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L’effetto Trump
 
L'effetto Trump 
di Ninni Raimondi
 
 
La politica economica del Presidente Trump consiste in un drastico abbassamento delle tasse, soprattutto verso le imprese, in aperto contrasto con la (finta) “politica sociale” del predecessore Obama.  
In pratica, nei piani di Trump, il calo delle imposte dovrebbe consentire all’industria statunitense d’incrementare la produzione, riducendo i costi e quindi i prezzi, aumentando i posti di lavoro, con un volano che scateni l’economia interna e di conseguenza il valore borsistico. 
Il gioco non è casuale: infatti, capita proprio nel momento in cui il dollaro è debole e l’euro è forte.  
Ciò favorisce le esportazioni statunitensi verso la Vecchia Europa, e contemporaneamente riduce le esportazioni di quest’ultima verso i Paesi esteri; quanto sopra avviene nonostante il “Quantitative Easing” attuato dalla Banca Centrale Europea, il quale – secondo le leggi della macroeconomia – avrebbe dovuto comportare un incremento dell’inflazione a causa della massiccia immissione di euro sul mercato. 
 
Invece è avvenuto il contrario, e a completare il quadro si aggiunge la politica di contenimento al minimo dei tassi d’interesse da parte della BCE. 
Semplificando, questo piano imbastito dall’alta finanza ha lo scopo di rilanciare l’economia nord-americana, grazie anche all’imposizione di dazi che colpiranno le esportazioni di prodotti a basso costo (indiani e cinesi) verso gli States. L’Europa, invece, è destinata a diventare una cash cow, una vacca da mungere, travagliata da una stasi preoccupante. Non per niente, la Turchia se ne è allontanata in tempo, preferendo l’asse Ankara-Teheran-Mosca, onde non farsi trascinare nei giochi monetari architettati dalla finanza internazionale; lo stesso dicasi per la Gran Bretagna, che storicamente mai è stata europea. 
Il piano diventa ancora più chiaro, se si considera che il cambio €/$ nel maggio 2014 era 1,39 e nel gennaio 2015 era balzato a quota 1,09, mentre oggi naviga a 1,24 e probabilmente salirà ancora per attestarsi a oltre 1,30. Per esempio, se un oggetto prima costava 100 $, con il cambio a 1.09 lo si poteva acquistare spendendo 92 centesimi di €, mentre oggi ne bastano 81 con il cambio a 1,24, perciò in teoria agli Europei converrebbe comprare dagli Statunitensi; al contrario è più difficile esportare verso gli Stati Uniti, a causa sia dell’euro forte sia dei suddetti dazi.  
Questo fenomeno comporterà un affossamento della nostra economia, incrementando le importazioni e indebolendo le esportazioni, in un mercato avvelenato dalla globalizzazione. 
 
L’unica soluzione allora è chiara e consisterebbe nell’uscire dall’euro, nel battere moneta nazionale, e nell’impostare una politica in contrapposizione a quella sinora condotta dalla BCE così come a quella americana, chiamata Prima l’Italia, Prima l’Europa, in base a un nazionalismo europeo di ampio respiro, ovvero una nuova e moderna autarchia per il Vecchio Continente e la sua Civiltà. Un’Europa autonoma, forte, prospera, pacifica, e bene armata. 
Licenza Creative Commons  21 Febbraio  2018
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