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Nuovi anni di piombo
 
Nuovi anni di piombo 
di Ninni Raimondi
 
Nuovi anni di piombo? 
Stiamo davvero tornando agli anni di piombo, come ripetono in molti, dopo gli ultimi casi di violenza politica per mano antifascista e le campagne stampa sapientemente orchestrate?  
Pericolo fascista alle porte? A rifare la cronaca delle ultime settimane, in realtà, si direbbe che la violenza arrivi da una parte ben precisa: quella degli antifascisti. L’elenco (sicuramente parziale) delle violenze dei centri sociali, anche solo limitandoci al 2018 appena iniziato, è impressionante. E l’escalation è sotto gli occhi di tutti: a febbraio c’è stata una violenza antifascista ogni due giorni. Ecco tutte le nefandezze dei “bravi ragazzi” dei centri sociali. 
Sì e no. Alcune similitudini e divergenze si possono comunque tracciare con relativa sicurezza. 
L’atomizzazione della società ha fatto, purtroppo, enormi passi da gigante.  
Negli anni ’70 quelle che vengono chiamate le “agenzie di senso” (la chiesa, il partito, il sindacato, la classe sociale, la famiglia) avevano ancora un ruolo, costituivano lo sfondo in cui maturavano le esperienze individuali. Lo stesso terrorismo fu, a ben vedere, un’avventura collettiva, per quanto sanguinaria. Oggi siamo tutti più soli, coltiviamo le nostre nevrosi nel nostro disperato cantuccio individualistico. Ecco perché le figure così americane dei “giustizieri” sono molto più in fase con la nostra epoca rispetto a qualsiasi tipo di violenza organizzata.  
 
Un esempio? 
La solitudine del "Giustiziere" 
Alle elezioni del 2017, Luca Traini, l’aspirante stragista di Macerata, era stato candidato con la Lega Nord al consiglio comunale di Corridonia, un comune di 15mila abitanti nel Maceratese. Aveva preso zero preferenze. Neanche il suo voto, quindi, dato che lui era residente nella vicina Tolentino. Non aveva comunque trovato un amico, un parente, un conoscente, un elettore qualsiasi che fosse disposto a votarlo. La politica come ricerca del consenso, come avventura collettiva, come capacità di individuare e comunicare un senso comune, una direzione comunitaria, gli era a quanto pare estranea. C’era, par di capire, una grande solitudine esistenziale, nella vita di quest’uomo. Non è una giustificazione, ma la ricostruzione di un contesto, serve a comprendere, non a scusare. Non siamo intellettuali liberal di fronte a una strage jihadista, non abbiamo bisogno di sgravarci la coscienza. Abbiamo bisogno di capire. 
Nella lingua sciolta dell’unico suo conoscente che sta parlando in queste ore, emerge il ritratto di un uomo privo di legami familiari, incapace di mantenere quelli lavorativi, persino goffo e inopportuno in quelli occasionali, come quando infastidiva i clienti della palestra con atteggiamenti sopra le righe. Anche le immagini della sua stanza, riprese dai carabinieri, danno l’idea di un’esistenza arida, spoglia, anche al netto del grottesco e molto “scenografico” ritrovamento librario. Questo isolamento è esattamente il contrario della politica, che si svolge nella polis, nell’agorà, in piazza, nella dialettica comunitaria. Ma è proprio così che nascono i “giustizieri”, che non a caso sono un’invenzione tipicamente americana. 
Se il sistema economico americano produce marginalizzazione sociale e quello culturale si basa sui settarismi, quello politico, viceversa, appare strutturalmente incapace di interloquire con le istanze radicali e canalizzarle in un progetto. La miscela è esplosiva, e non è un caso che quattro presidenti americani siano stati uccisi in attentati, e almeno una decina di loro ne abbia subito uno senza conseguenze. A colpire è sempre l’individuo isolato: non c’è mai una rivoluzione o anche solo un piano insurrezionale, sempre e solo la scheggia impazzita, come se il gesto folle fosse l’unico modo “rivoluzionario” per rapportarsi a un sistema bloccato, sordo, immutabile. La figura del giustiziere è figlia di questa desertificazione sociale che, dai sobborghi statunitensi, si è trasferita anche da noi. 
Non è figlia degli eccessi della politica, come ritiene qualche pagliaccio, ma, al contrario, di un’impotenza della politica che non sa intercettare autenticamente la rabbia, né dare a essa una risposta, un’alternativa, una via d’uscita. I pazzi sono sempre esistiti, ma, in un contesto comunitario ordinato, anche la follia può avere la sua collocazione inoffensiva. Nella morte delle speranze, nella privatizzazione delle crisi economiche, nella disintegrazione del legame sociale, il matto va in tilt, esplode. Siamo tutti più soli, più incazzati, più disperati, e quando questa desolazione incontra il disturbo e l’ossessione, può succedere di tutto. 
 
Implosione sociale 
E non ci dimentichiamo dell’immigrazione, elemento totalmente assente all’epoca e oggi potente acceleratore di implosione sociale, in grado di catalizzare su di sé le allucinate speranze messianiche degli uni quanto la rabbia e la frustrazione degli altri. 
La comunicazione nell’era di internet, poi, cambia completamente le regole del gioco: tutto viene amplificato a dismisura, ma anche presto dimenticato. Episodi che in passato avrebbero meritato un trafiletto nella cronaca locale divengono virali, se solo si ha la fortuna di riuscire a catturare l’attimo con una telecamera. Ma, per l’appunto, tutto si consuma velocemente, quindi anche la “distrazione di massa” deve funzionare più come metodo costante e sistematico che sulla base di un singolo input gettato in pasto alla gente. 
C’è inoltre stato un crollo verticale del senso del tragico. Negli anni ’70, il rapporto con la violenza, la morte, con il sangue, con il coraggio, con l’avventura era completamente diverso rispetto a oggi. A quel tempo, la guerra, il fascismo, l’antifascismo, erano ricordi non troppo lontani, avevano a che fare con la generazione dei padri. E anche il contesto internazionale era segnato da gradi lotte, guerre, guerriglie, rivoluzioni. Inoltre, vedi punto precedente, l’anestetizzazione mediatica aveva un impatto completamente diverso. 
Un elemento che invece ci avvicina a quegli anni è dato dal gioco sporco di stampa e politica. Il gioco pericolosissimo a cui stanno giocando il gruppo L’Espresso, Liberi e Uguali, gran parte del Pd etc ricorda davvero le peggiori campagne degli anni ’70. La volontà di creare caos e violenza per imporre scelte governative “stabilizzanti” (in questo caso le larghe intese) appare quella di un tempo. E la reazione dell’estrema sinistra, che a tale manovra si presta allegramente come manovalanza sporca, pure. Il che potrebbe far sì che certi meccanismi si ripetano, ma in forma diversa, con dei casus belli più spettacolari ma anche più effimeri.  
Ad ogni modo, affinché certi meccanismi infernali non si rimettano in moto, serve che sempre più persone si sottraggano al tranello e lo denuncino pubblicamente, ma non in modo moralistico (“oddio, torna la violenza, chi penserà ai bambini?”), quanto piuttosto offrendo soluzioni alternative reali, vie d’uscita politiche, il senso di un’impresa comunitaria solare, rivolta al futuro, matura, incorruttibile. 
Licenza Creative Commons  22 Febbraio  2018
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