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La lunga marcia dal socialismo a
 
Sindacalismo soreliano: La lunga marcia dal socialismo al fascismo, tra mito e moralità rivoluzionaria. 
di Ninni Raimondi
 
Che per certi aspetti Mussolini e il fascismo abbiano conservato elementi del vecchio socialismo è evidente e ben noto. Alcuni amano ricordarlo per farne un fenomeno di sinistra, altri preferiscono sorvolare per farne un fenomeno di destra puramente reazionaria; è invece decisamente interessante vedere cosa il fascismo stesso diceva in proposito, soprattutto dal punto di vista del sindacalismo fascista, come spiegava Bruno Facinelli in Sindacalismo soreliano (1)
Se il comunismo costituiva in sostanza una religione dell’odio, come si è già sottolineato in “La religione dell’odio di classe”, anche nel mondo socialista non mancavano voci e tendenze diverse, destinate non solo a infrangere la compattezza di quello schieramento, ma soprattutto a dare vita a nuove e diverse linee politiche e strategiche che, sviluppandosi e riavvicinandosi all’ordine naturale, avrebbero dato vita a un concorrente e nemico mortale: il fascismo. 
Uno degli artefici di questo sviluppo apparentemente imprevedibile e contraddittorio era sicuramente Georges Sorel con la sua rivalutazione della coscienza dell’uomo, della sua volontà – implicitamente, della sua anima e del libero arbitrio. Visto il fallimento di vari tentativi estremisti da una parte e l’imborghesimento dei socialisti più moderati e parlamentaristi dall’altra – e vista soprattutto la psicologia collettiva del socialismo, che attendeva messianicamente l’avvento della nuova era comunista come sviluppo inevitabile della società borghese – Sorel teorizzava nuove forme di lotta che lui vedeva ancora come marxiste, ma che in realtà il marxismo contribuiranno a disintegrarlo: l’aspetto etico prende decisamente e apertamente il sopravvento su quello presunto scientifico, segnando un primo distacco dal materialismo.  
 
La Rivoluzione ha bisogno della moralità: non quella buonista, che pretenderebbe un paradiso materiale in terra, bensì una morale pratica e che non viene smentita dal fatto che il popolo non sia sempre alla sua altezza. Così “come dal peccato non viene snaturata la morale cristiana… Predicare alle masse la moralità pura e semplice non ha effetto. Invece, occorre insegnare come devono essere concepiti taluni aspetti concreti della vita di tutti i giorni e della convivenza sociale. Solo un siffatto ammaestramento potrà creare, a poco per volta, le usanze, che si differenzieranno da quelle precedentemente adottate per la loro superiorità, cioè per la loro alta moralità. La moralità è abitudine acquisita. L’uomo, così saldato alla sua morale, diverrà per forza l’eroe soreliano”. 
In questa ottica, Sorel recupera i valori morali tradizionali: “la morale dei produttori, in quel che ha di sublime, non fa che rinnovare la morale di tutti i tempi di eroismo e di sacrificio”. In breve, dobbiamo abituare quotidianamente il popolo a elevarsi moralmente in senso pratico, perché al momento opportuno, se richiesto, possa esprimere dei veri eroi “quando è necessario”. Agli eterni scettici, Facinelli risponde che “se fosse vero che un’alta morale non è mai esistita, non potremmo spiegare l’eroismo, la santità e il martirio, tante e tante volte luminosamente apparsi nella storia”. 
 
Per Sorel, il proletariato per la sua lotta deve avere istituzioni proprie, cioè sindacati che non dipendano da politicanti di professione, e che nei loro ranghi ci sia un avanzamento morale effettivo, almeno tra i dirigenti che devono essere esemplari, superiori agli avversari borghesi. In questa logica, il sindacalismo rivoluzionario rivaluta la famiglia della quale riafferma la necessità. Avere alle spalle una famiglia rafforza il rivoluzionario e “il dovere di educare i figli rafforza il senso di responsabilità”. 
Accanto alla rivalutazione della moralità e della famiglia (termine con il quale allora si intendeva ovviamente solo quella vera e naturale), il sindacalismo rivoluzionario teorizza dei sindacati che siano veri e propri corpi intermedi della società, come le corporazioni medievali: il sindacato deve preparare i proletari a compiere gli atti economici di produzione, scambio, ripartizione, consumo e risparmio della ricchezza e recuperare funzioni oggi dello Stato, come ad esempio: “l’ispezione delle fabbriche, gli uffici di collocamento, la rappresentanza degli interessi della classe operaia nella casse per le pensioni ai lavoratori, per gli infortuni nel lavoro, l’amministrazione dell’assistenza pubblica e l’istruzione elementare” divenendo i protagonisti della vita politica e sociale. Tali sindacati dovranno per forza di cose avere un margine di autonomia, una propria sovranità interna tale da contrastare la statolatria ereditata della Rivoluzione Francese borghese. In tale contesto, i proletari non dovranno più essere solo “lavoratori” più o meno egoisti, ma veri “produttori”, animati dal senso del dovere verso la comunità di appartenenza. 
 
Questi sindacati, corpi sociali intermedi, necessitano però di essere coordinati nel tempo, nello spazio e secondo i differenti campi di lavoro e attività dell’economia moderna. Il sindacalismo rivoluzionario è naturalmente autoritario, perché altrimenti è destinato a perdere. Nasce così la necessità di una guida unica autoritaria che, per essere effettiva, deve essere un capo carismatico. Infine, per tenere unite le categorie del lavoro e i corpi intermedi sindacali Sorel elabora una vera teoria dei miti. Dovere del sociologo, inteso nel senso migliore e attivo del termine, è quello di forgiare il Mito, inteso come idea nobile e affascinante, capace di suscitare eroismo nel cuore degli uomini e mobilitarli nel tempo. 
Naturalmente, non si è ancora arrivati al corporativismo fascista: restano ancora scorie legate alla “lotta di classe” e alla disintegrazione dello Stato e come miti si propongono lo sciopero generale e il potere del proletariato. Inoltre, Sorel resta in fondo un materialista: se accettasse i valori cristiani e spirituali – spiega Facinelli – arriverebbe al fascismo, ma non ha il coraggio di farlo. Il fascismo, invece, abolirà la lotta di classe, assorbirà i corpi sociali intermedi nel sindacalismo fascista prima, nello Stato corporativo poi, e infine arriverà alla socializzazione come culmine di integrazione delle categorie sociali nello Stato, realizzerà la mobilitazione popolare permanente fornendo Miti sempre nuovi e sempre antichi come la nazione, il popolo, la civiltà e infine fornirà il modello stesso di capo carismatico contemporaneo. 
 
Riassumendo: moralità personale, famiglia, corpi sociali intermedi e attivi, capo carismatico e mito trascinante per la mobilitazione del popolo, sono tutti elementi che preparano il terreno e il pensiero all’avvento del fascismo movimento e regime. D’altra parte, non dobbiamo neppure pensare che Sorel abbia portato a termine il viaggio ideologico che aveva iniziato e, come giustamente sintetizza Diego Fusaro, “le stesse posizioni personali di Sorel non furono esenti da ambiguità”, con simpatie espresse di volta in volta verso l’anarco-sindacalismo, la destra dell’Action Française e il nascente fascismo italiano. È del resto un dato di fatto che il fascismo abbia preso dal sindacalismo rivoluzionario tutti quegli elementi che risultavano utili alla mobilitazione delle masse popolari, all’inquadramento dei lavoratori anche prima della marcia su Roma, all’edificazione dello Stato Corporativo e possiamo dire che li ha portati a piena maturazione, alle loro logiche conseguenze. Le organizzazioni sindacali, la moralità rivoluzionaria, la difesa della famiglia, il culto del capo e del mito trascinante si svilupperanno in corporativismo e socializzazione, nella difesa della stirpe, nella cristianizzazione dello Stato, nella mistica fascista rivoluzionaria. 
Al fascismo realizzato non interessa che Sorel sia partito da presupposti errati e sovversivi, e neppure che sia ancora appesantito da scorie ideologiche facilmente eliminabili. Anzi, Facinelli sottolinea che la critica soreliana “fu anche lo squillo d’allarme per l’inizio della lotta contro le democrazie in generale” e contro lo spirito borghese e decadente: “quando sarà storicamente e psicologicamente possibile togliere da esso il cardine della lotta di classe, del sindacalismo rivoluzionario non resterà che un grande, magnifico esercito, rivoluzionario sì, ma per nulla sovversivo od anarchico, esso diventerà quella organizzazione pacifica legale e superiore, che è il sindacalismo fascista”. 
 
A un secolo di distanza, tutto questo ricopre per noi una notevole importanza per diversi motivi.  
1) Storicamente, chiarisce e spiega la marcia di Mussolini e del fascismo verso la definitiva adesione ai valori della tradizione.  
2) Ideologicamente, spiega l’interesse fascista per il mondo del lavoro sia in fase insurrezionale che di costruzione dello Stato.  
3) Dimostra come, persino partendo da posizioni errate e lontane, se si è animati da onestà intellettuale si tende irrimediabilmente ad avvicinarsi all’ordine naturale. 
 
Altrettanto importanti le conclusioni che ne possiamo trarre. Il sindacalismo rivoluzionario – come altri fenomeni sociali, come il futurismo in campo artistico e culturale – rappresenta una serie di tappe intermedie percorse dal primo fascismo nella marcia verso la sua piena realizzazione. Di fronte a questa marcia, dobbiamo assolutamente evitare gli errori contrapposti: quello di scambiare le tappe intermedie con la destinazione finale, esaltandole come ideali compiuti, e quello di disprezzarle come negative a priori, finendo per non capire neppure la meta. Dopo il fallimento del socialismo reale e la devastazione attuata dal capitalismo, il sindacalismo rivoluzionario, subordinato alla visione del mondo tradizionale, è invece ancora oggi attuale e rappresenta la sola vera via di uscita dalla crisi contemporanea. 
 
Note 
(1) Bruno Facinelli, Sindacalismo soreliano, Vallecchi Editore, Firenze, 1938. Tutte le citazioni del Facinelli sono tratte da questo testo. 
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