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Non un diritto, ma un dovere sociale: Il lavoro nella dottrina fascista 
di Ninni Raimondi
 
Non un diritto, ma un dovere sociale: il lavoro nella dottrina fascista 
di Ninni Raimondi 
 
In un Italia in crisi occupazionale che sembra non avere più fine, fa effetto il significato dato al concetto di lavoro da parte della dottrina fascista, in lotta contro l’utilitarismo e l’individualismo della società liberale. 
Nel Fascismo, il lavoro non è espressione della mera operosità materiale dell’individuo che risulta essere fine a se stessa, esso rappresenta al contrario l’elevazione spirituale dell’uomo, per la realizzazione  di un’opera utile all’intera comunità, con i lavoratori che contribuiscono a rendere grande la Nazione.  
E’ in un ottica metafisica dell’esistenza umana che nasce così “l’uomo sociale”, sinonimo di un uomo devoto all’eticità, ai più alti valori con i quali si erige un Stato. La vita, secondo la dottrina fascista, presenta in sé elementi deontologici che non si possono sintetizzare nell’astrazione figurativa dell’Homo oeconomicus, pertanto tutto ciò che riguarda essa  incluso il lavoro, assume un carattere etico. 
 
Se da una parte, sotto l’aspetto empirico, nel Ventennio il governo si adoperò per tutelare il lavoro con provvedimenti quali ad esempio la stipulazione dei contratti collettivi, forma contrattuale ex novo previsti dalla Carta del Lavoro, dal canto suo, il lavoro diventa un valore sociale, di “partecipazione alla vita comune per l’affermazione di una realtà che deve essere, che dobbiamo costruire, perché viene imposta dalla nostra coscienza.  
La solidarietà con quelli dei quali sentiamo l’identità di origine; il nostro sacrificio in vista della fortuna dei nostri figli e della Patria”, come asserisce Giuseppe Bottai ne L’esperienza corporativa. Parole che, visto quello che accade oggi, assumono ancora più importanza e significato. 
Licenza Creative Commons  19 Agosto 2018
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