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Viva le case chiuse, abbasso la
 
Quando il barone diceva: Viva le case chiuse, abbasso la Dc 
di Ninni Raimondi
 
Quest’anno ricorrono il 60° anniversario della cosiddetta “legge Merlin” (l.20 febbraio 1958, n.75) ed il 70° della prima versione del disegno di legge (agosto 1948) che la senatrice socialista Lina Merlin propose al Parlamento italiano, ottenendo appunto solo dieci anni dopo la chiusura delle case di tolleranza e l’introduzione dei reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione.  
Sia il primo disegno di legge che la definitiva approvazione di quella che tuttora viene chiamata “la Merlin”, suscitarono un acceso dibattito nel Parlamento e nel Paese e come è noto, ancora oggi si discute, sia nel mondo politico che nella società civile, se quella legge vada abolita o rettificata. 
Tra i principali nemici della Merlin è divenuto topico citare Indro Montanelli che, contro la proposta di legge, pubblicò nel 1956 un pamphlet di successo, Addio, Wanda! Ma non altrettanto conosciute e citate, se non entro un ristretto ambito politico-culturale, sono le posizioni che in merito assunse il filosofo Julius Evola, intervenendo criticamente anche rispetto alle idee espresse da Montanelli.  
Evola dedicò alla questione ben tre articoli, oggi tutti facilmente leggibili nell’antologia I testi del Meridiano d’Italia (Edizioni di Ar, Padova 2002) e le cui date già mostrano come fossero coevi ai tempi cardine della legge: Il fenomeno “Merlin” (18.12.1949, pp.52-54), Montanelli è per Wanda (14.10.1956, pp.208-210), Case chiuse e “vocazione” (29.07.1958, pp.237-239 – questo testo apparve in forma di lettera al direttore). Ricorrendone quest’anno, anche, i 120 anni dalla nascita del pensatore tradizionalista (19 maggio 1898), non sarà privo di interesse ripercorrerne la visione allora proposta sul tema in questione e valutarne l’attualità. 
 
Già nel dicembre del ’49, quando le discussioni vertono sul disegno di legge, Evola attacca quest’ultimo come “una espressione tipica per quel miscuglio di ipocrisia, di irresponsabilità, di falso zelo, di rettorica e di moralismo che caratterizza, in genere, il clima democristiano” (p.53). Che il filosofo parlasse di “clima democristiano”, pur essendo l’iniziativa sull’abolizione delle case di tolleranza opera di una socialista, non sembri incongruo, poiché la DC votò a favore della legge e uno dei suoi fautori fu Mario Scelba, già bersaglio del nostro autore per via della legge antifascista del 1952.  
Nel suo primo articolo Evola comunque ci tiene quasi solamente a spiegare perché il disegno di legge sia espressione di una “mentalità borghese” e di una “ipocrisia moralistica” (p.54). Il problema delle “case chiuse”, avverte, “non può esser considerato se non in stretta relazione con quello della prostituzione e in genere, dei rapporti fra i sessi nella vita moderna” (p. 52).  
Evola guarda con realismo al fenomeno del sesso mercenario e alla sua presenza millenaria nelle civiltà dell’Occidente e dell’Oriente, affermando che le prostitute svolgono da sempre un’indiscutibile funzione sociale e difendendole altresì dalla marchiatura negativa, già sul piano psichico, impressa su di loro da certa pseudoscienza positivista: “[…] le donne, che la letteratura ottocentesca chiamava ‘perdute’, per un certo verso esercitano un’utile azione diversiva, dati tutti coloro che, non essendo in grado di sopprimere o trasformare un impulso elementare, chiuse le vie della esplicitazione più spicciativa di esso, non possono non cercarne di altre. Vi è un lato per cui quelle ragazze, che si vorrebbero additare al disprezzo generale e di cui l’antropologia lombrosiana di beata memoria avrebbe voluto fare addirittura la controparte del delinquente, assolvono ad una funzione sociale protettiva di utilità indiscutibile, con un sacrificio che, per essere inconscio e involontario, non è per questo meno reale” (p. 52). Ed Evola, sempre coerente con la linea provocatoria e antiborghese seguita fin dalla gioventù dadaista, si interroga anche sul concetto di “dignità della donna” evocato in Parlamento dalla Merlin, parlando di “cosiddetta” prostituzione per quella praticata nei bordelli, perché “nel clima di falsità della società borghese non è tanto facile tracciare un limite netto fra ciò che, in una donna, è prostituzione, e ciò che non lo è”. Ma che vuol dire, qui, il filosofo? Lo spiega con “un esempio tangibile”: “non si saprebbe dire se sia più ‘prostituta’ la ragazza condiscendente per le vie spicciole di un compenso in danaro di cui abbisogna per le necessità elementari della sua esistenza, ovvero la donna che custodisce ben stretta la sua ‘virtù’ e la sua reputazione onde venderle a buon prezzo in un matrimonio vantaggioso che ‘la metta a posto’ e le dia modo di soddisfare la sua vanità e le sue ambizioni mondane” (p. 53). Evola non manca infine di osservare, ricordando analoghe osservazioni fatte a suo tempo da Italo Tavolato sulla rivista papiniana Lacerba, che in Paesi come l’Italia l’ampio ricorso maschile al sesso mercenario è legato al fatto che “in una certa civiltà borghese, la donna che tiene ad essere considerata come ‘perbene’ sottopone l’uomo [ad una] via crucis fatta di menzogne, di lusinghe e di sciocche complicazioni, prima di addivenire a certe – diciamo così – concessioni territoriali” (p. 53). Di contro, ci tiene a precisare il filosofo, vi sono Paesi, come quelli dell’Europa centrale e del Nord, in cui “le ‘case chiuse’ quasi non esistono e la prostituzione professionale è minima”, e ciò perché “nei rapporti fra i sessi si è in una linea di libertà, di sincerità e di spregiudicatezza altrove non esistente” (p. 54). 
 
Quest’ultimo tema giocherà un ruolo importante, sette anni dopo, nella presa di distanza che Evola espliciterà rispetto alla tesi centrale del pamphlet di Montanelli in difesa delle “case chiuse”. Addio, Wanda!  era un testo brillante ed ironico, in cui Montanelli immaginava che il dottor Alfred Kinsey, il sessuologo americano reso famoso in tutto il mondo dai suoi due “rapporti” sul comportamento sessuale degli uomini (1948) e delle donne (1953), stendesse infine un “rapporto sulla situazione italiana” dopo la chiusura delle case di tolleranza, traendone le conclusioni di una intera popolazione maschile ridotta alla depressione psichica, con conseguente turbamento in senso atrofico dell’ordine sociale e perfino del disordine, sì che i milanesi non lavorerebbero più mentre al contempo gli stessi ladri non avrebbero più l’energia per rubare. Il giornalista conservatore presentava (e continuerà a farlo ancora negli ultimi anni di vita) in una luce positiva il mondo delle “case”, di cui l’amica tenutaria Wanda era assunta a simbolo, e avvertiva politici e società che la difesa della religione, della famiglia e della patria passavano per quella delle case di tolleranza, in quanto “Al di là del Peccato, almeno in Italia, non c’è la Virtù. C’è il Vizio. Ci sono le ragazze che muoiono sulle spiagge, vergini sì, ma da una parte sola”. Il riferimento era al mai chiarito caso di Wilma Montesi (1953), caso di cronaca nera che ebbe pure forti risvolti politici, coinvolgendo il figlio del ministro democristiano Piccioni. La ragazza ventunenne era stata ritrovata morta sulla spiaggia di Torvaianica e durante le indagini un’attricetta dichiarò a un giornale di aver, prima della morte di Wilma, partecipato con lei ad un’orgia, con contorno di droga, insieme a dei personaggi altolocati. Montanelli, dunque, prendeva spunto da quel caso per concludere che l’abolizione delle “case chiuse” avrebbe portato ad una larga “montesizzazione” (l’espressione è mia) delle ragazze italiane. Evola riassume così: “L’alternativa sarebbe fra l’Italia di Wanda e l’Italia della Montesi” (p. 208). Ma il nostro filosofo, una volta omaggiata la verve paradossale ed ironica che attraversa tutto il libello montanelliano, si rifiutava di sposarne le tesi. Intanto, Evola, pur dichiarandosi, come già si è visto, anche lui contro la legge Merlin, non condivide la visione idilliaca delle “case” offerta da Montanelli come poi da tutti i suoi epigoni. Scrive infatti: “Specie a considerare come esse oggi in Italia si presentano, ad un livello bassissimo e del tutto insufficiente ai bisogni, solo per scherzo si possono mettere in relazione queste case con una tradizione nostrana di sana e libera sessualità. E il Montanelli non pretenderà che con la soddisfazione più che primitiva degli istinti che si può avere in esse qualcuno possa risolvere seriamente e durevolmente i propri problemi sessuali. Come si sa, la Chiesa Cattolica ha tollerato simili istituzioni a semplice titolo di minor male, come ‘valvola di sfogo’, in vista di una società che non è più la attuale. Inoltre un conto è la prostituzione alla quale, come nell’antichità o in altre civiltà, può corrispondere più una vocazione che non una professione nata dal bisogno e che può essere l’oggetto di una vera e propria cultura (si pensi alle antiche etère e a ciò che ancora sussiste in Giappone), un altro conto è il sistema delle case chiuse come esistono da noi, in margine al costume borghese, le quali di quello costituiscono la forma più degradata e deprecabile” (pp. 208-209). 
 
Che l’alternativa al mondo della prostituzione legale sia giocoforza quella della demi-vierge, per Evola “è un’assurdità”, e rimprovera Montanelli di “dire cose sbagliate” (p. 209). Come già nell’articolo del ’49, il filosofo romano sostiene la necessità della presenza, anche nella società italiana, del “tipo di una ragazza spregiudicata, coraggiosa e sincera che fa le sue scelte e che anche dopo aver avuto le sue esperienze può sposarsi e trova da sposarsi” (p. 209). Se un tale tipo di ragazza è presente, un uomo che non abbia particolari problemi non ha nessuna necessità di rivolgersi alle prostitute: “Questa è la terza e più sana possibilità di là da quella antitesi i cui termini sono, l’uno quanto l’altro, insoddisfacenti” (p. 209). Le Wande e le demi-vierges, spiega Evola, “non risolvono nulla, quanto a clima e a stile generale di una società progredita” (p. 210). Sembrerebbe, con ciò, che Evola auspichi una fine della prostituzione. Ma il filosofo sa bene, realisticamente, che questa può solo divenire un fenomeno contenuto e regolato, non abolito. Anche perché è sua convinzione – una convinzione, espressa in modo netto nel terzo dei testi qui presi in esame, che trova, come si sa, molti critici, ma che una conoscenza a tutto campo del mondo della prostituzione ha sempre confermato – che non siano poche le donne che scelgono la via della prostituzione pur non essendone costrette dal bisogno o dal subire una volontà altrui. Per Evola “è assai difficile che una donna resista su quella via e che, perfino dinanzi alla necessità, non ne sappia trovare qualche altra, se non trovasse un aiuto in una certa sua ‘vocazione’”, vocazione che il filosofo riconduce a una forte prevalenza della natura “afroditica” su quella “demetrica”, nature “egualmente presenti in qualsiasi donna, anche se in varia dosatura e in varie forme d’impasto” (p. 238). 
 
Da questa convinzione scaturisce infine la proposta sociale di Evola per una soluzione del problema della prostituzione che sia realistica e nel contempo ispirata ad umanità e giustizia. Il filosofo trova piuttosto strano che la sinistra – “i cari ‘compagni’” scrive lui (pp. 52 e 238) – non abbia in questo caso seguito la via delle “rivendicazioni sociali” e della “tutela della ‘categoria’” (p. 238). Ma è proprio questa la via giusta da imboccare: “l’organizzazione di iniziative di carattere difensivo, assistenziale e previdenziale per tutte le donne che, volendolo o no, si trovano ad assolvere alla funzione anzidetta” (p.238). Dunque, creare “un sindacato con l’inquadramento regolare, i controlli, i contributi, le forme ispettive, le casse vecchiaia e malattia, ecc. contemplate per categorie assai meno colpite e – oserei dire – assai meno sacrificate” (p. 238). All’eventuale obiezione moralistico-religiosa che questo sarebbe un “organizzare il peccato”, Evola risponde che “si tratterebbe di tutt’altro: di eliminare positivamente proprio l’indegno sfruttamento, il regime di insicurezza e di paura, il sistema dei mercanti di bianche, di ‘protettori’ e di sfruttatori, ossia tutto ciò che è stato giustamente deprecato dagli abolizionisti, ma che non verrebbe per nulla superato chiudendo le ‘case’, perché ha evidentemente assai maggior margine nella prostituzione libera, autorizzata o clandestina” (p. 238). Come si può notare, Evola è assolutamente contrario alla gestione criminale della prostituzione e tiene presente anche le donne che, per qualsiasi ragione, subiscono una condizione che non hanno scelto in libertà, tanto da concludere: “L’unica iniziativa seria e efficace è di liberare, di ridimensionare e aiutare solo quelle ragazze nelle quali alla ‘professione’ non corrisponde per davvero nessuna ‘vocazione’. E se l’organizzazione di cui ho detto disponesse di elementi qualificati e dotati di comprensione, anche questo potrebbe essere uno dei suoi compiti” (p. 238-239). Insomma, un messaggio forte di solidarismo femminile. 
 
Riletti oggi, questi articoli, che comunque hanno come sfondo un’Italia non poco diversa dall’attuale, possono essere criticati, dal punto di vista storico-politico, per alcune omissioni. La contrapposizione politica tra abolizionisti e fautori della permanenza del regime delle “case chiuse” nei testi evoliani non appare in tutta la sua complessità e trasversalità. La legge Merlin alla fine fu approvata da una maggioranza composta da comunisti, socialisti, democristiani, repubblicani e da una parte dei socialdemocratici. Ebbe il voto contrario dei liberali (lo stesso Croce si pronunciò contro di essa) e dei radicali così come dei missini e dei monarchici. Ma nello stesso Partito Socialista, cui la Merlin apparteneva e dove in seguito fu emarginata, ci furono forti e autorevoli dissensi, come quello di Gaetano Pieraccini, uno dei padri della nostra medicina sociale, che formulò anche lui la tesi della necessità della “istituzione”. Se invece guardiamo a quei testi in rapporto alla nostra società, dobbiamo chiederci – visto che la condizione femminile e gli stessi rapporti tra i sessi non sono più quelli degli anni ’40-’50 – cosa non ha funzionato, in Italia come altrove, se a quella maggiore libertà sessuale auspicata pure da Evola è corrisposta non una diminuzione ma una vertiginosa crescita della prostituzione, anche nelle forme più deprecabili, semischiavili, peraltro non senza connessione prima col crollo dei regimi dell’Est e poi con le immigrazioni di massa. Rimane però valido, soprattutto per un movimento politico che voglia farsene carico, il messaggio evoliano di realismo unito a solidarismo: accettare la realtà fattuale della prostituzione senza l’ossessione moralistica di porvi fine, disciplinare e dignificare il “mestiere”, rendere le prostitute lavoratrici proprietarie della propria vita, combattere gli sfruttatori, liberare le loro vittime e restituirle ad una esistenza “normale”. 
 
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