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Trump e Putin contro l'Isis 
di Ninni Raimondi
 
 
In quest’epoca in cui, a larghi tratti, è sembrato delinearsi una sorta di ritorno al bipolarismo antagonistico che aveva caratterizzato le relazioni tra Stati Uniti e Russia/ex-URSS lungo quasi tutta la Guerra Fredda (eccezion fatta, probabilmente, per la breve distensione avviata da Nixon nei primi anni Settanta), una semplice stretta di mano e una dichiarazione congiunta tra i leader di due paesi storicamente e naturalmente rivali a livello di collocazione geografica e geopolitica sembra capace di resuscitare gli immaginari evocativi che avevano accompagnato l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, poco più di un anno fa. 
Se è vero, infatti, che non è la prima volta che i due leader hanno modo di incontrarsi e di avere un colloquio bilaterale – era già successo a luglio, a margine del G20 ad Amburgo – è chiaro che le cose da allora sono parecchio cambiate, specialmente a Washington, e molti hanno già iniziato a dare per morta o vicina al tramonto la possibilità di una svolta incarnata dall’era Trump. L’avanzamento dell’inchiesta del Russiagate, l’arresto dell’ex-manager della campagna presidenziale di Trump Paul Manafort e lo stallo politico al Congresso, con una maggioranza repubblicana in Senato risicata, frammentata e tendente a un “ribellismo” anti-presidenziale che sta vanificando gli sforzi della Camera di implementare le maggiori promesse della campagna di Trump (dal taglio delle tasse al repeal di Obamacare), hanno indebolito nettamente la solidità di un’amministrazione che, dal suo esordio di circa nove mesi fa, ha visto perdere tanti suoi pezzi da novanta, dal generale Flynn a Steve Bannon. 
Proprio le difficoltà interne, ulteriormente alimentate dalle sconfitte elettorali di questo fine settimana (in Stati, in verità, quasi tutti saldamente democratici da tempo), potrebbero però aver proiettato l’attenzione dell’amministrazione Trump sulla politica estera, nel tentativo di strappare nel suo primo viaggio in Asia i successi politici e negoziali che in patria stanno oggettivamente venendo a mancare. 
In questo contesto va probabilmente letto il brevissimo e imprevisto colloquio avuto da Trump con Vladimir Putin al vertice Apec in Vietnam. In una dichiarazione congiunta, i due presidenti si sono detti d’accordo nel continuare gli sforzi congiunti nella lotta contro l’Isis fino a quando quest’ultimo sarà definitivamente sconfitto. Obiettivo sulla carta in dirittura d’arrivo, dal momento che anche l’ultima città siriana in mano all’ISIS, Albu Kamal, è stata liberata pochi giorni fa. 
La parte più importante della dichiarazione sembra allora essere l’accordo trovato su un punto che è stato il nodo cruciale per la risoluzione della crisi siriana per diversi anni: la permanenza di Bashar al-Assad nel ruolo di presidente della Siria e il rispetto, con conseguente riconoscimento del suo governo come legittimo, della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria baathista. 
La dichiarazione si è quindi conclusa con l’invito a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano ad “aderire al processo di pace di Ginevra” e ai paesi ONU di moltiplicare gli sforzi umanitari per “alleviare le sofferenze del popolo siriano”. 
Ovviamente, da qui a evidenziare una seria possibilità di distensione tra USA e Russia sulla questione siriana – ma anche e soprattutto su altri fronti, come quello delle sanzioni e del conflitto nel Donbass – purtroppo la distanza è ancora lunga. Troppe restano le distanze, almeno all’apparenza, non tanto tra i due presidenti (la cui potenziale affinità personale è stata diverse volte evidenziata e ha una sua importanza, come l’inossidabile rapporto di amicizia di Putin con Silvio Berlusconi insegna), quanto tra i due rispettivi apparati di potere che hanno mantenuto almeno parzialmente la grammatica e le strutture di pensiero della Guerra Fredda (l’orso russo in espansione nell’Europa dell’Est contro la sindrome di un accerchiamento sempre più stretto da parte della NATO), in una situazione geografico-politica che, secondo molti studiosi di politica internazionale, è semplice inevitabile che porti ciclicamente a conflitti e confronti di vario genere tra le due potenze. 
Tuttavia, c’è la possibilità che nei prossimi mesi, stante la necessità (più per Trump che per Putin) di recuperare consensi interni in vista delle prossime scadenze elettorali (mid-term USA e presidenziali russe, entrambe nel 2018) i due leader abbiano colto l’occasione di un summit dettato da ragioni prettamente economiche per sancire un nuovo tentativo di tregua, col rivolgimento dell’attenzione all’Estremo Oriente, dove Donald Trump è intenzionato a portare avanti la prova di forza contro la Corea del Nord e di costringere Russia e Cina a seguirlo in questo obiettivo almeno sul piano delle sanzioni e della “condanna morale” del regime di Pyongyang. 
 
Indice di questo permanente stato di tensione, che in estate aveva raggiunto il suo apice dialettico, sono le nuove manovre in corso in questi giorni nel mar del Giappone, a cui stanno prendendo parte tre portaerei Usa a propulsione nucleare e relativi gruppi d’attacco. Undici cacciatorpediniere con tecnologie antimissile Aegis e 7 unità navali sudcoreane sono state definite da Seul come “esercitazioni per rafforzare capacità operative”. La moltitudine di mezzi militari e uomini messi in campo, però, con la riunione di tre portaerei in un’unica zona operativa ha un precedente solo nel 2007 e sarà seguita da un altro ciclo di manovre, questa volta con il Giappone. Tuttavia, anche su questo quadrante, la distanza tra USA, Russia e Cina resta molto alta e per certi versi, invalicabile. Se si pensa alla necessità cinese di mantenere uno Stato satellite, per quanto rumoroso, come la Corea del Nord, per evitare il diretto contatto dei propri confini con uno stretto alleato statunitense come Seul ... 
A meno di stravolgimenti epocali nei prossimi mesi, dunque, sembra difficile che la buona predisposizione mostrata diverse volte da Trump e anche da alcuni membri eterodossi del Partito repubblicano, verso la Russia, riesca a trasformarsi in una piena distensione. Ma questa stretta di mano e una dichiarazione congiunta sulla questione siriana rimangono comunque dei fasti rispetto al fondo toccato nelle relazioni tra i due paesi durante l’era Obama e chissà che un Putin rieletto presidente per un ultimo mandato nel 2018 e un Trump uscito illeso dallo scandalo Russiagate – che ha prodotto fin qui molto fumo e poche prove, assolutamente insufficienti per pensare a un impeachment – non possano riuscire a segnare ulteriori punti di disgelo in futuro.
Licenza Creative Commons  13  Gennaio 2018