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Tra stupri e violenze
 
Tra stupri e violenze, il grido delle donne marocchinate risuona ancora 
di Ninni Raimondi
 
Il passato che non passa viene rievocato con monotona liturgia per impedire politiche che rappresenterebbero una svolta.  
Ogni volta che si cerca di frenare il flusso migratorio incontrollato, il paragone d’obbligo è con Auschwitz, i campi di concentramento nazisti, le leggi razziali del ’38.  
Come se lo Stato di Israele non applicasse politiche ferree di dissuasione dell’immigrazione.  
Però attenti ad evocare liturgicamente il passato.  
Perché c’è un passato sepolto nell’inconscio della nazione che sempre di più emerge, con la forza di un contenuto rimosso ma non cancellato, in questi giorni: il terribile passato degli stupri durante la Seconda guerra mondiale, la ferita delle nostre donne marocchinate. 
Vennero al seguito delle truppe francesi i goumier.  
Anche allora la Francia giocò un ruolo nello scoperchiare la botola.  
Gli americani stessi diedero il via libera alle violenze come carnale premio di guerra, per soldati che avevano come mira soprattutto il soddisfacimento dei bisogni primari.  
L’inferno in terra ciociara – ma non solo – cominciò nel maggio del ’44, quando le truppe marocchine furono avanguardia: attraversando i monti aurunci consentirono al XIII Corpo Britannico di sfondare la linea Gustav.  
Il premio fu degno di una scena di un film dell’orrore anni Settanta.  
 
Cinquanta ore di libertà totale.  
Se è lecito chiamarla «libertà». Le donne violentate talora morirono dopo pochi giorni o si suicidarono.  
Alle sopravvissute capitarono i contagi di sifilide, gonorrea e di altre malattie a trasmissione sessuale.  
Talora furono violentati anche vecchi, bambini, i pochi uomini che cercarono di opporre disperata difesa.  
I marocchini agivano a due per ghermire le loro vittime. 
 
Malinconica constatazione, certe istituzioni all’epoca reagirono contro le marocchinate in maniera più sana rispetto a come si comportano i loro epigoni oggi.  
I parroci, allora, si opposero al dilagare di belve. Per questo, don Alberto che cercò di salvare tre donne, fu legato e sodomizzato per una notte intera. Nel dopoguerra il Partito comunista italiano documentò e denunciò l’accaduto.  
Un importante intellettuale fascista prima, comunista poi come Alberto Moravia sublimò in arte tragica quell’avvenimento ne La ciociara. E Vittorio de Sica trasformò il racconto in un film da oscar. 
I numeri?  
Difficile quantificare: calcoli equilibrati parlano di 60mila stupri.  
Ma non sono i numeri che contano, è l’avvenimento in sé come simbolo, come archetipo: una oscura invasione che colpisce con violenza il grembo delle nostre donne e che ancora attende giustizia.  
Vorrei dire agli apprendisti stregoni che ogni giorno cercano di soffocare il futuro con lugubri evocazioni storiche, fondate o sforzate, che in questa Italia in cui ogni giorno tre donne vengono “marocchinate”, un passato sta riemergendo.  
Come lenire il grido di quelle donne italiane che risuona dall’evo eterno? Solo con lo Jus: con un ferreo esercizio di giustizia romana. 
Licenza Creative Commons  22 Agosto 2018
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