Questo Sito non ha fini di lucro, né periodicità di revisione. Le immagini, eventualmente tratte dal Web, sono di proprietà dei rispettivi Autori, quando indicato.  Proprietà letteraria riservata. Questo Sito non rappresenta una Testata Giornalistica in quanto viene aggiornato senza nessuna periodicità. Pertanto non può essere considerato, in alcun modo, un Prodotto Editoriale ai sensi e per gli effetti della Legge n.62 del 7 Marzo 2001.
 
 
Scarica il PDF della situazione
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Interni
Esteri
Cultura
Il parolaio
 
Washington prepara la guerra
 
Washington prepara la guerra 
di Ninni Raimondi
 
In un altro frangente forse cruciale per le sorti della guerra in Siria, gli Stati Uniti e l’Occidente hanno di nuovo rispolverato le accuse contro il regime di Assad di avere colpito la popolazione civile del suo paese con ordigni chimici. Come negli ormai numerosi casi precedenti, anche in quello presumibilmente accaduto sabato nella località di Douma, a pochi chilometri da Damasco, le responsabilità non sono nemmeno vicine a essere accertate, ma una campagna di disinformazione ben rodata è subito partita con l’intento di rilanciare le moribonde ambizioni occidentali nel paese mediorientale. 
L’episodio, segnalato esclusivamente da gruppi sostenuti dall’Occidente e spesso vicini alle formazioni “ribelli” jihadiste attive in Siria, ha fatto salire immediatamente il rischio di un allargamento del conflitto. Il pericolo è apparso chiaro nelle prime ore di lunedì, quando è circolata la notizia di un bombardamento contro una base militare siriana nella provincia di Homs. 
I dettagli dell’incursione sono stati contraddittori. Damasco aveva inizialmente puntato il dito contro gli Stati Uniti, ma il dipartimento di Stato aveva subito smentito di avere intrapreso, almeno per il momento, iniziative militari contro le forze governative siriane. Poco più tardi, Siria e Russia hanno invece accusato Israele di avere colpito la base aerea, conosciuta come T-4 e già bersaglio di un’operazione di Tel Aviv lo scorso febbraio. Sui social media sono circolate immagini che documenterebbero l’attacco con missili che hanno attraversato lo spazio aereo libanese. I danni derivanti dal blitz non sono chiari, con alcuni organi di stampa che hanno parlato di una quindicina di vittime, in gran parte iraniani o facenti parte di milizie affiliate alla Repubblica Islamica, e altri che hanno al contrario escluso conseguenze serie. 
 
L’operazione, come di consueto né smentita né confermata da Israele, sarebbe legata, come le precedenti condotte illegalmente in Siria, ai tentativi di ostacolare i trasferimenti di armi dall’Iran a Hezbollah in Libano. Tuttavia, visto il putiferio scatenato dal presunto attacco con armi chimiche a Douma e l’escalation di minacce contro Assad, è difficile non collegare quest’ultimo episodio all’azione attribuita a Israele, con ogni probabilità coordinata con Washington. Tanto più che in ballo potrebbe esserci uno scambio di favori, dopo che proprio la settimana scorsa gli USA avevano bloccato una risoluzione ONU che intendeva aprire un’inchiesta sul recente nuovo massacro di palestinesi da parte israeliana nella striscia di Gaza. 
Le reali circostanze di quanto accaduto a Douma sono in ogni caso lontanissime dalle priorità dei governi e dei media ufficiali occidentali. Con la precisione di un meccanismo ben oliato, alla notizia del nuovo attacco con armi chimiche sono circolate immagini strazianti, rigorosamente di bambini intossicati, e una valanga di editoriali che chiedono agli Stati Uniti di fare qualcosa per fermare la barbarie, perpetrata senza alcun dubbio dal regime di Assad con l’assistenza russa. 
 
Il continuo ripetere di una versione palesemente falsa di determinati eventi non la rende però più credibile, nonostante tutti i media “mainstream” continuino a occultare in maniera deliberata i dettagli emersi dopo gli attacchi segnalati nel recente passato e che, a dir poco, sollevavano una marea di dubbi sulle ricostruzioni ufficiali. 
In primo luogo, è del tutto impossibile verificare sia i fatti di Douma sia la veridicità delle immagini circolate dalla serata di sabato. Quest’area è controllata da fazioni “ribelli” integraliste che non consentono l’accesso a osservatori o giornalisti indipendenti. Come già ricordato, le notizie diffuse finora vengono unicamente da gruppi schierati contro il regime di Damasco e che hanno tutto l’interesse a provocare un intervento occidentale contro le forze governative siriane. 
Probabilmente più ancora che nei casi precedenti, la totale assenza di motivazioni logiche, che sarebbero alla base di un comportamento francamente suicida di Assad, è chiara ed evidente in questa circostanza. Prima di procedere con l’attacco con armi chimiche contro i civili di Douma, Damasco avrebbe dovuto considerare una lunga serie di conseguenze che esso avrebbe provocato, nessuna delle quali, per usare un eufemismo, sarebbe potuta risultare anche solo in un più che trascurabile vantaggio strategico nel conflitto in corso. 
In primo luogo, al di là della solita confusione che contraddistingue la politica estera dell’amministrazione Trump, il presidente americano aveva appena ipotizzato un possibile prossimo ritiro del contingente USA stanziato illegalmente in Siria. Le dichiarazioni di Trump in proposito avevano creato scompiglio e costernazione tra i vertici militari e dell’intelligence americani, così che, in maniera del tutto inspiegabile, Assad avrebbe offerto un assist clamoroso ai guerrafondai negli USA per smentire la Casa Bianca e prolungare la presenza militare nel suo paese. 
Nelle scorse settimane, poi, i governi di Washington, Parigi e Londra avevano apertamente avvertito che l’uso di armi chimiche da parte del regime avrebbe fatto scattare un’aggressione militare. Ancora una volta, sfugge a ogni logica la ragione per cui Damasco avrebbe deciso di sfidare l’Occidente e mettere in atto un’operazione nient’altro che controproducente. 
Queste considerazioni vanno oltretutto inserite in un quadro militare che, per quanto riguarda l’area interessata dai fatti di sabato, è da qualche settimana estremamente favorevole ad Assad. L’esercito governativo ha infatti riconquistato il controllo di circa il 90% dell’enclave di Ghouta orientale, di cui Douma fa parte, e il ricorso a un attacco con armi chimiche contro i civili, oltre a non avere senso dal punto di vista tattico, non avrebbe che impedito il completamento delle operazioni, visto il minacciato intervento occidentale. 
La Russia aveva anche raggiunto un’intesa con gli ultimi jihadisti rimasti a Ghouta, convincendoli ad abbandonare pacificamente l’area. Secondo alcune ricostruzioni, però, questi “ribelli” avrebbero rotto le trattative venerdì scorso, forse a causa di dissidi interni, e ripreso i bombardamenti su Damasco. In seguito a dinamiche non del tutto chiare, perciò, appare decisamente più ragionevole pensare a una provocazione degli stessi “ribelli” per far ricadere la colpa su Assad e sperare in un intervento americano, francese o britannico come unica loro via di salvezza. 
 
Nell’analizzare il contesto dell’ennesima messa in scena occidentale in Siria va poi ricordato come le ultime accuse contro Damasco e Mosca, arrivano proprio mentre sta crollando miseramente il castello di carte costruito dal governo britannico attorno al caso Skripal. La vicenda dell’avvelenamento dell’ex ufficiale dei servizi segreti militari russi e della figlia è smontata dalla miriade di contraddizioni della stessa versione ufficiale di Londra e, anche per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica, è stato necessario creare un nuovo motivo per tenere alta la pressione sulla Russia. 
Da ricordare c’è anche il fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a essere esclusi da ciò che resta del processo diplomatico in Siria, affidato ormai solo ai negoziati condotti tra i presidenti di Russia, Iran e Turchia. Putin, Rouhani e Erdogan si erano incontrati proprio la settimana scorsa ad Ankara e, pur senza raggiungere risultati significativi, l’evento aveva ancora una volta portato al centro del dibattito internazionale la marginalità degli USA riguardo una possibile soluzione pacifica del conflitto siriano. 
Il risultato del polverone mediatico suscitato dai presunti fatti di sabato scorso a Douma è così quello di avere spinto la Casa Bianca su posizioni più radicali in merito alla Siria e, quasi certamente, di avere messo in secondo piano l’ipotesi del disimpegno USA, che aveva dominato il dibattito sui giornali americani negli ultimi giorni. 
Domenica, in uno dei suoi soliti “tweet”, Trump ha denunciato in maniera molto dura un attacco con armi chimiche di cui non solo è impossibile determinarne la responsabilità, ma non è nemmeno certo che esso sia effettivamente accaduto. Nel delirio di un presidente sempre più allo sbando, la stessa dichiarazione pubblicata su Twitter mescola accuse dirette e minacce contro Putin e Assad a passaggi in cui si ammette l’impossibilità di avere informazioni certe sui fatti. 
Trump riconosce cioè che l’area dove sarebbe avvenuto l’attacco è “inaccessibile al mondo esterno” e, quindi, non c’è modo di accertare quello che è accaduto. Poco dopo, il presidente americano chiede anche una “verifica” degli eventi di Douma, concedendo in maniera implicita che le responsabilità non sono state ancora appurate, mentre sostiene egli stesso che il presunto nuovo “disastro umanitario” registrato in Siria “non ha alcuna motivazione” razionale. 
 
A rigor di logica, fermo restando l’assenza di informazioni concrete, i precedenti e i possibili vantaggi derivanti dal presunto attacco con armi chimiche spingono piuttosto a considerare i fatti di Douma, se effettivamente accaduti, come un’operazione orchestrata dai “ribelli”, possibilmente con l’assistenza dell’intelligence occidentale o dei regimi mediorientali ostili ad Assad. A supporto di questa tesi ci sarebbero anche gli svariati avvertimenti delle scorse settimane del governo russo, il quale aveva rivelato di avere trovato in più occasioni laboratori dove venivano fabbricate armi chimiche nelle aree di Ghouta orientale strappate ai “ribelli”. 
Il monito di Mosca risulta credibile anche alla luce del precedente del 2013, quando, sempre in quest’ultima località, un altro attacco con armi chimiche attribuito a Damasco aveva portato a un passo dall’aggressione militare americana contro il regime siriano. In quell’occasione, Obama aveva fatto marcia indietro all’ultimo momento e, in seguito, indagini giornalistiche autorevoli avevano dimostrato, tra l’indifferenza dei media ufficiali, che l’attacco era stato preparato e messo in atto da forze dell’opposizione con l’aiuto dei servizi segreti turchi. Anche nell’aprile del 2017, quando Trump autorizzò il primo attacco diretto contro una base militare siriana, un nuovo episodio simile era stato poi spiegato con il bombardamento da parte delle forze siriane di un laboratorio dei “ribelli” dove veniva processato il gas sarin. 
Il ricorso a provocazioni plateali e senza senso non fa ad ogni modo che confermare il livello di disperazione dei “ribelli” siriani e dei governi in Occidenti e in Medio Oriente che li sostengono, tutti messi di fronte al fallimento colossale dei loro piani per il cambio di regime a Damasco. 
La scommessa di Washington è che, con la collaborazione cruciale dei media ufficiali, possano essere superate le resistenze dell’opinione pubblica internazionale contro una nuova guerra criminale e, ancor più, che la Russia decida alla fine di astenersi da una ritorsione che potrebbe innescare un conflitto diretto tra le due principali potenze nucleari del pianeta. 
 
Quel che è certo è che a Washington i preparativi per un attacco contro il regime di Assad sono ben avanzati e lo stesso Trump ha assicurato lunedì che un annuncio sulle prossime mosse potrebbe arrivare già nelle prossime ore. A determinare le decisioni americane sarà dunque in primo luogo la possibile reazione di Mosca, da dove si è già messo in guardia da azioni militari contro l’alleato siriano, ma anche le dinamiche interne a un’amministrazione Trump sempre più lacerata e nel pieno di un processo di ricambio che sta coinvolgendo i vertici della politica estera e della sicurezza nazionale. 
Licenza Creative Commons  12 Aprile  2018
2013
2014
2015
2016
2017
2018