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Se la storia (militare) non è un’opinione. Nemmeno il 25 aprile 
di Ninni Raimondi
 
Strategia 
Stra·te·gì·a/ 
Sostantivo femminile: Branca dell’arte militare che regola e coordina le varie operazioni belliche in vista dello scopo finale della guerra: s. terrestre, navale, aeronautica; alta s.; in senso più ampio, l’arte o la scienza che ha per scopo l’utilizzazione del potenziale bellico di un paese nel modo più efficace e produttivo. 
 
Quando ogni 25 aprile si commemora con sempre meno partecipazione di popolo e sempre più di immusonite mummie incartapecorite istituzionali, di associazioni politiche di estrema sinistra lautamente sovvenzionate dallo Stato come l’Anpi, dei sindacati, di nuovi italiani inconsapevoli reclutati per un pugno di euro e di sbandati di centri sociali si finisce a discutere di Fascismo, antifascismo, liberazione etc, da una parte e dall’altra, ma non ci si pone la domanda corretta: chi ha davvero vinto la campagna d’Italia? Gli angloamericani con il codazzo di alleati di varia provenienza o i tedeschi? 
 
Nell’aprile del 1945 gli anglo- americani disponevano in Italia di 1.333.856 uomini contro 332.524 tedeschi e 160.180 militari della R.S.I.; di 4.000 aerei contro 79; gli alleati, contro un nemico enormemente inferiore in mezzi ed uomini avevano subito costantemente l’iniziativa germanica, risalendo la penisola lentamente, venendo tenuti lontani dal territorio del Reich; e mentre i sovietici erano già a Berlino, ai primi di aprile, i tedeschi erano ancora padroni di tutta l’Italia settentrionale, col fronte che partiva dal ferrarese giungendo sino alla Lunigiana; e malgrado l’offensiva alleata, se non fosse crollata lo stesso Reich e caduta Berlino era prevista la resistenza sulla linea del Po e poi sulle Alpi. Alla fine, gli alleati ebbero 313.495 caduti[1], perdendo 8.011 aerei nel corso della campagna. 
Bisogna avere il coraggio di dire che strategicamente a vincere la campagna d’Italia fu la Germania; e questo è dovuto, oltre al valore dei combattenti germanici, quasi tutte truppe d’elite, appoggiati a volte da ausiliari dell’Est e da reparti della Repubblica Sociale Italiana, alle capacità di un uomo, il Feldmaresciallo Albert Kesselring. Kesselring dimostrò una tale abilità nel difendere la Penisola che verso di lui oggi i tedeschi possono legittimamente nutrire ammirazione, scrive lo storico militare Shelford Bidwell in I generali di Hitler (trad. it. Rizzoli, Milano 1988), e ancora:  
Gli inglesi  hanno motivo di rispettare il tedesco che, nonostante le circostanze avverse, tenne in scacco gli Alleati in Italia durante una combattuta ritirata di 1.300 chilometri durata venti mesi.  
Cosa riconosciuta da tutti gli storici militari, tranne che dai vari Mattarella e compagnia antifascista cantando. 
 
Il 10 luglio del 1943 iniziò la campagna d’Italia, che si rivelò il vero capolavoro militare di Kesselring: per quasi due anni, arretrando le proprie truppe su linee difensive predisposte (linea Gustav, linea Gotica) e conducendo un’audace guerra difensiva, inflisse durissime perdite agli alletai. Anche nell’abbandono della Sicilia riuscì a mettere in salvo la massima parte dei propri uomini e degli equipaggiamenti e l’otto settembre 1943 riuscì quasi, malgrado la situazione venutasi a creare con il tradimento italiano, a ricacciare a mare le truppe di Alexander, riuscendo nel frattempo a neutralizzare le FFAA italiane ed a occupare tutto il territorio del Regno.  
Sul fronte di Cassino e sulla linea Gustav gli angloamericani furono bloccati per tutto l’inverno con perdite sanguinose e solo a maggio del 1944 riuscirono a passare, così come accadde alle truppe alleate sbarcate ad Anzio. 
Kesselring a ragione nella sua autobiografia Soldat zu lezten Tag scrive che la situazione politica e militare era, a quel tempo, una circostanza di fatto alla quale bisognava in qualche modo rassegnarsi. Ogni eccessivo allargamento della guerra presenta svantaggi incontestabili, soprattutto per le nuove esigenze imposte al potenziale bellico e per le conseguenti difficoltà inerenti i rifornimenti e i comandi militari. I paesi in guerra hanno sempre mirato a portare le ostilità in territorio nemico per risparmiare il proprio e questo era un pensiero fisso di tutti i generali tedeschi. 
Lo sgombero di tutta l’Italia e la difesa del Reich su posizioni alpine non avrebbe portato ad un potenziale risparmio di forze ma, all’opposto, avrebbe condotto ad una situazione decisamente pericolosa per la conseguente libertà completa di movimento degli Alleati in direzione della Francia e dei Balcani, dando loro la possibilità di allestire numerose basi aeree per colpire la Germania e l’Austria con efficaci bombardamenti sulle vie vitali di rifornimento. Qualora si fossero volute effettuare con qualche probabilità di successo le operazione di ritirata, si sarebbero dovuti compiere preparativi di lunga mano, cioè fin dal 1942/43, il che non era proprio né pensabile né possibile, non foss’altro che per motivi politici. Con questo punto di vista appare evidente che che la lotta per l’Italia era non solo opportuna, ma assolutamente necessaria.  
Se si fosse avuto per obiettivo la fine anticipata della guerra, rinunciando a valersi delle possibilità di successo che ancora esistevano, si sarebbe allora dovuto ritenere inutile la guerra nel Mediterraneo. 
 
Kesselring aggiunge che, dal suo punto di vista, al risultato negativo della campagna d’Italia e di fronte alle forti perdite la situazione bellica generale ne è risultata avvantaggiata. Si possono infatti contrapporre anche elementi positivi. L’esistenza di un teatro di operazioni in Italia ha vincolato forze alleate che, se impiegate su altri fronti, avrebbero influito in modo severamente sfavorevole per la Germania sia sul lato Occidentale, sia su quello Orientale. Grazie a questa visione bellica la Germania meridionale venne risparmiata fino quasi alla fine di aprile del 1945 e questa fu una circostanza determinante per la produzione di materiali vari e per la resistenza generica del paese, anche quando i destini della Germania erano già stati decisi dagli avvenimenti su altri fronti. 
Il fatto che si sia potuto mantenere il fronte italiano nelle condizioni esposte, nonostante l’assoluto dominio del cielo da parte alleata, deve essere considerato dagli storici come il “massimo risultato conseguibile”, perché un’operazione di occupazione con tale disparità di forze sarebbe stata impensabile come iniziativa militare sulle carte di qualsiasi generale. Probabilmente, il successo di insieme sarebbe stato più evidente se i combattimenti del mese di aprile 1945 si fossero potuti svolgere col libero gioco delle forze, senza impedimenti da parte del Comando supremo germanico. 
 
La superiorità tedesca era anche nelle capacità dei subordinati: la concezione tattica seguita dall’esercito tedesco era la Tattica dell’incarico o compito (Auftragstaktik) in antitesi alla  Tattíca dell’ordine (Befehlstaktik) in uso presso altri eserciti. La differenza di concezione e di esecuzione fra queste due tattiche è fondamentale: la prima esalta l’intelligenza e le capacità del soldato, la seconda tende a mortificarlo, rendendolo un passivo esecutore di ordini altrui. Con la Auftragstaktik si ordinava una missione e si lasciava all’esecutore libertà di esecuzione del compito affidatogli, per cui egli si sentiva responsabile delle azioni che gli dettavano la propria intelligenza, la propria intraprendenza e le proprie capacità.  
Un comandante nel dirigere un combattimento, oltre che dimostrarsi coraggioso, era anche in grado di riconoscere per tempo una situazione favorevole e sfruttarla: cosa che in guerra non sempre viene fatta. 
 
Scrive Frido von Senger und Etterlin, il difensore di Cassino: 
"I compiti operativi costringevano i comandanti a decisioni più o meno autonome. Nelle esercitazioni gli ufficiali imparavano ad agire di loro iniziativa e ad ambire le responsabilità. Questo metodo si limitava a dare soltanto le direttive più indispensabili per l’esecuzione di un determinato incarico, per cui il comandante incaricato poteva, entro certi limiti, scegliere liberamente i mezzi e le tattiche che più gli convenivano". 
 
Nella campagna d’Italia, l’esempio più alto di Auftragstaktik è rappresentato dalle disposizioni emanate dal Feldmaresciallo Kesselring il 7 giugno 1944 per la ritirata a nord di Roma. Delle due Armate tedesche, la 14.a era stata duramente provata dalla lotta, mentre la 10.a, che aveva combattuto sul fronte di Cassino, si trovava sbilanciata troppo in avanti, sia nell’Appennino Centrale sia sulla costa adriatica. Per riorganizzare la 14.e Armee e far arretrare in salvo la 10.e, Kesselring diede questa Auftragstaktik, estesa sino al livello di Divisione: 
Ritirarsi combattendo, immettere sulla linea di combattimento dal retro e dai fianchi le riserve già in marcia verso sud, chiudere gli spazi aperti fra le varie unità, stringere saldamente i fianchi interni delle unità stesse. Questa fase, però, non dovrà continuare fino alla Linea degli Appennini (Gotica) ma, dopo il riordinamento delle Grandi Unità in crisi, bisogna fermarsi e attestarsi sulle posizioni difensive, più a sud possibile sulla Linea Albert (Lago Trasimeno). 
Uno degli esempi, per contro, della differenza tra la tattica tedesca e la Befehlstaktik è dato dal fallito sbarco alleato ad Anzio nel gennaio 1944. Il gen. Lucas (Comandante del corpo di spedizione), sbarcando, si attenne agli ordini ricevuti di difendersi per evitare un’altra Salerno, piuttosto che puntare su Roma. Se egli fosse stato un generale tedesco, attenendosi alla Auftragstaktik e sfruttando gli enormi vantaggi tattici e strategici fornitigli dalla sorpresa, dalla mancanza di difese sulla via di Roma e dalla assoluta superiorità di uomini e di mezzi, avrebbe conquistato la città eterna e colpito alle spalle l’intero schieramento difensivo tedesco di Cassino. 
Dal novembre ’43 al giugno ’44 combatterono in Italia sei divisioni mobili (la 3a Panzer Grenadieren o Granatieri Corazzati, la 29a Pz. Gren, la 15a Pz. Gren., la 90a Pz. Gren., la 26a corazzata e la divisione Hermann Goering). Poi rimasero soltanto tre divisioni mobili, la 26a, la 90a e la 29a a cui si aggiunse per il periodo dal giugno all’ottobre ’44 la 16a divisione Reichsführer SS di panzergrenadieren. Tutte le altre divisioni tedesche in Italia erano divisioni di fanteria o paracadutisti il cui sistema di difesa mobile era affidato alla capacità dei rispettivi comandanti. Si veda l’esempio della 362a divisione di fanteria, un’unità povera con l’organico di 6 battaglioni di 250 uomini ciascuno a cui era stato affidato il compito di logorare le divisioni americane davanti a Bologna.  
Il generale Greiner adottò il sistema della Zentimeter Krieg (guerra del centimetro) all’insegna del perdere il terreno ma non perdere le truppe, arroccandosi su successive linee di difesa, 14 in tutto. Il successo difensivo della divisione venne facilitato dalla tattica degli americani che non fecero quasi mai attacchi notturni, dando così ai tedeschi la possibilità di riorganizzarsi durante la notte. Alla fine le perdite della divisione dal 19 settembre al 20 ottobre ’44 furono alte, 420 caduti di cui 12 ufficiali, 1.614 i feriti, 603 i malati, 1.362 i dispersi, ma lo scopo era stato raggiunto.  
Gli Alleati usavano invece mandare avanti principalmente la “carne da cannone” -neozelandesi, brasiliani, polacchi, canadesi, gurka, francesi coloniali- salvo farsi grandi dei successi ottenuti, si pensi allo sfondamento dei goumiers marocchini sulla Linea Gustav; ma i badogliani del dopo 8 settembre erano disprezzati e considerati inaffidabili per il tradimento verso i tedeschi e verso gli italiani stessi. Quando il 21 aprile 1945 i Granatieri del Gruppo di Combattimento Friuli entrarono per primi a Bologna vennero fermati, perché la gloria dell’occupazione della città emiliana andasse ai polacchi di Anders. Ed è solo un esempio. 
Oltretutto le azioni partigiane ebbero scarsissimi risultati dal punto di vista militare, ma  attirarono sulla popolazione civile il peso delle (non sempre, ma spesso) giustificatissime rappresaglie germaniche. Kesselring  ha  scritto che se fosse stato solo per i partigiani i tedeschi oggi sarebbero ancora in Italia: è vero. Bisognerebbe ricordarselo il 25 aprile. 
Il mancato sfruttamento del successo fu una costante della tattica alleata: si pensi all’incredibile lentezza dell’avanzata nemica, il rovinoso sbarco di Anzio/Nettuno, il monotono dissanguarsi a Cassino, il mancato accerchiamento di Valmontone, il mancato sfruttamento della vittoria nell’inseguimento nell’Italia centrale, il mancato sfondamento del fronte appenninico in Toscana. Se avessi i loro mezzi conquisterei l’Italia in una settimana – diceva Kesselring, educato alla Auftragstaktik. 
Sulla figura di Kesserling grava ancora in Italia l’ombra proiettata della retoricissima poesiola che su di lui scrisse l’azionista Piero Calamandrei per denunciarne le responsabilità, vere o presunte, nella repressione del movimento partigiano. In effetti Albert Kesselring, oltre a contrastare gli Alleati che dopo l’invasione della Sicilia si illudevano di risalire velocemente lo Stivale, dovette affrontare bande partigiane di varia estrazione che miravano a intralciare il ripiegamento delle truppe tedesche.  
Per questo secondo aspetto della sua attività venne processato per crimini di guerra nel febbraio 1947 a Venezia da una corte marziale britannica: l’accusa era d’aver ordinato le rappresaglie come rappresaglia alle azioni di guerriglia e terrorismo causando la morte di 1.060 (millesessanta!) civili italiani. La difesa sostenne che in realtà si era limitato a trasmettere agli ufficiali subalterni gli ordini che giungevano direttamente da Berlino, come nel caso delle Fosse Ardeatine, riuscendo a moderarne l’entità – Hitler avrebbe voluto cento italiani per ogni altoatesino vittima dei terroristi, cifra che Kesselring, peraltro contrario alla rappresaglia, riuscì a ridurre a dieci- rilevando che l’esecuzione degli ostaggi era contemplata dal diritto internazionale di guerra. 
 
Questa linea difensiva non riuscì tuttavia a impedire che il 6 maggio 1947 Kesserling fosse condannato a morte. Ciò destò tanto turbamento in Inghilterra – scrive Shelford Bidwell – da indurre Churchill a fare appello ad Attlee (allora primo ministro laburista) perché intervenisse. Poche settimane dopo, il 4 luglio 1947, infatti la pena capitale fu commutata nell’ergastolo. Nel 1948 fu ridotta a 21 anni di detenzione. La vicenda giudiziaria si sarebbe chiusa nel 1952 con la liberazione per motivi di salute. In seguito il Feldmaresciallo, che non aveva rinnegato il proprio passato, fu presidente dell’associazione di ex-combattenti  Stahlhelm fino alla morte, avvenuta nel 1960. 
Nel quadro della campagna d’Italia, condotta vittoriosamente da Kesselring la “guerra partigiana” è solo un dettaglio, descritto in un breve capitolo delle sue memorie, dove il Feldmaresciallo rileva che il fenomeno aveva acquisito una qualche rilevanza solo a partire dalla primavera-estate 1944 e che le maggiori insidie giungevano dal Nord-est della Penisola e dall’lstria per le azioni congiunte di gruppi locali e di bande titine, ormai, almeno dal 1944, un vero e proprio esercito regolare.  Nonostante l’apertura negli ultimi anni di un Historikerstreit sugli eventi di quel periodo, la figura di Kesselring rimane ancora vittima di una Damnatio Memoriae fatta di lamentazioni e rancore, ispirata dai retori resistenziali come il Calamandrei con la sua  poesiola in cui ciancia bombasticamente de 
 
la primavera di queste valli 
che ti videro fuggire 
davanti non agli Alleati,  
ma ... ai partigiani! 
 
La storia del 25 aprile è una storia falsa, menzognera, in una parola: partigiana.  
Meglio una gita al mare o un bel libro. 
 
 
[1] Americani: 119.279 caduti;  
Brasiliani: 2.211;  
Britannici: 89.436;  
Truppe coloniali britanniche: 448;  
Canadesi: 25.889;  
Francesi: 27.625;  
Greci: 452;  
Indiani, 19.373;  
Italiani cobelligeranti: 4.729;  
Neozelandesi; 8.668;  
Polacchi: 11.217;  
Sudafricani: 4.168. 
 
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