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Il degrado dell’arte sacra
 
Il degrado dell’arte sacra nell’estetica e nella liturgia 
di Ninni Raimondi
 
In un momento come l'attuale, nel quale spesso l’architettura delle chiese e la liturgia producono disorientamento e conseguente rifiuto da parte delle comunità, è significativo svolgere una riflessione intorno all’origine delle cose e al rapporto che si instaura tra gli individui, le comunità e l’architettura religiosa. In una civiltà globalizzata e segnata dei grandi flussi migratori, cui anche l’esperienza delle comunità cristiane non è certamente estranea, interrogarsi oggi sul tema dell’identità e sul ruolo delle chiese come veicolo di identità diventa questione decisiva e urgente. Quali identità per le chiese e la liturgia del XXI secolo? 
 
L’arte che si manifesta nell’edificio sacro dovrebbe trasmettere la trasfigurazione che i sacramenti e la liturgia attuano nel mondo e nella storia. Per tale motivo, i cristiani hanno sempre considerato la bellezza come espressione della santità, mentre nell’epoca moderna la secolarizzazione è avvenuta perché la bellezza è stata considerata non come una dimensione indispensabile della santità e della sacralità, ma come una dimensione della ricchezza individuale ed economica e dei sentimenti estetici del soggetto. 
La bellezza che deve improntare di sé tutto il programma iconografico di un edificio di culto contribuisce a quel linguaggio cultuale che avvolge il fedele nel contesto della celebrazione. 
La sfida che si pone per chiunque (liturgista, architetto, artista, committente) è dunque quella del confronto con la celebrazione del Mistero, al cui servizio si deve porre ogni impegno. 
Perché è proprio dalla liturgia che l’estetica ritrova il senso più profondo del suo esistere, in quanto è in essa che la bellezza appare nella sua sorgente originaria e nel suo obiettivo più profondo. Se nella celebrazione si ha l’esperienza di Dio, suprema bellezza, allora tutti gli elementi che caratterizzano i linguaggi del culto devono essere improntati al codice della bellezza e a questo continuamente ricondurre. 
 
Questa bellezza la incontriamo, la contempliamo, la viviamo – per chi ci crede – nella liturgia. Per sua natura, la liturgia celebra le grandi opere di Dio, tutte risplendenti di bellezza: la creazione della luce, del cosmo, dell’uomo e della donna; il mistero dell’incarnazione del Verbo, in cui il Dio invisibile si e` reso visibile nel Figlio; le azioni salvifiche di Gesu`, avvolte da inesprimibile bellezza, scaturita dalla sua bonta` infinita e dal suo sconfinato amore, anche negli eventi segnati da immane dolore, come i vari episodi della sua passione. 
Ma dopo il Concilio Vaticano II sembra che la liturgia – che per essenza, dicevamo, e` bellezza – non sia piu` in grado di fare un discorso elevato sull’estetica che richiami alla Bellezza. 
Oggi tutto questo, in Occidente, e` poco piu` che un sogno e una pia illusione e il rapporto estetica e liturgia resta difficile, quasi improponibile e impensabile ai nostri giorni. 
La ventata devastatrice che il Concilio Vaticano II ha portato nel dialogo tra arte e liturgia, ovviamente con il nefasto passaggio dalla messa “ad orientem” a quella verso il popolo, 
ha imposto la necessità di operare modifiche strutturali con scempi talvolta inauditi. 
Eppure il bello e` connaturale al sacro, al rito, alla liturgia cosi` come l’arte architettonica e pittorica era connaturale alle Chiese cristiane fin dall’antichità. Pertanto, oggi, irretiti dalle difficolta` del momento e consapevoli nello stesso tempo del valore estetico della liturgia di ieri, si prova un certo disagio a parlare di “estetica” e di “bellezza” delle nostre celebrazioni e delle nuove chiese. 
 
Ma perche´ le nostre liturgie non sono belle e perché l’arte sacra è sempre più degradata e svilita? 
Restiamo sul tema, tanto per fare un esempio: battere le mani durante la messa per sottolineare il ritmo musicale non è innovazione liturgica. Semplicemente, è qualcosa 
che non ha alcun significato a livello di stile liturgico, ma che comporta un rischio: quello di trasformare le nostre messe in spettacoli superficiali e fantasiosi che portano a un coinvolgimento puramente esteriore dei fedeli. 
Purtroppo questo è un riflesso della nostra società, in cui troppe volte la vita viene trasformata in spettacolo e in pura esteriorità. Tutto viene esibito sopra ad un palcoscenico, anche i sentimenti più personali. Ed è per questo che facciamo fatica a entrare in contatto con noi stessi e a scendere nel nostro intimo più spirituale. 
Possedere uno stile liturgico appropriato significa, per un sacerdote, opporsi a queste derive: i sacerdoti che possiedono la consapevolezza di che cos’è uno stile liturgico degno contrappongono al chiasso vacuo il silenzio del raccoglimento. Al vociare di un esibizione canora contrappongono la preziosità di un canto che si fa preghiera. Alla fretta figlia del vuoto formalismo, che porta a dire “facciamo presto con la messa”, oppongono la calma della riflessione e dell’amore per la sacralità del rito liturgico. Perché la Vera Liturgia è il luogo in cui l’uomo si oppone al mondo superficiale, individualista ed effimero che ci circonda. 
Se un sacerdote è il primo a non riuscire a mantenere quel senso di sacro necessario davanti alla presenza di Dio, se è il primo a non rispettare la Maestà divina che travalica enormemente la nostra piccolezza con la sua grandezza e la sua santità, come possiamo pretendere dai fedeli un atteggiamento diverso? 
 
Il sacerdote conscio del suo ruolo, quindi, è un sacerdote consapevole essenzialmente di questo: che i suoi gesti e il suo atteggiamento, i suoi paramenti sacri e il suo stile liturgico devono tendere a far sì che tutta la celebrazione risplenda per decoro e per nobile semplicità. 
Ora ditemi e siate sinceri: vi riesce davvero un simile sforzo, quando siete circondati da strane architetture, paramenti sacri sciatti e multicolor, da teste mozzate, bizzarre sculture ed ambigui segni, canzoncine ridicole e vocine stridule, cori da stadio? 
 
È evidente che le nostre liturgie siano oggi povere di tutto ciò che costituisce il gusto artistico.  
Mancano, in particolare, gli elementi estetici del rito, che con la loro consistenza, con la loro carica antropologica sono scomparsi dalle nostre liturgie; esse sono piene soltanto di parole, un’ingiunzione a credere, a fare, a realizzare. 
La bellezza del gesto e` la forma. Il contenuto, preso in se stesso, potrebbe apparire brutto, dato che si riferisce alla crocifissione e alla morte di un uomo, ma la forma riqualifica il contenuto 
in direzione della bellezza, perché lo fa diventare l’incontro con gli altri e con Dio. 
L’estetica del segno di croce e` questa trasformazione del brutto in bello, del fallimento in speranza, del dolore in gioia. Tutto cio` e` trascritto iconograficamente nella storia della pittura sacra e, in tal modo, si realizza uno degli incroci più importanti tra l’immagine e il gesto. 
 
Il segno di croce e` e rimarrà sempre una delle espressioni piu` intense della relazione tra gesto e immagine. 
Ultima testimonianza di questo degrado dell’arte sacra e della liturgia proviene da Gallarate (Va), dove è stato recentemente inaugurato l’altare subito denominato “delle teste mozzate”. 
Obbrobrio che ha scatenato la reazione indignata del web, con migliaia di commenti negativi apparsi sui social. Una sollevazione popolare che l’ex prevosto monsignor Ivano Valagussa, 
ovvero colui che ha commissionato l’altare, non si aspettava, ma che difende la scelta fatta definendo il nuovo altare come «uno scossone alle nostre categorie». 
 
E alle proteste risponde: “All’arte serve tempo e ascolto”! 
Lascio al Vicario le sue dabbenaggini speculative, così come all’attuale prevosto, Riccardo Festa, che sottolinea che l’altare è composto “non da teste mozzate, ma da volti.” Volti? 
Poteva mancare poi “Avvenire” che  ha prontamente difeso come “un lavoro denso, carico del senso della storia e della liturgia, e ricco di spunti”. 
Come sempre si sprecano le pedanti e financo sorprendenti spiegazioni dell’artista Claudio Parmiggiani e dei vari “esperti”: 
«Una mensa derivante dalla giustapposizione di due luminose lastre marmoree sovrapposte che trattengono e proteggono, quasi materno pellicano, una moltitudine di teste antiche, 
reliquie ed emblemi di una sacralità, di una umanità, di una totalità». 
 
Materno pellicano?  
Non mi importano le deliranti interpretazioni a giustificare l’arte sacra moderna.  
Un altare non deve e non può disorientare i fedeli e disturbare il rito fondante della celebrazione Eucaristica. Un arredo liturgico deve essere a servizio del culto, non diventare un oggetto di culto. 
Auspico dunque che lo pseudo-altare sia presto smantellato e portato al vicino museo Maga, unico luogo che gli compete, dove potrà essere apprezzato. 
Nel frattempo si è scoperto sul web che le teste mozzate erano già state esposte “sciolte”, in una galleria londinese dallo stesso Parmiggiani, opera: “Senza Titolo, 2013-2015” 
 
Ha forse l’artista riciclato l’idea o le teste per l’altare di Gallarate? 
L’arte sacra mira al divino, non ruota solo intorno all’artista, ed in questo si può dire Teocentrica. 
“La Bellezza salverà il mondo”, diceva Dostoevskij; sì, ma quale tipo di Bellezza? Nuove forme artistiche tendono a proporre il brutto come soggetto principale dell’opera, dando ampio spazio alle sofferenze e ai drammi dell’umanità. Una bruttezza a volte grottesca ma pur sempre espressione artistica. 
È questa la nuova via da seguire? Dar spazio e voce ai propri “demoni”, proiettandoli in una tela o una scultura o addirittura nelle note di una melodia? 
L’artista non solo deve conoscere la bellezza, ma deve contemplarla, e per questo da sempre il primo testimone della verità della bellezza è l’artista; inoltre, l’artista di opere d’arte sacra, per la sua particolare condizione, non può che essere un vero cristiano, che vive la propria vocazione artistica nella preghiera. 
L’arte sacra contemporanea pare invece riproporre nelle opere solo il malessere morale e spirituale della società ed è spesso proposta da artisti che si vantano del loro ateismo. 
Il cemento è uno dei must dell’architettura moderna applicata alle chiese. Al suo fascino non si sottrae, ad esempio, Massimiliano Fuksas nel progettare la chiesa di San Paolo Apostolo a Foligno, un orribile monolitico cubo in calcestruzzo armato, consacrato nel 2009.  
L’edificio, concepito come una scatola nella scatola di trenta metri di lunghezza e ventisei di altezza, dal costo di tre milioni di euro, è di una tracotanza epocale, nonché fuori contesto rispetto al territorio, cioè la tipica cittadina umbra dai tetti rossi.  
Fuksas, che a meno di una senile conversione immaginiamo se non ateo almeno agnostico, stando alle rivoluzionarie e giovanili esuberanze di matrice comunista, tratteggia con la sua scatola di cemento una teofania negativa, una “via negationis” per dimostrare l’esistenza di Dio: certi che Dio non possa abitare un luogo di tanta bruttezza,  ragionando al contrario Egli potrebbe esistere in ogni altro dove, per cui il mondo risplenderebbe tutto della presenza divina tranne in quel piccolo cubo che è la Chiesa! 
 
A Gallarate, per l’ennesima volta, si è introdotto un’opera acattolica all’interno del cuore della Santa Chiesa Cattolica. Irresponsabili le gerarchie ecclesiastiche e l’arcivescovo di Milano, mons. Delpini, che dai giornali apprendiamo va ad “inaugurare” non a “consacrare” quell’altare, non a “consacrare” quell’altare, 
e vi si pone compiaciuto alla vanagloria dei flash e del mondo. 
Un vescovo che si riempie la bocca di parole come carità, povertà, per poi sottacere ipocritamente un’“opera” costata oltre due milioni e mezzo di euro! Vescovo traditore, che affitta il grandioso Duomo di Milano per lucro e per feste private, come recentemente avvenuto con il “party” di nota Banca e con concerti dei Volo o Giorgia, con canzoni non certo consone alla sacralità del luogo. Lo spazio sacro affittato come fosse una sala polivalente: basta pagare! 
Vescovi, gerarchie e Uffici diocesani colpevoli quali committenti, poiché neppure si curano delle indicazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove nel  Cap.VI. Verità, bellezza e arte sacra al p. 2503 recita: “Per questo i Vescovi, personalmente o per mezzo di delegati, devono prendersi cura di promuovere l’arte sacra, antica e moderna, in tutte le sue forme e di tenere lontano, con il medesimo zelo, dalla liturgia e dagli edifici del culto, tutto ciò che non è conforme alla verità della fede e all’autentica bellezza dell’arte sacra.” 
 
Quelle teste mozzate sono simbolicamente rappresentative di quei vescovi e preti acefali che permettono tali opere dissacratorie nei luoghi di culto cattolico, in un continuo e devastante degrado dell’arte sacra, dell’estetica e della liturgia. 
Licenza Creative Commons  10  Diceembre 2018