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Agricoltura e sovranità
 
Agricoltura e sovranità 
di Ninni Raimondi
 
Possiamo affermare, senza remore, che nel “variegato” universo italiano manca quasi del tutto un’attenzione critica e costruttiva nei confronti del settore primario dell’economia. Al di là di molte dichiarazioni di principio, il più delle volte estemporanee e prive di struttura, quando si affronta l’argomento agricoltura si cade nella banalità. Diventa tutto un parlare di biologico, agricolture alternative, ritorno alla terra, mondo contadino etc. E questo, a nostro modesto parere, è principalmente il frutto di due fattori da cui non possiamo prescindere nell’analisi che andremo svolgendo:  
 
1) L’agricoltura oggi ha un minor peso economico tra i comparti produttivi e gli agricoltori non costituiscono più la base sociale della nazione; anzi sono una vera e propria minoranza;  
2) Da oltre vent’anni a questa parte è stato, coscientemente, portato avanti un lavaggio del cervello mediatico nei confronti del mondo agricolo.  
 
Questi due punti, volenti o nolenti, hanno progressivamente operato una distorsione percettiva sull’agricoltura italiana, portandoci a trovare scarse risposte ai crescenti problemi del settore, anche laddove ci si sarebbe aspettati qualcosa in più rispetto alla piattezza generale del panorama politico italiano. 
 
Per capire meglio la genesi ed il progressivo sviluppo di questi due punti sarà bene fare un passo indietro e cercare di tracciare un quadro sintetico, ma esemplificativo, della storia dell’agricoltura italiana. E per far questo dobbiamo partire proprio dalla data che segna la nostra agognata e sofferta Unità nazionale: il 1861. A quel tempo l’agricoltura era sicuramente il settore preponderante dell’economia, sia a livello occupazionale che produttivo. Circa il 70% della popolazione, tra uomini e donne, era occupata in agricoltura ed essa rappresentava il 56,7% del prodotto nazionale. Ma di contro alla preponderanza degli occupati e al suo peso sulla bilancia produttiva, possiamo tranquillamente affermare che il quadro generale dell’agricoltura italiana non era certo dei più rosei. L’arretratezza tecnica era generalizzata. Basti pensare, per fare un esempio, che fino alle soglie del XX° secolo ed oltre, gli aratri in uso nelle campagne toscane e in molte parti del centro Italia, non erano poi tanto dissimili da quelli in uso presso gli etruschi e i romani. 
 
Il dott. Vittorio Reggiani, poi tra i soci fondatori del Consorzio Agrario di Gubbio, agli inizi del ‘900 descriveva così il lavoro nelle campagne eugubine: “Era uno squallore che ci opprimeva assistere al modo in cui aravano le nostre terre con il vecchio attrezzo e vedere, con senso di dolore, l’irrazionale lavoro delle terre”. Era inoltre pratica comune alternare di anno in anno grano e mais sugli stessi appezzamenti, senza alcun tipo di concimazione, se non del misero letame, sparso sui campi in quantitativi insufficienti. Quasi del tutto sconosciute le più elementari forme di rotazione con piante foraggere leguminose, al tempo in Inghilterra praticate già da oltre duecento anni e che oggi vengono insegnate in ogni istituto tecnico agrario come una delle prime pratiche agronomiche da rispettare per mantenere la fertilità dei terreni. Ovvio che poi le conseguenze di lavorazioni irrazionali del suolo, della mancanza di concimazioni adeguate e di rotazioni, erano le medie produttive basse. Intorno al 1860 in Italia il frumento, che era la coltivazione più diffusa sulla penisola, produceva di media tra i 5 e 6 quintali ad ettaro.  
 
Bisognerà arrivare alle soglie della prima guerra mondiale per raggiungere delle rese medie di poco superiori ai 10 q/ha. Il grano prodotto serviva poi, più che per l’alimentazione della famiglia contadina, per il pagamento in natura dei proprietari del fondo, i quali, salvo alcuni casi di uomini lungimiranti, investivano poco o niente nel miglioramento dei terreni e nel perfezionamento delle tecniche di coltivazione. Si preferiva parcellizzare le proprietà, tramite appunto affitti, colonie parziarie o mezzadrie, lasciando poi ai contadini, il più delle volte senza un minimo d’istruzione e senza capitali d’investimento, se non la propria forza lavoro, l’onere di tirare avanti. Diveniva così dilagante la piaga dell’usura e dell’indebitamento. Bastava un’annata storta, un raccolto mancato e intere famiglie si vedevano costrette prima a chiedere prestiti poi, impossibilitate a pagarli, a dover lasciare case e terreni per retrocedere nell’ancor più misera condizione di braccianti. In media nel 1861 erano a disposizione dei contadini italiani nell’arco di un anno circa 122kg di frumento, 100kg di frutta e ortaggi e appena 10kg di carne. Stiamo parlando di una popolazione, quella contadina, che lavorava in media dieci ore al giorno nei campi, vangando, zappando, mietendo, seminando e che avrebbe dovuto consumare almeno 1kg di frumento al dì per reintegrare gli sforzi giornalieri spesi nel lavoro. Dovendo quindi integrare la quota mancante di carboidrati con la farina di mais, soprattutto al nord e al centro Italia, alimento povero di sostanze nutritive, si produceva il fenomeno della pellagra, il cosiddetto “male della miseria” come lo definì l’antropologo Cesare Lombroso. Senza contare le altre malattie endemiche delle campagne italiane: il rachitismo, la difterite e la malaria, diffusissima nei tanti terreni paludosi presenti all’epoca in Italia. La mortalità infantile era calcolata intorno al 23% e l’aspettativa media di vita si attestava sui 35 anni, sia per gli uomini che per le donne. L’igiene delle abitazioni contadine era pressoché inesistente. Scriveva il senatore Jacini, autore dell’inchiesta parlamentare sull’agricoltura nazionale, pubblicata nel 1883: “diffusa la coabitazione con gli animali, avvilente la ristrettezza degli spazi, deleteria l’umidità degli ambienti. Più ricchi sono i proprietari e più diroccate e inabitabili sono le case dei contadini”. 
 
Eccoli dunque i contadini italiani all’alba della nostra Unità nazionale. Analfabeti, miseri, sovraccarichi soltanto di figli e debiti. Fermi ad un’agricoltura di poco dissimile a quella in auge alla fine dell’Impero Romano d’Occidente e in buona parte ancora legati a forme arcaiche di usi civici di origine feudale. Per loro, in quelle condizioni, non c’era alcuna possibilità di accumulo di capitali e nessuna possibilità di riscatto dalle condizioni di miseria in cui versavano. Alle generalizzate condizioni di penuria e povertà in cui vigevano le classi rurali dell’epoca, si univano notevoli differenze tra le varie agricolture regionali, tanto che il più grande storico italiano dell’agricoltura, Antonio Saltini, parla dell’Italia delle cento agricolture. Ma farne un quadro dettagliato sarebbe troppo lungo e difficoltoso. Potremmo sintetizzare e racchiudere approssimativamente l’agricoltura italiana dell’epoca in tre grandi macro aree: 
Nord, in particolare l’area della pianura padana, con aziende di dimensioni per lo più medio-grandi, in mano ad un’aristocrazia o ad una borghesia agraria che iniziava a vedere nei propri possedimenti terrieri delle opportunità d’impresa e non più dei feudi da spremere fino all’osso. La manodopera era costituita per lo più da coloni parziari, mezzadri e da braccianti, ma non mancavano anche i primi esempi di manodopera salariata; 
Centro, dove invece predominava ancora un’agricoltura di tipo mezzadrile, con proprietari per lo più appartenenti al ceto aristocratico o clericale, maggiormente interessati allo status sociale che garantivano loro i possedimenti terrieri, più che alla loro conduzione produttiva. Salvo alcuni esempi positivi, veniva praticata un’agricoltura prevalentemente di sussistenza; 
Sud, in cui faceva da padrone il latifondo, in mano alla nobiltà e al clero, dove i contadini erano asserviti alla terra quasi come i servi della gleba dell’alto medioevo. Le campagne del sud erano per lo più dominate dalla fame e dalla penuria, dove si praticavano coltivazioni estensive di cereali – scarsamente produttivi – e di pascolo per il bestiame. 
 
Ovviamente, trattandosi di una sintetizzazione, le situazioni descritte per le tre macro-aree erano rinvenibili anche al di fuori delle zone in cui le abbiamo circoscritte. Per esempio, anche al centro esistevano territori in cui era predominante il latifondo, la coltivazione estensiva e scarsamente produttiva di cereali e foraggi, unite al pascolo brado. Pensiamo alla maremma toscolaziale o all’agro-pontino. Così come al nord esistevano vaste aree in cui predominava il sistema mezzadrile, pensiamo alla Romagna, o dove si praticava ancora un’agricoltura di mera sussistenza, come nella maggior parte dell’arco alpino. Lo stesso dicasi del sud, dove non mancavano esempi di specializzazione colturale e di progresso nelle tecniche agronomiche, come ad esempio in alcune zone della Sicilia, dove agrumi, viti ed olivi cominciavano a prender piede scavallando le arretrare coltivazioni di cereali. 
Ad ogni modo bisognerà attendere proprio il Risorgimento ed il sorgere dello Stato nazionale per intravedere i primi passi verso un necessario ammodernamento dell’agricoltura. Sarebbe scorretto dire che non furono fatti tentativi anche negli stati pre-unitari, ma possiamo tranquillamente affermare che non si rivelarono mai realmente significativi, non riuscendo a garantire quel cambio di passo che si verificò soltanto a partire dall’Unità d’Italia. Sia chiaro, non fu un passaggio semplice e nemmeno privo di errori. Anzi diciamo pure che l’Italia, nell’arco di pochi anni, si trovò costretta ad elaborare un pensiero agronomico che fino a quel momento non aveva avuto, per applicarlo ad una realtà agricola molto sfaccettata e diversa nelle varie regioni. Nascevano allora le prime scuole superiori di agraria a Pisa e a Milano, per opera di due precursori quali Cosimo Ridolfi e Gaetano Cantoni, ma stenteranno a decollare a causa degli scarsi finanziamenti e del numero esiguo di studenti. Mancava inoltre un vero e proprio comparto industriale, fondamentale traino per la creazione dei necessari mezzi tecnici e meccanici volti ad un razionale ammodernamento dell’agricoltura. Non bastò neanche l’iniziale creazione da parte dello Stato dei Comizi Agrari nel 1866, una sorta di embrione dei futuri Consorzi Agrari, a dare un salutare cambio di rotta. Ci vorranno circa una ventina d’anni e il sopraggiungere della crisi agraria, che attanagliò l’Europa interna tra il finire degli anni ’70 e il principio degli anni ’80 dell’ottocento, prima che la macchina dell’agricoltura italiana riuscisse a mettersi in moto. Solo allora, con la creazione ed il diffondersi delle cattedre ambulanti, la nascita dei primi Consorzi Agrari e della loro potente federazione, la Federconsorzi, soprattutto nel nord e nel centro Italia, si videro i primi cambiamenti e si ottennero i primi risultati positivi. 
 
Questa digressione storica ci ha permesso di dimostrare come sia stato difficoltoso portare avanti il processo di cambiamento dell’agricoltura italiana. Ma al contempo come ciò sia avvenuto in modo via via sempre più repentino se paragonato ai precedenti, lunghissimi secoli di stagnazione. Un cambiamento dunque molto recente ed ascrivibile a poco più di cento anni fa. Abbiamo visto così calare il numero degli addetti all’agricoltura, mano a mano che l’industria avanzava assorbendo manodopera e producendo macchinari e mezzi tecnici atti a sostituire il lavoro fisico dell’uomo, aumentando al contempo le rese produttive. Si è così passati da un’Italia eminentemente agricola, che nel 1861 assorbiva oltre il 70% della popolazione in quel settore, ad un progressivo calo. Già nel 1900 il ceto contadino si era ridotto al 60%; nel 1938, con una popolazione comunque ancora occupata per circa il 50% in agricoltura, avvenne per la prima volta il superamento in valore della produzione industriale su quella agricola. Fino a che nel secondo dopoguerra, industria e servizi superarono l’agricoltura nel numero di lavoratori, portando in un rapido susseguirsi il settore primario a rappresentare oggi soltanto il 3,8% degli occupati, con un numero di aziende agricole pari a circa 1.700.000 unità. 
 
Se la percentuale di produzione agricola agli albori della nostra storia unitaria rappresentava il 56,7%, oggi essa incide circa per il 2,3% sul PIL nazionale (con produzione totale pari ad un valore di circa 57 miliardi di euro, con un un valore aggiunto di 33 miliardi) 9. Una piccola goccia nel mare magnum della produzione italiana. È inoltre diminuita a grande velocità, a partire soprattutto dagli anni ’60 la superficie agricola totale, la cosiddetta SAT, ovvero l’area complessiva aziendale, composta tanto dalla superficie agricola utilizzata quanto da quella non utilizzata (canali, fabbricati, giardini etc etc). La SAT è passata nell’arco di cinquant’anni dai 26,6 milioni di ettari del 1961 ai 16,7 milioni del 2016. Praticamente 10 milioni di ettari in meno. Lo stesso dicasi della SAU, ovvero la superficie agricola utilizzata, comprendente l’area aziendale effettivamente investita ed utilizzata per coltivazioni agrarie, la quale dai 17,5 milioni di ettari del 1970 è arrivata oggi ai 12,4milioni, perdendo ben 5 milioni di ettari, che sono una superficie pari circa all’Emilia-Romagna, al Lazio e alla Toscana messe insieme. 
Senza considerare che nella riduzione della SAT e della SAU, le quali sono superfici eminentemente aziendali, non rientrano tutti quei terreni abbandonati ed incolti dei privati. Altre ingenti masse di terreno destinato all’incuria vuoi per divisioni familiari, vuoi per l’ubicazione in luoghi impervi. Questi dati dimostrano come effettivamente l’agricoltura non conti più molto a livello numerico e spiegano meglio perché il settore primario stenti a trovare un posto di rilievo nell’agenda politica italiana. Oramai, come la cenerentola di turno, serve per lo più per millantare i pregi e le virtù dei nostri prodotti enogastronomici, riempendosi la bocca di ecologia e sostenibilità. E qui veniamo al secondo punto focale: ovvero il progressivo lavaggio del cervello operato dai mezzi di comunicazione. Basta accendere la televisione ed ascoltare le trasmissioni a tema proposte dai vari palinsesti nazionali, per sentir elogiare a gran voce le prodigiose capacità dei nostri vecchi contadini. C’è questa grande retorica del mondo contadino quale fonte di saggezza, avente un rapporto privilegiato, speciale e quasi magico con la natura. Sembra che questi contadini del passato siano privati di una dimensione storica e temporale e rappresentino una specie di archetipo mitico da idolatrale. Questo racconto è quanto mai distante ed illusorio rispetto ad una realtà passata ben diversa. 
Lo stesso dicasi dell’esaltazione forsennata che si fanno delle produzioni biologiche e biodinamiche, mantra ossessivo dell’informazione di massa. C’è un tam tam continuo in merito, che ha molto più il sapore di una vera e propria operazione di marketing che di altro. A tal proposito sono ancora una volta i dati a venirci in soccorso. L’agricoltura biologica occupa circa il 14% della SAU italiana, ovvero sia circa un milione e mezzo di ettari. La metà di questa superficie è occupata da prati e pascoli, utili per fornire foraggio al bestiame. Quindi soltanto un 7% di superficie è utilizzata per la coltivazione biologica volta alla produzione vera e propria di cereali, ortaggi o frutta. Stiamo parlando del 4,4% di aziende agricole italiane, all’incirca 73.000 unità che praticano agricoltura biologica. Ancora più disarmanti i dati sul biodinamico, che per molti rappresenta il non plus ultra della sostenibilità, se non addirittura il futuro dell’agricoltura mondiale. Per questa branca, o forse sarebbe meglio definirla setta, dell’agricoltura secondo i più recenti dati parlano di circa 400 aziende agricole che coprono intorno ai 12mila ettari, rappresentanti lo 0,02% delle aziende agricole e lo 0,095% della SAU. 
 
Siamo davvero così sicuri che l’esaltazione, tanto del biologico, quanto del biodinamico, siano un giusto servizio reso a tutto il resto dell’agricoltura italiana?  
Eppure questi racconti continuano a fare una certa presa nella coscienza. La sconsiderata mitizzazione del passato e il fumo negli occhi sul presente, hanno acceso in molti il sacro furore contro ogni tipo di nuova sperimentazione o progresso tecnico-agronomico in agricoltura, facendo dimenticare un concetto fondamentale: l’agricoltura è un’attività estremamente artificiale, che va a sostituire ad un ambiente naturale ricco di biodiversità e tendenzialmente forte, un ambiente artificiale, specializzato e fragile, bisognoso di cure.  
Non è che le nostre mele, i nostri agrumi, il nostro latte nascono così, dal nulla. Sono il prodotto di una lunga serie di selezioni, miglioramenti, incroci, tecnologie, che nell’ultimo secolo, grazie a svariate scoperte scientifiche, sono riuscite a raggiungere picchi qualitativi e produttivi mai raggiunti prima. 
 
La tanto sbandierata esaltazione del Made in Italy, delle varietà tradizionali ed antiche della nostra migliore tradizione agroalimentare, è sostanzialmente un racconto artefatto. Facciamo un esempio: oggi va tanto di moda parlare di grani antichi ed in molti conosceranno il più famoso tra questi, ovvero il grano duro Senatore Cappelli. Forse però non sanno che questo grano, erroneamente chiamato grano antico, nasceva nel 1923 grazie all’opera di selezione varietale del più grande genetista italiano del secolo scorso: Nazzareno Strampelli. Un grano che sarà poi alla base di moltissimi dei grani duri “moderni”, ma che soprattutto farà da elemento principe per quello che è il nostro più conosciuto ed apprezzato prodotto alimentare al mondo: la pasta. Dunque il frutto di un preciso e voluto miglioramento genetico, non il frutto del caso. 
La politica agraria del fascismo avrà avuto molte ombre e molti difetti, ma mise in campo agronomi, tecnici e periti agrari per dare risposte alle problematiche dell’agricoltura italiana; mise in campo la scienza e non la superstizione. Forse ai novelli parabolani dell’agricoltura “naturale” e “magica” sarebbe bene ricordare le parole di un grande e serio studioso di esoterismo e filosofie orientali, come Pio Filippani Ronconi, che a conclusione di un suo discorso pronunciò tali parole: “Questa ammirevole disposizione interiore tramandata fino a noi da un’antichissima civiltà, che più o meno è lo specchio di tutta l’Asia ulteriore, non contraddice certo all’esigenza moderna della crescente tecnicizzazione ed automazione industriale dell’agricoltura che esige la sopravvivenza fisica della specie, bensì la completa, facendo sperimentare all’uomo in maniera vivente, di là dall’astratta razionalità, il suo intimo spirituale rapporto con l’essere della Terra”. 
Riprendendo il filo del discorso, dobbiamo diffidare non solo dall’esaltazione forsennata del biologico e delle agricolture alternative, ma anche dai grandi esaltatori dei prodotti tipici. Escludendo i vini, se consideriamo il fatturato delle varie sigle DOP e IGP, constatiamo che il loro valore è pari a circa il 10% della produzione agricola italiana. Di questo 10%, il 9% è rappresentato dai grandi formaggi e dai grandi prosciutti nazionali, mentre soltanto l’1% è costituito dai prodotti agricoli “tipici” veri e propri – pensiamo alle patate della Sila o alle lenticchie di Norcia, per fare un esempio. Ed i grandi prosciutti ed i grandi formaggi dell’agroalimentare italiano si ottengono soltanto attraverso l’utilizzo di mais e foraggi, che appartengono all’altro 90% della produzione agricola. Voler concentrare i nostri sforzi soltanto su quel 1% significa parlare del nulla. Sia chiaro: queste produzioni non vanno scoraggiate, ma sono e resteranno sempre produzioni di nicchia. Logica vorrebbe che ci si concentrasse di più su quel 90% di produzione da cui si ottengono non solo un significativo 9% di prodotti ad alta remuneratività e ben richiesti sul mercato estero, ma anche tutto ciò che riguarda il fabbisogno alimentare del popolo italiano. Se per produrre la nostra pasta siamo costretti ad importare una buona parte di grano duro dal Canada, in quanto il nostro non soddisfa appieno le qualità richieste dall’industria di trasformazione, perché non impegnarsi nella ricerca e nella selezione di nuove varietà idonee? Siamo o non siamo la terra che diede i natali a Nazzareno Strampelli? 
Per fare questo è necessario un cambio di paradigma; è necessario farla finita di pensare all’agricoltura come un’attività meramente conservativa, se non retrograda e passatista. Dobbiamo smetterla d’intendere l’agricoltura come il “semplice” mezzo attraverso il quale produrre alimenti ed iniziare a ripensarla, anche e soprattutto, come una grande opportunità di ricerca e sviluppo. E non ci stiamo soltanto riferendo a quanto detto riguardo il miglioramento genetico, ma anche allo sviluppo di nuove tecnologie, all’implemento di aziende produttrici di mezzi tecnici, all’industria chimica dei fertilizzanti e degli agro-farmaci, così come a tutta l’industria di trasformazione. Non dimentichiamo che la nostra industria agroalimentare vanta un fatturato di 132 miliardi di euro e che, dopo quello metalmeccanico, rappresenta il secondo comparto industriale nazionale, con un peso di circa il 10% sul Pil. 
 
È dunque necessario rimarcare la stretta interdipendenza tra i vari settori. Agricoltura, industria e servizi sono interconnessi e devono correre a braccetto. Crediamo che in un progetto autenticamente sovranista nessun settore economico possa e debba esser lasciato indietro, tanto meno l’agricoltura. Far ciò significherebbe, tra le altre cose, aprire ulteriormente le porte al ruolo egemone delle multinazionali. Non condanniamo a priori nessuna azienda multinazionale, né vogliamo negarne l’esistenza. Diciamo soltanto che in uno Stato sovrano o queste aziende lavorano seguendo determinate condizioni, in regime di stretta collaborazione con lo Stato in cui operano, oppure possono tranquillamente andarsene in qualche altra parte del mondo a cercare miglior fortuna. Così come scritto nella nostra attuale carta costituzionale – molto citata, ma scarsamente applicata – all’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni, perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Si torni dunque a controllare, a programmare e a far in modo che pubblico e privato tentino di nuovo d’interfacciarsi per un fine sociale, invece di proseguire nella svendite aziendali e nel miserevole crollo della ricerca e dell’istruzione pubblica. Anche questa è cessione di sovranità. E mentre noi creiamo e ricreiamo ostacoli alla ricerca e ci perdiamo nell’esaltazione di qualche raro prodotto tipico, altre nazioni fanno passi da gigante. 
Nel discorso di fine anno 2017, il presidente della Repubblica Popolare Cinese ha annunciato che sono state testate le prime produzioni di riso in acqua salata. E nel mentre, il fu impero celeste acquista ettari su ettari in Africa, accaparrandosi terreni utili alla coltivazione. La Cina dispone della più bassa superficie agraria pro capite al mondo – appena 1.000 mq per abitante – e non solo continua a crescere, ma sta pure modificando la propria dieta alimentare, spostando i consumi dal tradizionale riso ad un maggiore consumo di carne ed altri cereali. Constatazioni da non sottovalutare e che, in parte, ci aiutano a comprendere meglio pure le recenti guerre commerciali con gli Stati Uniti, i quali sono tra i maggiori fornitori di materie prime agricole del gigante asiatico. 
 
Tornando verso il nostro vecchio continente incontriamo la Russia, che l’anno scorso ha ottenuto una produzione di cereali, tra frumento ed orzo, a dir poco mostruosa: 128 milioni di tonnellate. Un balzo impressionante se pensiamo che ai tempi dell’Unione Sovietica il Cremlino era un grande importatore di cereali dall’Europa. Putin dichiarò nel 2005 che il potenziamento del settore agricolo sarebbe stato una priorità per il suo governo ed i risultati gli danno oggi ragione, tanto che il gigante russo si pone come nuovo protagonista nel mercato internazionale dei cereali. 
Fin qui abbiamo parlato di due colossi, ma se guardiamo anche nel piccolo, per esempio ad Israele, la quale tra l’altro si è molto avvantaggiata delle sanzione europee nei confronti della Russia, ampliando in modo notevole la propria esportazione di ortaggi e frutta verso il mercato russo, un tempo nostro privilegiato sbocco commerciale, pur nella ristrettezza degli spazi è uno Stato all’avanguardia nella sperimentazione. Una nazione che con le sue sole forze riesce a garantire al 90% il fabbisogno alimentare della propria popolazione. Questo grazie alla stretta collaborazione tra istituti di ricerca statali ed aziende agricole. Non solo nel settore orticolo, ma anche in quello zootecnico, dove Israele si sta dimostrando paese leader nella zootecnia di precisione e nell’utilizzo del digitale e della robotica nelle stalle. 
Sull’innovazione punterà tutto anche la Gran Bretagna, che dopo l’uscita dall’Unione Europea, per bocca del suo ministro dell’agricoltura ha rilasciato queste dichiarazioni: “Una volta che avremo lasciato l’Unione europea avremo davvero l’opportunità di ripensare dalle fondamenta il settore agricolo britannico. E la Gran Bretagna ha sempre pensato che intensificare l’adozione di nuove tecnologie, come quelle digitali o genetiche, sia la strada giusta per rendere le aziende agricole più produttive e profittevoli. Crediamo che questa sia una grande opportunità e vogliamo essere protagonisti in questa fase”. 
Non dobbiamo assolutamente sottovalutare tutti questi segnali provenienti da quelle nazioni che detengono ancora in mano le leve del proprio sviluppo economico; segnali che dimostrano come l’agricoltura e l’alimentazione abbiano ancora una considerazione ed un peso rilevante negli Stati sovrani. 
 
Per questo, in conclusione, torniamo a ribadire che il recupero della nostra sovranità, dovrà passare anche attraverso il recupero della nostra agricoltura.  
Essa non è la rarità bella e pregiata da mostrare compiaciuti agli altri, ma un settore economico strategico nella vita dell’intera nazione.  
Un settore che dovrà trovare, con armi tanto tecniche, quanto diplomatiche, di ritagliarsi un varco tra le strette maglie della politica agricola comune europea, sempre più fittizia e distante dalla realtà.  
E vorremmo quindi terminare questo studio con una citazione di Antonio Saltini, il quale durante un suo viaggio negli Stati Uniti fu duramente attaccato dal sottosegretario del governo Carter, James Starkey, che criticava aspramente le politiche agricole portate avanti in Europa a sostegno degli agricoltori.  
 
Saltini rispose allora con un concetto così semplice e chiaro, da apparire oggi quasi disarmante.  
Ovvero che quelle politiche erano giuste e necessarie fosse anche soltanto “per sostenere il diritto di ogni società umana di produrre sulla propria terra quanto reputi necessario alla propria sicurezza alimentare”. 
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