piazzano oltre ogni classifica nella hit-parade della corruzione. La decima alla famiglia reale per tutte le transazioni civili e militari del Regno è una pratica che appare come un premio alla prepotenza e ammorba la vita economica del paese, ma non quella della famiglia reale. 
Oltre a ciò, la dinastia wahhabita si sarebbe perfino fatta garante del traffico di stupefacenti, almeno qualche membro dell’entourage reale, come nel caso del narcotraffico saudita in Francia, fino a requisire alcuni apparecchi della flotta aerea reale per il trasporto della droga colombiana. 
Un traffico rocambolesco che sembrerebbe poco coerente con il magistero rigorista che il governo saudita dispensa e che in parte spiega il discredito che lo circonda. Il Boeing che trasportava due tonnellate di coca colombiana a Parigi via Miami era di proprietà della figlia del Re Fahd e di suo marito Jawhara. Il trafficante altri non era se non il principe Nayef Bin Fawaz al Chaabane, marito della figlia del Principe Sultan Bin Abdel Aziz, ministro della Difesa. 
 
10- La diplomazia del libretto di assegni: Abdel Halim Khaddam e Moustapha Tlass 
La “diplomazia del libretto degli assegni “, sempre utilizzata dai Sauditi, sia per assicurare la propria egemonia ideologica nel mondo musulmano, che per restaurare il potere sunnita, tanto a Beirut che a Damasco. 
Venti (20) miliardi di dollari e 50.000 combattenti arabo-afghani sono stati destinati all’implosione sovietica in Afghanistan, nel decennio 1980, con la scusa della guerra contro l’ateismo, in una guerra lontana dal principale campo di battaglia, la Palestina. 
Il doppio è stato speso per la distruzione dei regimi arabi a struttura repubblicana, tutti curiosamente situati sul campo di battaglia del bacino storico della Palestina, o come paesi direttamente coinvolti (Siria, Libano) o come paesi di appoggio (Iraq, Libia, Egitto), e prima ancora l’Algeria negli anni 1990. 
Questa diplomazia corruttiva mostrerà la sua miseria nella disfatta siriana: I due garanti sunniti inamovibili del governo alauita nel corso di trent’anni, il generale Moustapha Tlass, ministro della Difesa, e Abdel Halim Khaddam, ministro degli Affari Esteri, due personalità di primo piano ritenute socialiste del regime baathista, alla fine hanno ceduto alle sirene dei petrodollari sauditi, prima di disintegrarsi. 
Il militare lascerà convolare sua figlia Nahed, un bel frutto della società siriana, verso il settuagenario mercante d’armi saudita Akram Ojjeh, prima di cadere nella commedia di un problematico dottorato universitario parigino, mentre il diplomatico laico si applicava all’affarismo di Hariri e all’integralismo religioso dei “Fratelli Musulmani “, per poi carbonizzarsi. Il figlio del ministro della Difesa, Firas Tlass, si unirà poi all’opposizione siriana off shore petromonarchica durante la guerra di Siria e deruberà la tesoreria del cementiere franco svizzero Lafarge Holcin a beneficio di Daesh, in cambio della sua protezione. 
Dettaglio divertente, l’uomo che è stato responsabile del dossier libanese in Siria per trenta anni, quello stesso che era temuto dalle diverse fazioni libanesi e anche dalle cancellerie arabe e occidentali, che faceva il bello e il cattivo tempo ed è dunque da considerarsi il massimo responsabile delle derive siriane in Libano, il vice presidente della Repubblica Abdel Halim Khaddam, verrà alla fine elevato al rango di supremo salvatore della Siria e del Libano. 
Alla fine verrà dimenticato dalla storia e abbandonato da tutti, compresi I nuovi alleati, l’organizzazione dei “Fratelli Musulmani “, quella stessa che si era lanciata all’assalto del governo, nel febbraio 1982, per mettere in difficoltà il regime baathista, del quale il nostro era uno dei pilastri, quattro mesi prima dell’invasione israeliana del Libano. 
Il ben nominato Khaddam, il cui nome in arabo significa letteralmente “il lacchè “, rinnegherà la sua militanza dopo avere derubato il Libano, operando per cupidigia la più strepitosa riconversione della storia politica recente, finendo la sua vita come factotum del suo correligionario sunnita libanese Rafic Hariri. 
Ampiamente gratificato per il suo tradimento con un sontuoso regalo – la residenza del nababbo petroliero greco, Aristotele Onassis, sulla più celebre arteria della capitale francese, l’Avenue Foch—il rinnegato dovette poi dare battaglia in tribunale quando il suo pendant francese, l’ex presidente Jacques Chirac pretese un appartamento con vista sulla Senna al Quai Voltaire di Parigi. 
Giuda tradì il suo Signore per trenta denari. Altri tradimenti si fanno certo a peso d’oro, ma valgono al rinnegato uni discredito per l’eternità. 
 
11- La spada di Damocle della Legge Jasta 
Tegola supplementare: La Legge JASTA [JUSTICE AGAINST SPONSORS OF TERRORISM ACT] adottata il 9 settembre 2016, cioè quindici anni dopo il raid terrorista contro i simboli della superpotenza USA. 
Autorizzando i cittadini statunitensi a procedere in giudizio contro il Regno per il risarcimento dei danni provocati dal raid, gli Stati Uniti hanno sospeso una spada di Damocle sul capo della dinastia wahhabita. 
Quindici dei 19 autori dell’attentato dell’11 settembre a New York e Washington erano Sauditi. In totale, i danni statunitensi vengono calcolati in circa tre trilioni di dollari (tremila miliardi di dollari). 
Per parare questa minaccia, un deal “win win” è stato concluso tra gli ex partner del Patto del Quincy: Gli onori riservati all’artefice del “Muslim Ban” da parte delle petromonarchie sunnite, come contropartita della promozione del figlio del Re al rango di principe ereditario, l’abdicazione delle petromonarchie al riguardo della questione palestinese e la sostituzione di essa con un tacito patto con Israele per contrastare l’Iran. 
Un deal suggellato da un importante contratto militare dell’ordine di 380 miliardi di dollari in dieci anni, destinato a rafforzare le capacità balistiche e navali del regno saudita contro l’Iran, sempre “preservando la superiorità militare israeliana nella zona” secondo un esponente dell’amministrazione USA. 
L’obiettivo sottinteso di questo “contratto del secolo” sarebbe di neutralizzare gli effetti della Legge JASTA, una sospensione del contenzioso, almeno per tutta la durata del mandato di Donald Trump. 
Nell’operazione di ripulitura delle turpitudini saudite, il fallimento della ditta Bin Laden, proprietà della famiglia del fondatore di Al Qaeda, Osama bin Laden, e di Saudi Oger, proprietà di Saad Hariri, primo ministro del Libano, sembra destinato, in questa prospettiva, a far posto a gruppi statunitensi per la pianificazione della terra della profezia, come cortile di casa degli investitori USA. 
 
12– 40 per cento dei giovani disoccupati, e per premio il Bahreïn per sfogarsi 
Il regno conta quasi 28 milioni di abitanti, di cui nove milioni di stranieri quadruplicate in quaranta anni. Nonostante la manna petrolifera, il 40 per cento dei giovani è disoccupato, e le strade delle grandi metropoli saudite brulicano di giovani senza niente da fare alla ricerca di paradisi artificiali. 
L’Arabia saudita ha promosso la liberalizzazione del consumo a scapito della cittadinanza, e la standardizzazione dei suoi desideri e dei parametri istituzionali attraverso il consumo. Con conseguenze drammatiche sui dati demografici, che mostrano la cifra record del dieci per cento (10%) di obesi e di diabetici e un tasso elevato di molestie sessuali nell’ordine del 68% nelle fasce elevate della popolazione, di cui il 17,32% di natura incestuosa, e il 20% su bambini. 
Come sfogo, diverse decine di migliaia di Sauditi attraversano ogni fine settimana il ponte che collega l’Arabia Saudita al Bahrein, alla ricerca dei piaceri proibiti nel loro paese, andando a Manama, sfogatoio di tutte le frustrazioni saudite. Una funzione esercitata in passato da Baghdad, al tempo del suo splendore nel decennio 1980. 
 
13- Una illustrazione caricaturale della realtà paralitica araba 
Il re è nudo, la monarchia saudita sulla difensiva: la dinastia wahhabita, architetto sotto l’egida USA dell’islamismo politico, appare retrospettivamente, allo sguardo della storia, come uno dei principali becchini del nazionalismo arabo e della sottoposizione del mondo arabo all’ordine statunitense. 
In 13 anni di regno, il re Fahd (1982-1995) è rimasto alla testa del regno per più di cinque anni in stato vegetativo, emiplegico, quasi paralitico. 
Lo stesso il successore, il re Abdallah (1995-2015), con ridotta mobilità per la metà del regno, dalla lucidità aleatoria, sotto assistenza sanitaria permanente, tenuto in vita da una coorte di medici, mentre regnava in un paese chiave dello scacchiere regionale in un momento di transizione geostrategica planetaria. 
Uno scenario identico si è riprodotto quindici anni dopo, nel 2009, quando principe ereditario era Sultan Bin Abdel Aziz, che disertò il suo posto di ministro della Difesa e il regno per una convalescenza prolungata in Marocco di più di un anno, esercitando le pesanti responsabilità di principe ereditario, vice primo ministro, ministro della difesa e ispettore generale delle Forze Armate reali in modo fantomatico in una zona particolarmente tormentata, nel pieno del braccio di ferro iraniano – statunitense sul dossier nucleare iraniano. 
 
14- L’Iraq e lo Yemen, i due avamposti strategici dell’Arabia Saudita, due braccia della stessa tenaglia 
Lo Yemen e l’Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, avrebbero dovuto costituire i due avamposti strategici per la difesa del regno, il primo a sud, il secondo a nord. 
E’ in questi due paesi che l’Arabia saudita ha dato battaglia per assicurare la perennità della dinastia, per due volte nel corso degli ultimi decenni, lo Yemen come punto di scontro inter arabo tra Monarchici e Repubblicani al tempo della rivalità tra Nasser e Faysal nel decennio 1960, e l’Iraq come teatro dello scontro tra Sciismo rivoluzionario e Sunnismo conservatore al tempo della rivalità tra Saddam Hussein e Khomeini nel decennio 1980. 
Questi due paesi sono oramai una fonte di pericolo, l’Iraq con l’eliminazione della leadership sunnita, e lo Yemen col reinserimento di Al Qaeda nei giochi regionali. 
L’insediamento in Yemen di Al Qaeda per la penisola arabica appare in questo contesto una sfida di importanza maggiore. Il radicamento di una organizzazione essenzialmente sunnita, escrescenza del rigorismo wahhabita, sul fianco sud dell’Arabia Saudita, porta il marchio di una sfida personale di bin Laden ai suoi antichi padroni per il fatto che porta sul luogo stesso della loro antica alleanza la disputa di legittimità che oppone la monarchia al suo ex servitore. La cosa potrebbe avere effetti destabilizzanti sul Regno. Se la dinastia dovesse durevolmente impantanarsi in questi conflitti periferici, lo Yemen e l’Iraq potrebbero rinchiudersi su di lei come die braccia della stessa tenaglia. 
 
15- For whom the bell tolls? Per chi suona la campana? 
L’Arabia Saudita ha realizzato la quadratura del cerchio guadagnandosi il rispetto del mondo musulmano senza sparare un solo colpo contro Israele, senza ottenere la minima concessione degli USA sulla questione palestinese, applicandosi con metodo a distruggere le vestigia del nazionalismo arabo. 
L’alleanza esclusiva dell’islam sunnita con gli USA, se ha assicurato la tranquillità del trono wahhabita durante un mezzo secolo tumultuoso, non ha però garantito la sua perennità. 
All’apogeo della diplomazia saudita, sulla scia dell’invasione dell’Iraq del 2003, due leader arabi, Rafic Hariri (Libano) e Ghazi Al Yaour (Iraq) si sono simultaneamente trovati al governo del loro rispettivo paese, pur essendo di nazionalità saudita. 
Tredici anni dopo, sfidata sul fianco sud, in Yemen, dalla più importante organizzazione integralista sunnita del mondo musulmano di dimensioni planetarie, Al Qaeda, escrescenza ribelle del modello wahhabita, la dinastia saudita viene anche messa alla prova dalla formula gloriosa sul piano militare di Hezbollah, la più importante formazione paramilitare del Terzo Mondo, di obbedienza sciita. 
Al centro del conflitto che non ha mai cessato di attizzare, il regno saudita appare retrospettivamente come l’apprendista stregone di una posta che va molto oltre, demiurgo di sfide più grandi, tanto in Iraq, che in Siria, che in Libano, che in Yemen, come prima in Afghanistan. 
Sul fondo di una tensione larvata in seno alla famiglia reale, esacerbata dalla cacciata dal potere di altre componenti della dinastia, nel pieno di una severa crisi economica, di una situazione di stallo in Yemen, dei rovesci in Siria, e di una guerra per procura contro l’Iran in tutta la zona, la dinastia wahhabita si trova in un momento di svolta della sua storia: 
“Non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te”. 
“And therefore never send to know for whom the bell tolls, it tolls for thee”. 
“For Whom the bell tolls” -Ernest Hemingway 
 
Note: 
Ode del New York Times alla Gloria del Regno di Arabia Saudita: Sessanta anni di prosternazione 
http://www.jadaliyya.com/Details/34727/Seventy-Years-of-the-New-York-Times-Describing-Saudi-Royals-as-Leading-Reform 
Licenza Creative Commons  27  Diceembre 2017