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Dalmazia e la politica italiana 
di Ninni Raimondi
 
Il confine adriatico dell’Italia ha costituito, in periodi alternati, una zona di frizione, dai veneziani contro i Turchi e soprattutto, dopo la nascita dei nazionalismi. Dal 1800, in Dalmazia, l’elemento italiano, da maggioranza numerica e culturale nonché classe dirigente è stato da tutti avversato, specialmente da chi era alleato all’Italia e di conseguenza è andato via via riducendosi, fino a scomparire. La politica italiana non sempre è stata all’altezza della gestione delle crisi, o, quanto meno, di saper giovarsi delle situazioni politiche favorevoli contingenti. Possiamo così individuare, non una (quella post 1^ Guerra mondiale), ma ben tre “vittorie mutilate”! 
 
Incipit 
Con il nome Dalmazia oggi si fa rifermento a quella regione che si estende sulla costa orientale dell’Adriatico. Geograficamente, è una sottile striscia di terra corrispondente al versante marittimo delle montagne balcaniche che costeggiano il mare Adriatico. 
A partire dai Flavi la provincia venne chiamata ufficialmente Dalmazia e rimase una delle più importanti province romane, fino alla cessazione dell’Impero romano d’occidente. 
L’importanza della romanità, per la Dalmazia, venne ad essere individuata da Gabriele d’Annunzio che, in una delle sue celebri frasi, scrisse: “O Dalmati! Amplissima è la civiltà che vi illustra. Siete quasi orlo di toga, ma tutta la toga è romana”. 
Il dominio di Venezia, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, si estendeva su tutta la costa e poi progressivamente anche verso l’interno andando ad opporsi, con grande forza, alle invasioni turche sia durante le Guerre di Candia che di Morea. 
Furono molti i dalmati e gli istriani che migrarono in terra veneta d’Italia e da pieni cittadini della Repubblica Veneta alcuni diventarono, anche rinomati, personaggi del luogo. Inoltre, molti cristiani, decisero di emigrare nei territori del dominio della Serenissima per scappare dai Turchi 
Fu proprio con il venir meno del potere millenario di Venezia, che si può parlare della fine di un certo mondo marittimo. Nel 1797 ci fu, infatti, la successione del potere austriaco e gli schiavoni vennero allontanati da Venezia e da Napoleone per il timore che questi potessero ribellarsi. 
Dodicimila lasciarono le coste di Venezia, dalla riva che porta ancora il loro nome e con ripetute scariche di fucileria, diedero il saluto a Venezia. Questo segna il periodo di fine e di conclusione del potere della Serenissima. 
 
Il nazionalismo 
Il nazionalismo del XIX sec. e la fine dell’armonia tra i gruppi linguistici diversi. 
La situazione sia con Venezia, sia con i Francesi era: tutti i maschi indipendentemente dal gruppo etnico, di tutta la costa adriatica, parlavano italiano. Il gruppo dirigente e culturale di tutte le cittadine dell’Istria, della Dalmazia e del Montenegro, era totalmente italiano. I figli di tutti i gruppi etnici venivano a studiare in Italia, soprattutto all’Università di Padova. Non ci furono, da parte di qualsiasi gruppo etnico, avversione da portare in contrapposizione tra i vari gruppi. Con la fine della Repubblica di Venezia, la successione dell’Austria, è inevitabile. Con la definitiva pace di Campoformio venne segnata la fine della secolare presenza di Venezia sia in Istria, sia  in Dalmazia e l’inizio dell’epoca austriaca, che andò fino al 1918, con una piccola parentesi napoleonica tra il 1806 ed il 1813. 
All’inizio anche l’Austria mantenne quella che era la struttura e l’ordinamento ottenuto da Venezia. Ovviamente, con i dovuti adattamenti, le trasformazioni più evidenti si ebbero sicuramente nella società e nell’amministrazione. 
L’Austria osteggiò, per motivi di potere, qualsiasi movimento che aveva come riferimento l’Italia. 
Questi movimenti di liberazione erano ormai diffusi in tutta Europa e verso la metà del secolo XIX divenne, tuttavia, irreversibile la presa di coscienza nazionale di strati sempre più ampi delle popolazioni italiane, slovene e croate, residenti all’interno dell’impero. 
In Europa cominciava il risveglio delle nazionalità e la simbiosi fra elemento italiano delle città della Dalmazia e quello croato delle campagne, cominciò ad incrinarsi. 
Si comincia a diffondere, sempre più, la tendenza a ricordare ai croati ed agli slavi quali sono le loro origini. La difficoltà maggiore era rappresentata dal fatto di non avere una lingua comune. Infatti, nel 1832, per la prima volta viene stampata la prima grammatica slava. 
Fino a quel momento, infatti, tutti i Dalmati sia italiani, sia slavi, erano vissuti senza pregiudizi per la lingua parlata  per la nazionalitàe a come spesso succede in zone miste, le varie etnie ed i vari linguaggi cominciarono a mescolarsi e a sovrapporsi tra loro. Questo fece sì che, i vari gruppi nazionali, si prodigarono per volgere a proprio favore le situazioni incerte, onde aumentare la propria consistenza numerica. 
 
Francesco Giuseppe 
L’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, con questo progetto, nel 1866 dichiarava: “Sua maestà ha espresso il preciso ordine di opporsi, in modo risolutivo, all’influsso dell’elemento italiano ancora presente in alcuni Kronländer e di mirare alla slavizzazione delle zone in questione, con tutte le energie e senza alcun riguardo, mediante un adeguato affidamento di incarichi a magistrati, politici ed insegnanti, nonché attraverso l’influenza della stampa nel Tirolo meridionale, Dalmazia e Litorale adriatico.”
Le leggi elettorali favorirono il suffragio universale e quindi le popolazioni più numerose per tale ragione, gli italiani tra il 1860 ed il 1885, persero totalmente egemonia politica sulla Dalmazia. 
La consistenza della comunità italiana, nelle città costiere, cominciò a diminuire progressivamente e con l’unica eccezione della città di Zara, comincia una graduale snazionalizzazione della Dalmazia. Tutti i comuni italiani, pian piano, caddero in mani croate, mentre questi progressivamente raggiungevano la maggioranza alla Dieta Dalmata. 
Le popolazioni slovene e croate furono considerate, dalle autorità austroungariche, più leali di quelle italiane. Probabilmente per la mancanza di un altro Stato di riferimento cui volgere lo sguardo. 
Nel 1909, con un provvedimento regio, la lingua italiana viene vietata in tutti gli edifici pubblici ed i dalmati italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali (è da considerare che, fino all’ingresso dell’Italia nella I Guerra mondiale, l’Austria-Ungeria era alleata). 
 
La prima guerra mondiale 
La Prima guerra mondiale e gli eventi della Venezia-Giulia 
Ad incentivare l’ingresso in guerra dell’Italia contribuì il Patto di Londra, un patto segreto, sottoscritto il 26 aprile 1915 con il quale, le potenze dell’Intesa Francia, Inghilterra e Russia, promettevano all’Italia che se fosse intervenuta militarmente, a loro fianco, avrebbe avuto l’annessione del Trentino, dell’Alto Adige, di Trieste, della Contea di Gorizia e di Gradisca, dell’intera Istria con le isole di Cherso, Lussino e di una parte della Dalmazia. 
L’Italia entra il guerra il 24 maggio del 1915 ed il presidente del Consiglio del Regno di Serbia, venne a conoscenza del Patto di Londra. Per tale ragione vennero organizzati dei comitati Jugoslavi all’estero, per svolgere una campagna propagandistica a favore del nuovo Stato di Jugoslavia che, ancora, doveva sorgere dalla dissoluzione dell’Impero austriaco. 
La reazione di tutti i Dalmati residenti a Roma fu di grande protesta per l’annessione di una così piccola parte della Dalmazia. Le reazioni furono molto forti. In particolare, in diversi manifesti, comparivano queste scritte (purtroppo premonitrici dei decenni successivi): “Rinunziandovi l’Italia verrebbe meno alla sua missione nazionale; abbandonerebbe una così nobile parte di sé al sacrificio estremo e vedrebbe sparire dalla sponda orientale adriatica le sue tradizioni, la sua lingua, la sua civiltà”. 
La Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, sostennero la costituzione dello Stato Jugoslavo unitario, con la condizione che potesse essere un potenziale contrappeso alla crescente influenza italiana nei Balcani e al possibile risorgere della potenza germanica (anche in questo caso, a questi nuovi alleati, interessava solo che l’Italia entrasse in guerra aiutando chi era contro l’Italia!) 
L’Italia chiese, sin da subito, il rispetto di quanto promesso nel Patto di Londra e in aggiunta, la città di Fiume. In quella sede, però, gli alleati e soprattutto gli Stati Uniti d’America, non tennero in alcun conto il Patto di Londra, anzi si rifiutarono di riconoscere i diritti dell’Italia sulla sponda orientale dell’Adriatico. 
 
La diplomazia italiana 
L’attenzione della diplomazia italiana si rivolse, soprattutto, alla questione jugoslava. Il dissidio fra Roma e Belgrado sui confini, creò un aspro contenzioso fra i due Paesi, alimentato dalla Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, che vedevano con favore il rafforzamento della Jugoslavia, in contrasto al dominio dell’Italia. Da considerare che, questi stessi stati, si divisero tutte le colonie tedesche Africane e Asiatiche tra di loro, senza riconoscere alcunché all’Italia. 
I dalmati fecero sentire molto forte la loro protesta. Si opponevano alla rinuncia che l’Italia aveva fatto dell’intera Dalmazia, in favore di un altro Stato: “il voto che il destino, più saggio e più giusto degli uomini, storni dalla grande, dalla generosa, dalla magnifica Nazione italiana, sempre superiore a chiunque la governi, la consumazione della terribile minaccia che dall’Adriatico, consegnato ad altri, ormai, perennemente le incombe”. 
Era evidente il fallimento della diplomazia italiana che rispecchiava quella che era la sua situazione interna, ovvero la mobilitazione di milioni di uomini, la situazione disastrosa dell’economia. La società italiana era sconvolta sia nei suoi equilibri interni, sia in quelli esterni e di conseguenza lo Stato non fu in grado di rispondere a tutte le esigenze, in risposta al forte sconvolgimento provocato dalle masse. 
Un paese diviso e spaccato, sconvolto da movimenti sociali, guidato da una classe politica sempre meno rappresentativa. Questo fu il quadro della società italiana negli anni del primo dopoguerra. Tutto ciò ebbe un forte impatto sulla politica estera dello Stato italiano, inevitabilmente, anche a causa della crisi interna, meno efficace ed incapace di pensare e perseguire strategie di lungo termine. 
Nasce così il mito della vittoria mutilata, una frase d’autore coniata proprio da Gabriele d’Annunzio. Questa frase venne utilizzata, in tutto il primo dopoguerra, da parte dell’opinione pubblica per indicare la situazione deficitaria dei compensi territoriali ottenuti dall’Italia, dopo il suo contributo nella prima guerra mondiale alla vittoria dell’intesa sugli imperi centrali. 
 
La Vittoria 
La Vittoria mutilata assunse le dimensioni di un vero e proprio mito politico nel dopoguerra, andando a costituire una delle basi ideologiche che portarono alla nascita del fascismo. 
Non appena gli italiani apprendono la notizia che solo Zara, Lagosta, Cherso e Lussino faranno parte del Regno d’Italia, lasciano città, isole e terre assegnate dagli accordi di Londra, nel timore di passare sotto la sovranità del Regno di Jugoslavia (secondo esodo). 
Un importante storico, Diego De Castro, in uno dei suoi libri scrisse: "La italianità della Dalmazia era ormai legata quasi esclusivamente a Zara, Cherso, Lussino e Lagosta". 
In Italia l’ascesa del movimento fascista riportò in auge il mito della "vittoria mutilata" e la polemica sul trattato di Rapallo. Fascisti e nazionalisti denunciavano, strumentalmente, ogni concessione politica ed economica a Belgrado come segno di debolezza dell’Italia. 
 
Geostrategia e politica italiana degli anni ’30 e ’40 
Tutto lo studio della geopolitica fascista era indirizzata all’opposizione di quella che veniva considerata una spartizione iniqua realizzata da Versailles, nella più totale indifferenza sia del diritto demografico, sia delle nazioni e delle esigenze di popoli dotati di una popolazione sovrabbondante. La Vittoria mutilata, veniva interpretata come lo strumento di tutela delle nazioni più ricche, a danno dell’Italia, nazione proletaria che stava sviluppando le sue possibilità. 
Il Duce decise di rivolgere la politica estera del Fascismo in direzione del controllo del Mediterraneo, valutando un’oculata attività di dominio sul Canale di Gibilterra e quello di Suez. Questi era, infatti, consapevole dell’importanza legata al controllo dei due stretti sia per vita politica e commerciale presente, sia per il futuro. 
A differenza degli altri stati europei l’Italia, invece, diede alla geopolitica un nuovo indirizzo e cioè l’umanesimo geografico, riguardante la valorizzazione di fattori culturali e spirituali. In aggiunta la geopolitica italiana diviene la scienza degli spazi vitali indirizzata a individuare delle aree geografiche, nelle quali l’ambiente e le tradizioni storiche, si devono accordare con il bene comune. 
In un famosissimo discorso tenuto a Milano nel 1936, il Duce, specifica a chiare lettere che, se il Mediterraneo era considerato dall’Inghilterra come una semplice arteria di comunicazione, per l’Italia aveva invece il valore di spazio vitale, che non poteva essere assolutamente abbandonato. 
Per la politica fascista era assolutamente giustificata la presenza dell’Italia nei Balcani, perché era la storia che lo giustificava da sempre. 
 
La Dalmazia è esclusa 
Era la prima volta dunque (dal tempo dei Romani), che a seguito del patto di Versailles, la Dalmazia perdeva la sua funzione di centro dell’italianità. 
I primi atti del Duce, verso lo Stato jugoslavo, furono orientati al miglioramento delle relazioni bilaterali. Inviò segnali rassicuranti a Belgrado circa la sua volontà di creare una reale amicizia italo-jugoslava; impose ai gruppi nazionalisti e fascisti italiani di non suscitare incidenti anti jugoslavi e nel febbraio 1923, presentò gli accordi di Santa Margherita al Parlamento ottenendone la ratifica. 
Mussolini si convince sempre più del fatto che, la conquista militare della Dalmazia, non è utile ai fini della protezione dell’italianità, in quanto si rende conto di quanto fosse impossibile poter annettere tutti i territori nei quali erano residenti le comunità italofone. 
In virtù anche di un positivo rapporto con la Serbia, Mussolini comincia a pensare ad una accordo di natura strategica, in modo tale che, tutte le città italiane del litorale, possano divenire punti di appoggio per una futura espansione, non soltanto economica, ma anche culturale. 
A partire dal 1927, tuttavia, le relazioni italo-jugoslave si deteriorarono provocando la fine dell’alleanza fra Roma e Belgrado. La crisi fra Italia e Jugoslavia contribuì a favorire il forte peggioramento dei rapporti fra Roma e Praga, alleata di Belgrado nella Piccola Intesa e accusata dagli italiani di essere lo strumento della politica anti-italiana della Francia in Europa centrale. A ciò si aggiunge un evidente sostegno dell’Italia al separatismo croato, che andò ad avvelenare definitivamente tutti i rapporti tra Italia e Jugoslavia. 
La minoranza italiana, presente in Jugoslavia, non ebbe vita facile e dalle città costiere della Dalmazia si accentuò l’esodo di italiani che era iniziato con il Trattato di Rapallo. 
 
Jugoslavia e Croazia 
La situazione diplomatica della Jugoslavia e della Croazia era molto delicata, molti troppi attori stranieri erano interessati al dominio sulla zona balcanica. Tra i tanti anche la Francia con Pribicevic, referente in Jugoslavia che alimentava la campagna francese e manteneva una costante linea d’attacco verso l’Italia. 
Si cominciano, dunque, a manifestare da parte della Francia degli aiuti nei confronti dei separatisti Croati, in totale contrasto con la diplomazia fascista che voleva garantire il mantenimento di un rapporto privilegiato con i governi della regione balcanica. 
Un altro valido motivo era rappresentato dal fatto che, il regno slavo in quegli anni, stava manifestando, palesemente, evidenti intenzioni di entrare a far parte dell’influenza geo-politica della Germania. 
Hitler approfitta della situazione creatasi a livello europeo e nello stesso anno, costituisce il cosiddetto Asse Roma-Berlino, patto d’amicizia tra governi che si ritengono delusi dalla politica di Versailles e, in generale, dalla Società delle Nazioni ma le speranze fasciste di un duopolio italo-tedesco, in Europa centrale, svanirono rapidamente nel corso del 1938. Hitler non si accontentò di poter ottenere il controllo dell’Austria quale semplice alleata ma decide di procedere alla sua annessione, tale operazione militare realizzata nel febbraio del 1938, venne eseguita senza consultare minimamente il governo italiano, vennero imposti degli accordi a Vienna; in questo modo tutta l’Europa doveva comprendere che la Germania era intenzionata ad accelerare la sua forza ed il suo potere. 
Il gruppo dirigente italiano riteneva che, non opponendosi alla Germania, l’Italia avrebbe presentato il conto per avere in cambio ciò che le spettava e che meritava e di conseguenza la speranza era quella che i tedeschi avrebbero tenuto in considerazione i desideri degli italiani. In realtà non fu così anzi, al contrario, da questo momento in poi l’influenza dell’Italia in Europa era sempre minore e proporzionalmente il potere e l’influenza della Germania crescevano sempre più. 
Proprio della paura, doveva approfittare l’Italia per cercare di scongiurare il pericolo e conquistare i territori adriatici. Era proprio insita nel pensiero italiano la soluzione, cioè Mussolini doveva sfruttare a suo vantaggio sia l’ostilità ideologica nei confronti dello Stato unitario Jugoslavo, sia il desiderio dell’Italia di vedersi annessa finalmente la Dalmazia, per provocare la disgregazione della Jugoslavia e quindi sostenere l’indipendentismo croato. 
 
L'Italia non reagisce 
L’Italia però non reagisce ed è fortemente bloccata dal timore che la Germania possa agire anche in Jugoslavia. Famosa una pagina (premonitrice) del diario di Ciano dove scriveva: “Il Duce […] Lo preoccupa il problema croato: teme che Macek proclami l’indipendenza e si metta sotto la protezione tedesca. In tal caso non ci sono alternative tranne queste: o sparare il primo colpo di fucile contro la Germania o essere spazzati da una rivoluzione che faranno gli stessi fascisti: nessun tollererebbe di vedere la croce uncinata in Adriatico”. 
Dopo vari dubbi ed incertezze, Mussolini, decide di mantenere i buoni rapporti con la Germania con una nuovo rafforzamento nelle intenzioni ed in particolare nel controllo politico e militare di Dalmazia ed Albania che, ormai, erano vitali per il ruolo assunto dall’Italia. 
Mussolini possiamo dire che, in questa situazione, diviene vittima della sua strategia diplomatica, in quanto ormai l’espansione adriatica era giustificata dall’esigenza di tutelare questo spazio vitale non più dai paesi occidentali, ma proprio dagli alleati tedeschi. 
La Germania, a questo punto, capisce che per poter procedere nel suo progetto deve tenere buona l’Italia. Di conseguenza, invia un ambasciatore a Roma, il quale rassicura l’Italia sulle intenzioni della Germania dichiarando apertamente che quest’ultima non ha alcuna mira espansionistica nei confronti del mediterraneo, che la Germania considera tali zone come mare italiano. Tali rassicurazioni vennero successivamente confermate anche da una lettera inviata dal ministro degli esteri tedesco, il quale manifestava il suo ringraziamento nei confronti dell’Italia per aver assecondato gli interessi e le volontà della Germania nella questione Cecoslovacca e dichiarava il suo disinteressamento al problema Croazia, che doveva essere risolto solo ed esclusivamente dall’Italia. 
 
Gli accordi 
Gli “Accordi di Monfalcone” e la suddivisione della Dalmazia tra Italia e Croazia, una “seconda vittoria mutilata”. 
Con l’inizio della seconda guerra mondiale fu evidente il grande ridimensionamento dell’influenza italiana in Europa a totale vantaggio della Germania, per l’Italia, l’ascesa della Germania, sua alleata,viene vista come una grande opportunità sia di forza politica sia di facilitazione nella realizzazione della sua espansione imperialistica nel mediterraneo. 
Così, il 10 giugno del 1940, l’Italia dichiara lo stato di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia. Tra gli obiettivi che Mussolini voleva ottenere entrando in guerra c'erano: realizzare lo spazio vitale nel mediterraneo ed in Africa e rafforzare diplomaticamente l’Italia fascista di fronte al forte espansionismo della Germania. 
La Germania non è intenzionata a creare instabilità nei Balcani, perché essendo in una situazione di superiorità sia economica, sia finanziaria preferisce la costituzione della Jugoslavia, quale stato egemonizzato da Berlino e non ne vuole la sua distruzione. 
I piani di Hitler non prevedevano operazioni militari, ma erano diretti a costituire un sistema di alleanze per stabilizzare la regione balcanica in vista del probabile attacco all’est contro l’Unione Sovietica. 
Bisogna precisare, tuttavia, che al di là delle apparenze già nei giorni precedenti allo scoppio della guerra la diplomazia germanica, aveva cercato dei contatti con la classe dirigente croata, questo per cercare di raccogliere il maggior numero di consensi possibili per la creazione di uno Stato croato indipendente. 
 
E il Duce? 
Mussolini cerca, in tutti i modi, di convincere Hitler della necessità di assoggettare la Jugoslavia all’Italia, ma tutti questi progetti si scontrano con la contrarietà della Germania ad attuare delle operazioni militari nei Balcani. 
Per questo, dopo tante contrattazioni, il 25 marzo del 1941 il governo jugoslavo con la promessa del Porto di Salonicco in Grecia decide di aderire al patto Tripartito, firmato il 27 settembre 1940 da Germania, Italia e Giappone, nel quale era chiaramente stabilito che la Germania avrebbe dominato sull’Europa, l’Italia sul Mediterraneo e il Giappone sull’Asia. 
Il patto dura poco, infatti, nella stessa notte tra il 26 ed il 27 marzo un gruppo di ufficiali serbi effettuano un colpo di stato per manifestare contro l’intesa con la Germania nazista. 
Venne posto sul trono Pietro di Jugoslavia e in questa operazione, l’ambasciatore britannico ebbe un fortissimo ruolo per rovesciare il potere. 
Nonostante i tentativi del nuovo governo jugoslavo di mantenere fede in ogni caso a quelle che erano state le promesse assunte, la decisione di Hitler fu durissima: i traditori vennero puniti con una spedizione militare. 
 
La Germania 
La Germania ritiene inevitabile un intervento, sia per estendere il predominio dell’Asse, sia per impedire un ritorno delle forze della Gran Bretagna sul continente Europeo. Intervento che è costato, alla Germania, il procrastinare l’attacco all’Unione sovietica, creando non pochi problemi sulla tempistica di attacco, collegata alle condizioni stagionali. 
Il 6 aprile del 1941 il regno di Jugoslavia viene occupato. L’avanzata dell’esercito tedesco procedette secondo i piani: il 10 aprile Zagabria era già stata occupata e i tedeschi vennero accolti come liberatori. Il giorno successivo venne proclamata la costituzione dello Stato Indipendente di Croazia. 
Il conflitto vero e proprio dura solo undici giorni. Il 12 aprile la bandiera nazista sventola a Belgrado ed il 17 l’esercito jugoslavo firma la sua capitolazione. 
Per cercare di mantenere una certa influenza, in Jugoslavia, Mussolini cerca il contatto con gli ustascia, un movimento nazionalista e fascista croato che si opponeva alla al Regno di Jugoslavia. Invita Pavelic, fondatore del movimento, a Roma e comunica la sua volontà di sostenere la nascita di una Croazia indipendente guidata dal partito ustascia ma, in cambio del riconoscimento di questo nuovo Stato voleva che fosse precisato il diritto dell’Italia di poter stabilire liberamente i suoi confini. Tale condizione, ovviamente, non consentì il raggiungimento di alcun risultato. 
L’Italia vedeva, finalmente, l’opportunità di riaprire quella questione adriatica e rivendicare la sconfitta in sede di negoziati della prima guerra mondiale. 
Tuttavia gli obiettivi italiani si scontravano con quelle che erano le reali intenzioni della Germania che, ormai, perseguiva l’obiettivo di creare uno Stato croato forte e indipendente. 
 
E il Führer? 
Hitler, tuttavia, ha bisogno dell’appoggio di Mussolini, e per tale ragione sceglie di lasciarlo libero nella determinazione di quelli che erano i confini italiani con la Croazia. Si tratta di una concessione soltanto. Intanto, Hitler, forniva tutta una serie di indicazioni per organizzare lo spazio politico e militare della Croazia. 
Gli accordi di Monfalcone rappresentano la fine delle tortuose trattative tra Italia e la Croazia, con l’azione nell’ombra della Germania nazionalsocialista che voleva eliminare qualsiasi influenza italiana sulla Croazia. 
La Germania, dunque, fa il doppio gioco. Se da una parte rassicura Roma sul suo disinteresse nei confronti della Croazia, dall’altra chiede che l’Italia gli garantisca il rispetto degli interessi economici in quei territori occupati dall’Italia. 
Entrambe le delegazioni avrebbero voluto integrare la Dalmazia e se i Croati, ad un certo punto, furono disposti a cedere su alcune parti della Dalmazia, la questione si concentrò tutta su Spalato, in quanto si trattava della più grande città Dalmata ed aveva un valore, oltre che economico, anche fortemente simbolico. 
Tuttavia, in Italia, non tutti erano favorevoli a tale annessione. Se da una parte riconosceva il valore strategico delle basi dalmate, dall’altra manifestava le sue perplessità in merito alla difesa di questi territori. 
Il Re e Imperatore Vittorio Emanuele III era apertamente contrario perché riteneva che, l’annessione della Dalmazia all’Italia, avrebbe portato soltanto problemi e che, ormai, non vi erano più legami con l’Italia, ma solo vecchi sentimentalismi. 
Di fronte alle pressioni e alle resistenze croate, Mussolini decideva di essere disposto a fare delle concessioni, in vista del fatto che era più utile ammettere la Croazia nell’influenza politica italiana piuttosto che perdere dei territori popolati da croati, apertamente ostili. Quindi ridimensiona il suo programma territoriale, considerata l’indisponibilità della Croazia a rinunciare a Spalato ed al suo rifiuto di creare una unione doganale ed economica italo-croata. 
 
Le decisioni del Duce 
Mussolini decide di rinunciare all’unione doganale, nonostante le insistenze della diplomazia italiana. Il negoziato viene iniziato e condotto da diplomatici che conoscevano poco le questioni trattate, senza un adeguato studio preparatorio dei problemi, lasciando un ruolo marginale a tecnici ed esperti in possesso di un’approfondita conoscenza della realtà economica, geografica e etnica della Croazia. 
Solo con ritardo, il governo di Roma, comprese che i confini concordati con Zagabria non avevano senso sul piano economico, strategico e storico: lasciavano in mano croata il controllo delle maggiori vie di comunicazione, d’importanti interessi economici italiani e delle principali risorse naturali della regione. 
Con la firma degli accordi Mussolini, in cambio di Spalato, concede alcuni territori intorno a Fiume. La Croazia, dunque, decide di accettare questa proposta, con  evidenti intenti strategici.  Tutto venne fatto per riuscire ad ottenere almeno una parte della Dalmazia. 
Con questo trattato, in maniera definitiva, venivano determinate le nuove frontiere. La restante parte della Dalmazia venne, invece, annessa allo Stato Croato. L'accordo inoltre prevedeva la smilitarizzazione della costa adriatica, delle isole, con  il divieto di attrezzare qualsiasi opera o apprestamento militare. 
Per attenuare le critiche di parte della diplomazia italiana e del Partito fascista, che vedeva negli accordi di Roma una “nuova vittoria mutilata”, vennero previste delle garanzie culturali, linguistiche e scolastiche per le minoranze italiane nei territori e nelle isole della Dalmazia croata. 
Fin dal maggio 1941, attraverso un accordo economico segreto, che la Germania si assicuro il controllo privilegiato delle materie prime e del commercio della Croazia, vanificando le ambizioni egemoniche italiane nella regione. 
 
La Croazia 
La Germania sfruttò totalmente, a suo vantaggio, la situazione facendo sì che la Croazia aumentasse il rancore nei confronti dell’Italia, per tutte quelle che erano le aspirazioni non soddisfatte.  
La Germania effettua, così, una politica sommersa, facendo in modo che, piano piano, la Croazia possa cadere nell’orbita tedesca. La Germania lasciò all’Italia la soluzione della questione ma questa, secondo gli storici, fu solo una strategia per evitare di inimicarsi la classe politica croata. Lo Stato tedesco aveva, infatti, grandi interessi economici in Croazia e nella ex Jugoslavia, regioni cruciali come fonte di materie prime. 
Gli accordi di Monfalcone e i successivi patti di Roma segnano quello che è il definitivo fallimento dei progetti economici italiani. Si tratta di accordi sfumati, che rinviano solo ad eventi ipotetici e indefiniti. Formule che favoriscono soltanto la Germania che, da sempre, mirava ad inglobare lo Stato croato nella sua sfera di influenza, soprattutto in relazione alla gestione delle risorse minerarie. 
L’accordo segreto tedesco-croato fu tra le principali cause del fallimento dei progetti italiani in Croazia, ma probabilmente venne anche favorito dal desiderio del Duce di ottenere Spalato. Infatti, proprio in cambio della città, vennero concesse delle formule meno vincolanti in tema di unione doganale. 
Tito dimostrò notevoli qualità di dirigente e di capo militare. Abile e determinato, fu in grado di organizzare la guerriglia e di soppiantare, progressivamente, tutti gli altri capi della resistenza. Circondato da luogotenenti disciplinati e fidati, seppe mantenere, grazie al suo carisma personale e alla sua autorevolezza, la guida suprema del movimento resistenziale comunista e costituire una struttura militare efficiente. 
I sabotaggi e gli attentati contro gli italiani divennero più frequenti. I militari italiani presenti nell’area balcanica si trovarono, pertanto, ad affrontare una guerra che fu veramente globale, nel senso che non vi furono prime linee o retrovie come in un conflitto classico, dato che in ogni luogo poteva esserci un’imboscata. 
Osservando gli esiti dell’Italia nei Balcani possiamo individuare, negli accordi di Monfalcone e nei Patti di Roma, una seconda vittoria mutilata dell’Italia. Ad entrare per prime in Croazia non furono mai le armi italiani, così come Mussolini aveva sperato, ma sulla strada di Zagabria, a sfilare, vi erano solo ed esclusivamente le insegne dei reparti tedeschi. 
 
L’armistizio, i fatti del 1991 e la “terza vittoria mutilata” 
L’annuncio dell’armistizio segnò la fine della presenza italiana in Dalmazia. Il venir meno degli accordi con i propri alleati fece sì che, qualunque fosse stato l’esito della guerra, l’Italia non sarebbe rientrata tra i Paesi vincitori, con la conseguente perdita di tutte le conquiste belliche. 
I partigiani occuparono quelle zone dove non vi era traccia delle forze dell’ordine, instaurando governi popolari. 
A Ragusa e a Cattaro gli italiani si opposero con le armi ai tedeschi che riuscirono, tuttavia, dopo pochi giorni ad occupare la città e assumerne completamente il controllo. I tedeschi rastrellarono i civili che, durante la breve occupazione partigiana, avevano fatto causa comune con questi. I tedeschi, che già diffidavano dell’alleato italiano, si mossero con estrema rapidità e decisione non appena avuta notizia dell’armistizio, seguendo le direttive generali da tempo definite. 
Parallelamente, diversi reparti partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo, varcarono il vecchio confine italo-jugoslavo raggiungendo diverse località della penisola istriana e isontina. La situazione divenne caotica, in un clima di crescente anarchia e di violenza diffusa: vennero saccheggiati magazzini, negozi e dati alle fiamme diversi archivi comunali. 
Ci furono pestaggi e violenze non solo a carico di coloro che si erano compromessi con il passato regime fascista, ma anche nei confronti di persone estranee e incolpevoli, come ragazze e donne incinte, in un clima di rivolta contadina, con i suoi improvvisi selvaggi furori, in un misto di rivalse sociali, nazionali, politiche, economiche e personali. Le violenze e le uccisioni assunsero valenza non solo ideologica, ma anche nazionale per la presenza, nelle fila partigiane, di numerosi esponenti nazionalisti, che rivendicavano la Venezia Giulia alla nuova Jugoslavia che volevano costruire. Vennero presi di mira, arrestati, deportati e uccisi non soltanto gli appartenenti alle forze dell’ordine, ma anche tutte le figure più rappresentative di quella che era l’Amministrazione statale italiana. 
 
La tragedia 
Le foibe rappresentarono il simbolo di una tragedia spaventosa che colpì la popolazione giuliano-dalmata, quando migliaia di persone vennero uccise dai partigiani di Tito ed i loro corpi gettati in parte in queste voragini, in parte nelle fosse comuni o in fondo all’Adriatico, oppure fatti sparire dai vari luoghi di prigionia. 
I Tedeschi ostacolarono, pure, la costituzione e l’insediamento di reparti militari della Repubblica Sociale Italiana che, numericamente esigui, dovettero comunque dipendere sotto l’aspetto tattico-operativo dalle forze armate germaniche. 
La città di Zara, roccaforte della presenza italiana in Dalmazia, rimase per tredici mesi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, in una posizione drammatica. Occupata militarmente dai tedeschi, continuò ad avere un’amministrazione italiana. La città venne continuamente bombardata (senza nessun motivo tattico) dall’aviazione angloamericana, anche in base alle sollecitazioni dei comandi partigiani jugoslavi. In pochi mesi Zara venne rasa al suolo e circa 2.000 dei suoi 21.000 abitanti morirono sotto i bombardamenti. Altre 15.000 persone abbandonarono la città per fuggire verso Trieste e Ancona. Zara fu il capoluogo italiano di provincia più distrutto nel corso della seconda guerra mondiale. 
Con la sconfitta militare dell’Asse, l’Italia, in tutte le trattative di pace del secondo dopoguerra, è stata considerata come nazione sconfitta. Tutti i sacrifici della resistenza hanno avuto un peso relativo, per cui la Jugoslavia si proponeva come paese aggredito. Senza addentrarci nelle trattative di pace, le varie proposte per Trieste, il Memorandum di Londra e il successivo trattato di Osimo, nei territori, già italiani, non solo vi è stata la pulizia etnica di ogni elemento italiano durante la guerra, ma tutta la politica iugoslava era tesa a snaturare quei pochi italiani che, a volte per fede al partito comunista, erano rimasti in quei territori. 
È da considerare, peraltro, che l’opinione pubblica italiana e la politica italiana dagli anni settanta si disinteressò ai confini orientali dell’Italia. 
Ma l’occasione dell’Italia, per riaprire il contenzioso, arrivò nel 1991. La crisi dello stato jugoslavo e la sua frantumazione era l’occasione per arrivare ad un accordo, facendo reciproche concessioni. Ancora una volta i Tedeschi (anche ora “amici” nell’ambito dell’UE) sostennero l’indipendenza della Slovenia e della Croazia. L’unica proposta che è stata capace di fare l’Italia, durante il periodo di crisi, fu un memorandum d’intesa per la salvaguardia degli italiani (ormai pochissimi) di Croazia, Anche questa piccolissima proposta, però, venne rigettata. Pochi, in Italia, tra cui gli esuli, proposero, in cambio del riconoscimento da parte dell’Italia (di Slovenia e Croazia) alcune modifiche territoriali o almeno la restituzione di alcuni dei beni degli esuli ancora disponibili. Le proposte, però, non vennero prese neanche in considerazione. 
 
La questione 
L’altra opportunità per negoziare era di procrastinare l’assenso dell’Italia all’ingresso nell’Unione Europea dei nuovi stati. Ma, né il governo di centrodestra di Berlusconi (tra cui solo un paio di parlamentari avevano a cuore la questione), né il successivo governo di centro sinistra, sono stati capaci di intervenire, neanche sulle questioni più elementari. È da evidenziare che, le poche richieste italiane del governo Berlusconi, hanno dato fastidio agli Stati Uniti e alla Germania.  Era interesse statunitense a far entrare, da subito, la Slovenia nella NATO pertanto, qualsiasi rinvio del riconoscimento italiano, andava contro questo obiettivo. In tutto questo, non solo la Slovenia non ebbe nessun “incomodo” dall’Italia, ma si eresse a difensore degli sloveni di cittadinanza italiana. Intanto Germania, Francia e Austria, facevano accordi economici con la Slovenia. La tracotanza slovena arrivò al punto che rifiutò un accordo sul reciproco impegno, a favore delle minoranze, nonostante fosse più gravoso per l’Italia (fatto diplomatico insolito nei rapporti internazionali). La soluzione del problema sarebbe stato una totale annullamento della politica internazionale italiana.  
E tale fu!  
Il governo Prodi, sotto l’incalzante richiesta statunitense di Clinton, accolse in pieno le richieste americane. Si conclude così, ignobilmente, la terza occasione dell’Italia per un equo accordo sulle questioni adriatiche! 
L’interesse non è soltanto “ideale” o su pochi beni, che gli esuli possono ri-possedere, ma è, oggi, soprattutto economico. Infatti, come ci aggiorna il sito internet del Ministero degli Esteri italiano: “L’Italia è stato nell’ultimo decennio il primo partner commerciale della Croazia, ma a partire dal primo semestre del 2015 ha perso tale posizione, collocandosi al secondo posto dopo la Germania. Nel 2016, in base ai dati dell’Istituto di statistica croato, l’interscambio bilaterale ha superato i 4 miliardi di € (13% del totale dell’interscambio commerciale croato; crescita del 5%). L’Italia rimane tuttora il principale mercato di sbocco dell’export croato (le esportazioni croate verso l’Italia – pari a 1,69 miliardi di € – sono cresciute del 9,2%), ma resta il secondo fornitore: il valore delle forniture italiane è in aumento (+2,3%) e ha raggiunto quasi 2,5 miliardi di € (12,6% dell’import croato). Il valore dell’interscambio bilaterale realizzato nel primo trimestre del 2017 è stato pari a 1,12 miliardi di euro (13,1% del totale dell’interscambio commerciale croato; crescita del 13,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno)”.  
Ancor peggio, per l’Italia, è la situazione degli investimenti e dei rapporti finanziari! 
 
Montenegro e Albania 
La stessa situazione si sta verificando in Montenegro e in Albania. La Germania, in questi ultimi anni, sta recuperando velocemente posizioni nell’interscambio commerciale in tutta l’area balcanica e adriatica, a discapito dell’Italia. In Slovenia, la Germania, è di gran lunga la nazione che primeggia nell’interscambio commerciale. 
Un parallelismo storico.  
Nel 480 a. C. Serse avanzava, deciso a conquistare la Grecia, come Tito per Zara.  
Temistocle fa sgombrare tutti gli abitanti di Atene.  
Gli Italiani fuggono da Zara o vengono uccisi.  
Serse rase al suolo la città, gli “Alleati” e Tito la distrussero. Ma gli atenesi attesero il ritiro di Serse per ricostruire la propria città. 
In questo senso, l’appello di Junio Valerio Borghese ("Tornate alle vostre case e collaborate per la rinascita dell’Italia ricordandovi che un popolo non finisce per una sconfitta, ma quando dimentica di essere un popolo. Tenete presente, altresì, che la sorte del nostro confine orientale non è ancora definita; quando l’Italia dovesse lanciare un appello per la salvezza della Venezia Giulia, nessuno di voi manchi"), dalla politica italiana non è stato mai ascoltato. Speriamo rimanga vivo il ricordo nei figli degli esuli e negli italiani (trionfando sul tritacarne liberal-globalista che cerca di far dimenticare la cultura nazionale) affinché, una prossima possibilità, non venga sciupata. 
Al fine di rendere più reale questa possibilità, uno strumento, anche se a lungo termine, è quello di acquistare beni immobili, andarci a vivere, creare attività economiche, culturali e scolastiche italiane, nonché ricevere contributi economici da tutti gli italiani sparsi per il mondo, proprio come fecero gli ebrei in Palestina, agli inizi del 900, che videro le loro speranze concretizzarsi nell’arco di cinquanta anni! 
 
Evviva l'Italia! 
Licenza Creative Commons  12 Febbraio  2018
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