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Due parole
 
Due parole, in sintesi, sul 2018 
di Ninni Raimondi
 
La Teoria e la rivoluzione 
Sulle orme di Gramsci, una teoria può dirsi rivoluzionaria quando separa completamente il campo del Servo da quello del Signore, ponendosi come “vertice inaccessibile” agli avversari e come categorizzazione del reale non riassorbibile nelle maglie dell’ideologia dominante.  
Come sappiamo, la lotta di classe è sempre anche una “lotta di classe culturale”, ossia una lotta superstrutturale tra visioni del mondo diverse e antagonistiche, tra prospettive non componibili e in aperto contrasto. 
In assenza di una teoria rivoluzionaria, non può esservi nemmeno un movimento rivoluzionario. Quest’ultimo può costituirsi unicamente sul fondamento di una elaborazione teorica in grado a) di porre in evidenza le contraddizioni di cui è intessuto l’esistente (rovesciando le categorie dominanti), b) di tratteggiare una prospettiva in nome della quale agire nel presente in vista della rioccupazione del futuro e c) di tradursi gramscianamente in senso comune, in egemonia culturale e politica che sappia mobilitare le masse nazional-popolari riformandole sul piano intellettuale e morale, inducendole a impegnarsi attivamente nel progetto di lotta contro il presente per il riscatto dell’avvenire. 
Va da sé che se, come oggi accade, le categorie concettuali impiegate dal Servo sono le stesse impiegate dal Signore (e, dunque, ancora con Gramsci, non si pongono come “vertice inaccessibile” per il Signore stesso), la teoria non può essere rivoluzionaria: infatti, essa finirà inevitabilmente per generare “morfinismo politico” (Gramsci), per giustificare l’ordine vigente e per confermare la subalternità dei dominati, la loro subordinazione alle idee dominanti della classe dominante. 
La vittoria del Signore è oggi, dunque, da intendersi sia al livello del conflitto materiale praticato nella forma del massacro ai danni dei subordinati (libero mercato, globalizzazione, competitività, ecc.), sia al livello dell’antagonismo culturale e simbolico.  
La lotta culturale a favore della decomposizione della coscienza di classe antagonistica sta procedendo, infatti, con pieno successo: di più, riesce a fare accettare al Servo, come se fosse naturale e fisiologica, fatale e ineluttabile, la differenza di potere e di ricchezza tendente all’infinito tra l’aristocrazia finanziaria della global class e la massa precarizzata della pauper class. 
Il Servo, che nel rapporto di forza esistente sta in basso, ha metabolizzato lo sguardo dall’alto proprio del Signore: sguardo che induce il polo dominato e subalterno ad amare le proprie catene e, come nella caverna platonica, a battersi in loro difesa contro eventuali liberatori, dal Servo stesso diffamati secondo le etichette impiegate ad hoc dal Signore per ostracizzare ogni prospettiva non allineata (comunisti, fascisti, xenofobi, populisti, complottisti, rossobruni, ecc.).  
Per questo, l’odierno massacro di classe è simbolico, oltre che reale.  
Gli sconfitti della globalizzazione lo sono infatti doppiamente, sul piano strutturale e su quello superstrutturale: sono sconfitti e si adoperano per rimanerlo, giacché, anziché opporsi ai processi globalizzatori che li rendono ogni giorno più schiavi e più sfruttati, li salutano con entusiasmo, avversando tutto ciò che possa contrastarli (Stato nazionale, regolamentazione politica dell’economico, ecc.).  
Nuovi schiavi della caverna di platonica memoria, sono pronti a diffamare con le logore etichette di comunismo, di fascismo e di rossobrunismo chiunque provi anche solo a mostrarne le contraddizioni e a proporre un rovesciamento della situazione mediante la ripoliticizzazione del conflitto, la rieticizzazione della società, la risovranizzazione dell’economia, la deglobalizzazione anti-imperialistica, la deeconomicizzazione dell’immaginario e il riorientamento geopolitico in chiave non atlantista. 
Queste categorie sono a tutti gli effetti il “vertice inaccessibile” per il Signore mondialista, del quale minacciano il dominio nell’atto stesso con cui lo svelano: per questo, esse vengono dal polo dominante contrastate in ogni modo, affinché il Servo stesso sia indotto a combatterle e ancora una volta, a fare suo lo sguardo dall’alto, che pure dovrebbe combattere se alla realtà del rapporto di forza si accostasse propriamente con lo sguardo dal basso.  
Un esempio su tutti, tra i tanti disponibili: i giovani che poche settimane addietro scendono in piazza a manifestare contro il potere e, insieme, usano i suoi motti, urlando con voce roca “libera circolazione” e, di fatto, citando implicitamente come propri modelli Mario Monti e Soros. 
 
Demofobia 
Benvenuti nella postdemocratica società di libero mercato.  
La democrazia, tanto più evocata quanto più irrealizzata, si dissolve oggi nella libertà della domanda e dell’offerta senza mediazioni statali e politiche di alcun tipo e insieme, nella libera adesione popolare alle scelte autocraticamente prese in modo tutto fuorché democratico dall’oligarchia finanziaria turbomondialista.  
Il volere deterritorializzato dei mercati e della loro classe apolide di riferimento si impone in ogni modo – pressioni esercitate mediante le leve del debito pubblico, colpi di Stato finanziari, ricatto degli investitori internazionali, ripercussioni dei mercati nervosi, impennate dello spread – sulla volontà democratica dei popoli radicati negli spazi degli Stati sovrani nazionali in fase di smantellamento a beneficio del one world del cosmomercatismo assoluto. 
Qualora il popolo, che spinozianamente dovrebbe essere "il corpo e la mente dell’intero Stato" (totius imperii corpus et mens: Trattato politico, III, 2), esprima prospettive divergenti rispetto a quelle dell’élite, sono sempre queste ultime a dover prevalere, con annessa diffamazione del popolo (populista, totalitario e antimoderno) ad opera del circo mediatico e del clero intellettuale.  
Quest’ultimo aspetto richiama irresistibilmente alla memoria i versi con cui Brecht, nel 1953, in riferimento alle minacce del segretario dell’Unione Scrittori agli operai nella Germania Est, scherniva il distacco del governo dalle masse:  
"Il popolo / si era giocata la fiducia del governo / e la poteva riconquistare soltanto / raddoppiando il lavoro. Non sarebbe / più semplice, allora, che il governo / sciogliesse il popolo e / ne eleggesse un altro?". Fu questo il caso, emblematico dell’era delle democrazie senza democrazia, del beniamino dei flussi finanziari Mario Monti, l’”uomo dei mercati”, l’euroinomane più impenitente; il quale, in un’intervista su La Stampa del 18 giugno 2016, in riferimento al “Brexit”, ossia al referendum con cui il popolo inglese aveva votato per il recupero della sovranità e l’abbandono dell’Unione Europea, lamentò il fatto che si era “abusato della democrazia” (sic!), giacché era emerso un verdetto contrario all’interesse cosmopolitico della classe dominante. 
La classe dominante e il suo ceto intellettuale di completamento sono ab intrinseco demofobi: i loro interessi sono antipodici rispetto a quello delle masse nazionali-popolari. Essi oggi esprimono il loro odio di classe verso queste ultime con la categoria di “populismo”, con cui viene accusato indistintamente chiunque non assuma lo sguardo dall’alto proprio dell’aristocrazia finanziaria. Sotto questo profilo, è inconfessabilmente conservato, sotto gli strati del tempo, il significato originario del termine: «populisti», infatti, erano in origine, nella Russia a cavaliere tra il 1860 e il 1880, i socialisti che aspiravano ad «andare verso il popolo» – espressione che costituirà, per Gramsci, la base del nazionale-popolare e della riforma morale –, per alfabetizzare le masse e per favorirne l’emancipazione. È esattamente questo aspetto paideutico ed emancipativo che l’élite demofobica non può oggi accettare.  
Essa, com’è ogni giorno più evidente, opera affinché le masse permangano nella propria passività inconsapevole, prive di orizzonti emancipativi e di strategie del conflitto corale, distratta dallo spettacolo mediatico sempiterno, in balia di microconflitti orizzontali in seno alla stessa massa damnata degli sconfitti e disposta eventualmente a battersi unicamente in nome della conservazione delle proprie robuste catene.  
Nel suo Against Democracy (2016), Jason Brennan ha conferito dignità teorica ai sentimenti post-democratici e demofobi della nuova aristocrazia global-elitaria: la tesi su cui è costruito lo studio di Brennan è quella in accordo con la quale occorrerebbe, in certa misura, limitare il diritto di voto ai «competenti», ossia – questo il non detto – alle classi cosmopolite non coincidenti con il Servo nazionale-popolare precarizzato. 
 
Nazionalizzazioni subito 
Non mi stancherò di ripeterlo.  
Occorre variare l’immaginario e ricartografare la realtà. Per sottrarsi alla presa onniavvolgente del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto.  
Quest’ultimo, presentando surrettiziamente il particolare come universale, non cessa di contrabbandare l’interesse particolare della ristretta quanto cinica classe dominante apolide-finanziaria per interesse universale della società tutta.  
È – Gramsci docet – la cifra di ogni ideologia e, a maggior ragione, dell’oggi imperante ideologia turboliberista, la più pervicace e invasiva: quella che si presenta proditoriamente come neutra e naturale, ossia come il solo modo legittimo di pensare e di intendere il mondo, almeno dopo la data epocale del 1989. 
Di qui, una volta di più, l’esigenza vitale e irrinunciabile di mutare quello che Heidegger ebbe a chiamare il Weltbild, l'”immagine del mondo” o, se preferite, l’orizzonte di senso. La classe dominate liquido-finanziaria e i padroni del discorso che la glorificano a livello superstrutturale lo chiamano “debito pubblico” e lo combattono come tale: in realtà, ritraducendo la sintassi della neolingua dei mercati delocalizzati e deregolamentati gestita dai custodi dell’ordine simbolico, il famigerato e sempre avversato “debito pubblico” sono scuole e ospedali, strade e servizi pubblici.  
Ossia tutto ciò che palesemente cozza contro il sogno neoliberista di riduzione dell’intero mondo della vita a funzione variabile del mercato capitalistico: il quale non conosce diritti, ma solo merci.  
Non conosce dignità, ma solo pezzo. Non conosce comunità solidale, ma solo interessi privatistici concorrenziali. In questa prospettiva, la lotta liberista contro il debito pubblico è, di fatto, la lotta in nome della privatizzazione e contro l’interesse nazionale. 
È la lotta del global-elitario interesse privato sconfinato e sconfinante contro l’interesse comunitario nazionale-popolare. Lotta contro il debito pubblico e ostinata difesa del privato e della privatizzazione sono i pilastri del discorso egemonico mondialista ribadito con vigoria anche al consesso di Cernobbio di pochi giorni addietro. Con una insospettabile gara al privatismo che ha visto protagonisti anche i membri delle forze governative.  
A questa oscena deriva liberal-privatistica dobbiamo senza esitazioni reagire, prima che sia troppo tardi. Come? Con la immediata nazionalizzazione di tutti gli assetti fondamentali dell’Italia. A partire, naturalmente, dalle autostrade, anche alla luce della tragedia del ponte di Genova. 
E questo di modo che l’interesse nazionale prevalga sull’interesse particolare, che il bene comune prevalga sull’egoismo acquisitivo privatistico.  
La nazionalizzazione è il vero banco di prova per una cultura e per una politica che, al di là delle vecchie dicotomie divisive, sappiano operativamente contrapporsi alle esiziali dinamiche della mondializzazione capitalistica, che sulla privatizzazione si fonda e senza la quale non potrebbe sussistere. 
 
Nuovo ordine mondiale 
La società classista del capitale è asimmetrica, spaccata secondo la dicotomia Servo-Signore. Ogni tentativo di presentare una visione universale che mantenga tale società è, per ciò stesso, ideologica, giacché occulta il conflitto e l’inconciliabilità degli interessi degli oppressi con quelli degli oppressori. Per questo, le grammatiche oggi dominanti, presentando l’assetto vigente (mondializzazione, precarietà, deeticizzazione) come favorente l’interesse generale, operano secondo dinamiche ideologiche di indebita giustificazione dell’interesse particolare dell’élite globalista e neo-oligarchica ai danni della massa precarizzata e riplebeizzata. 
Come sapeva Gramsci, una teoria può, a giusto titolo, definirsi rivoluzionaria solo allorché riesce a porsi come elemento di separazione in due campi privi di possibile conciliazione, ossia allorché prospetta un’immagine del mondo irriducibile a quella egemonica e contrastante rispetto ad essa.  
Tra le molteplici tragedie che attraversano l’epoca schiusasi con la fine, pur provvisoria, dell’utopia (Berlino, 9.11.1989), figura anche l’eclissi del campo plurale delle teorie agonalmente contrapposte.  
Il Signore domina oggi a livello sia materiale, sia culturale, grazie alle prestazioni dei suoi oratores di riferimento (ceto intellettuale, clero giornalistico e accademico, opinionisti mediatici, pretoriani della condition postmoderne, pedagoghi del mondialismo, aedi del cosmopolitismo liberale, ecc.): e il Servo subisce il conflitto ridefinito come massacro sia sul piano materiale, sia sul piano culturale, in quanto introietta e accetta la visione del mondo favorita dall’élite mondialista e santificante l’ordine dominante che prevede la permanente schiavitù della massa riplebeizzata. 
Con il Weltdualismus, si è, in pari tempo, estinto il dualismo delle prospettive e delle immagini del mondo. In suo luogo, si è venuto costituendo quello che, con diritto, è stato definito il pensiero unico e che già Marcuse aveva etichettato come “pensiero a una dimensione”.  
L’ordinamento del mondo, che fino al 1989 era duale e diviso dal Muro di Berlino, ha rapidamente preso a disporsi in forma unipolare e unitaria.  
Al mondo monopolare corrisponde sempre più marcatamente un pensiero monopolare che lo santifica e, insieme, sanziona, diffama, dardeggia e perseguita ogni tentativo di pensare altrimenti.  
Lungo il piano inclinato che conduce dalla fine del comunismo storico novecentesco al nostro presente, si è venuto istituendo quel nuovo ordine mondiale classista planetario dell’egoismo liberale, de facto coincidente con il dominio del capitale su scala globale, non più contrastato dal suo nemico storico. È questa l’essenza del nuovo scenario post-1989, ossia del nuovo imperialismo americano-centrico che, sotto copertura ideologica umanitaria, delegittima, non senza il ricorso all’interventismo militare, ogni realtà non omologata rispetto ad esso, trovando la propria costellazione ideologica di riferimento nell’universalismo apolide del capitale, nella volontà di potenza della tecnica e nei valori illuministici umanitari. 
L’epoca schiusasi con l’inglorioso teorema dell’end of history – peana della rassegnazione e del disincantamento funzionale al disarmo della critica – è, ipso facto, il tempo dell’impero globale liberaldemocratico a stelle e strisce ipostatizzato in destino fatale, irreversibile e incontrastabile per tutti i popoli del mondo: colonialismo militare, economico, culturale ai danni dell’Europa declassata al rango di colonia, guerra geopolitica contro the rest of the world, ossia contro il mondo non ancora mondializzato, in forme sia hard (bombe umanitarie a gestione unificata della NATO), sia soft (velvet revolutions variamente colorate) ma ugualmente orientate all’abbattimento di governi non filo-atlantisti (secondo la pratica del regime change), apologia diretta del capitalismo finanziario di Wall Street, sono questi alcuni dei cardini del nuovo ordine mondiale monopolare post-1989. 
 
Immigrazione 
Coerente con la norma della competitività deregolamentata, l’obiettivo degli architetti del mondialismo deregolamentato è sempre il medesimo: il conseguimento della disponibilità di una forza lavoro da cui estrarre plusvalore a prezzi più vantaggiosi, ora andandola a sfruttare in aree del mondo a diritti limitati, ora introducendola in Occidente mediante deportazioni di nuovi schiavi senza tutele, senza diritti e senza radicamento.  
La medaglia della quale la delocalizzazione e l’immigrazione di massa sono le due facce è, pertanto, quella del conflitto di classe, che il capitale sta vincendo senza incontrare resistenza e con la piena subalternità culturale del ceto intellettuale e delle forze sedicenti progressiste, geopoliticamente euro-atlantiste, metafisicamente nichiliste, valorialmente relativiste e politicamente liberal. 
Queste ultime subito diffamano come razzista e xenofobo chiunque non accetti l’elogio lacrimevole dei fenomeni migratori come incondizionatamente buoni e osi smascherare la reale essenza di deportazione schiavista propria dell’immigrazione di massa come strumento della lotta di classe nelle mani del Signore post-borghese ai danni dei lavoratori autoctoni e migranti.  
L’immigrazionismo è promosso dal nuovo padronato cosmopolita e deterritorializzato, che se ne avvale a mo’ di nuova deportazione di schiavi da cui estrarre plusvalore, e legittimato culturalmente dalla libertaria Sinistra del Costume, che lo santifica mediante l’accusa immediata di xenofobia e di razzismo ai danni di chiunque osi criticarlo.  
Le migrazioni coatte promosse dall’accumulazione flessibile del capitale post-1989 e dall’imperialismo che essa non ha cessato di secernere sono un momento della concorrenza universale nel sistema dei bisogni globalizzato: nel cui piano liscio il migrare non è, in sé, più emancipativo del permanere nella territorialità d’origine, né il nomade è più incline alla rivoluzione del soggetto stanziale. 
In antitesi con quanti celebrano l’odierna immigrazione come modello intrinsecamente positivo, integrativo ed emancipativo, occorre ribadire con enfasi che esso è tale sempre e solo per il capitale e per il Signore mondialista; i quali possono, così, impiegare senza riserve i migranti nelle filiere della produzione a prezzi stracciati e senza il giusto riconoscimento dei diritti.  
Ancora, possono agevolmente sostituire la manodopera protetta da diritti sociali e dotata di una residuale coscienza di classe oppositiva con una nuova manodopera, che manca degli uni e dell’altra e che, di più, risulta sempre soggetta al ricatto dell’espulsione per denuncia di immigrazione clandestina in ragione della sua condizione di sans papiers ed è disposta a tutto pur di sopravvivere. 
 
Il competitivismo 
La società si è sciolta nel sistema atomistico delle monadi di consumo privatizzate e post-comunitarie. In tal guisa, la società diviene mera poiezione in superficie dell’economia competitiva, spoliticizzata, deeticizzata. Si torna allo status naturae e al suo bellum omnium contra omnes, dichiarando in partenza dannoso ogni tentativo di uscirne. Proprio come nello stato di natura descritto da Hobbes, nel bellum omnium contra omnes del sistema dei bisogni deeticizzato la vita di ognuno – per riprendere le parole del Leviatano (I, 13, 9) – si presenta come solitary, poor, nasty, brutish, and short.  
È questa la società frammentata post-1989 a capitalismo assoluto. 
La comunità si scioglie nell’atomistica individuale e si polarizza secondo i due estremi della casta dei ricchi e della plebe dei miserabili, ciò che già lo Hegel a più riprese e con sguardo profetico denunzia vibratamente e, insieme, propone di superare mediante la rieticizzazione del sistema dei bisogni. È il modello di società egemonico in Inghilterra e al quale Adamo Smith ha conferito dignità filosofico-politica. Così nella Ricchezza delle nazioni: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro interesse.  
Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi.  
Nessuno che non sia un mendicante sceglie mai di dipendere soprattutto dalla benevolenza dei suoi concittadini, e pesino un mendicante non dipende esclusivamente da essa”. 
Un tale modello di società costruita su basi non sociali e, di più, programmaticamente insocievoli si fonda sulla spinta acquisitiva degli egoismi e, secondo il teorema di Smith, sull’azione imperscrutabile di un’entità sensibilmente sovrasensibile – l’inspiegato che tutto spiega, l’invisible hand – che, immanentizzando il dispositivo della trascendenza, opera come un Dio mondano, garantendo l’emergenza delle pubbliche virtù dai vizi privati, la vittoria del benessere comune su quello meramente egoistico. 
Siffatta tesi, centrata sul dispositivo dell’eterogenesi dei fini, viene non di rado fatta risalire, nella sua embrionale formulazione, alla Scienza nuova di Vico e alla sua concezione in forza della quale l’attenta osservazione fattuale “pruova esservi Provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in umana società” . 
Come per la mano invisibile di Smith, anche per la Provvidenza divina di Vico l’egoismo degli individui figurerebbe come l’inconsapevole e non meglio chiarito terreno da cui scaturirebbe il benessere sociale: e ciascun atomo egoista diverrebbe, a cagione di una imperscrutabile volontà superiore, ciò che asserisce Mefistofele nel Faust di Goethe, ein Teil von jener Kraft, / die stets das Böse will und stets das Gute schafft, “una parte della forza / che vuole sempre il male e opera sempre il bene” (I, vv. 1335-1336). 
La trascendenza della Provvidenza cristiana di Vico è integralmente mondanizzata da Smith nel piano immanente del mercato, successore logico e cronologico del Dio dei cieli e innalzata al rango di causa sui e di inspiegato alla cui luce tutto spiegare.  
L’importante, per l’antropologia di Smith, è lasciare sempre gli individui liberi di agire, privi di impedimenti e, dunque, di legami solidali (“senza alcun aiuto”), garantiti soltanto – secondo il lascito di Hobbes – nella loro sicurezza. 
 
Ripartiamo da Aristotele 
Nella sua essenza, il moderno si presenta fin dal suo sguardo originario come una messa in congedo del profilo dello zoon politikón, dell’uomo aristotelicamente inteso come animale politico, comunitario, socievole. In suo luogo, prende gradualmente forma l’individuo formale-astratto (Renato Cartesio), egoista e anticomunitario (Tommaso Hobbes), possidente e privatizzato (Giovanni Locke).  
Fino ad arrivare, dopo una lunga e tortuosa via, al noto teorema thatcheriano, oggi imperante, per cui la società non esiste: vi sono solo atomi concorrenziali e competitivisti, monadi senza finestre che non siano quelle del do ut des liberoscambista. 
Il soggetto comunitario di Aristotile è sostituito dalla moderna società individualizzata di Tommaso Hobbes e dei suoi “nipotini”: se il primo rendeva ragione dell’individuo a partire dalla “comunità” (koinonia, da “tò koinon”, “ciò che è comune”), intesa come sua origine e suo luogo di piena realizzazione intersoggettiva, il secondo, dal canto suo, spiega la società sul fondamento dell’esistenza di individui che, come i funghi, spuntano sparsi e a sé stanti, e che si uniscono solo per garantire a se stessi la sicurezza e il sereno raggiungimento dei propri interessi personali.  
Così scrive Hobbes nel “De cive” :  “consideriamo gli uomini come se fossero d’un tratto spuntati dalla terra (al modo dei funghi), già adulti, senza alcun obbligo reciproco (emerged from the earth like mushrooms and grown up without any obligation to each other)” . 
È oggi più che mai da Aristotile che occorre ripartire.  
Questi, come è noto, mostra nella “Politica” la diretta evoluzione dalla famiglia al villaggio e da questo alla polis: la famiglia si pone come comunità istituita per la vita quotidiana secondo natura, il villaggio come comunità di più famiglie per bisogni non quotidiani, la polis, infine, come comunità scaturente da più villaggi, secondo un’evoluzione teleologica in cui il punto d’arrivo è necessità interna del processo. 
La prospettiva di Aristotile, in cui si condensa l’essenza dell’etica greca e dello spirito del comunitarismo (e che sarà ripresa, sia pure in modo originale, da Hegel) si pone come antitesi ante litteram della visione moderna e illuministica della società come aggregato atomistico di individualità concorrenziali e insocievolmente socievoli.  
E può, dunque, costituire una feconda opposizione alle logiche disgreganti e anticomunitarie del nostro presente reificato e in balia della scissione. 
 
Addio Pinketts 
Ecco, ci ha mandato per l’ultima volta a quel paese, prima di andarci definitivamente lui, Andrea G. Pinketts, al secolo Andrea Giovanni-Genio Pinchetti, grandissimo bastardone - con tutto il rispetto per la signora mamma - meneghino, di quella Milano naviglia e calibro nove che non esiste più da mezzo secolo, corsara e beona, ma che in lui aveva un narratore di stile, di attitudine e di grande fegato, magari anche rovinato, ingrossato e inspessito, perché invadesse il torace a nasconderci meglio il cuore.  
Pinketts è stato un idolo ironico, capace di coraggi immensi, sin dagli esordi: romanzi raccontati con un gusto del fraseggio surreale, una lingua pirotecnica e allo stesso tempo leggera, umorismo sottile per trattare temi difficili, inchieste giornalistiche vissute sulla pelle, dalle vite degli emarginati in stazione ai bambini di Satana, inviato speciale millenni prima di altri. 
Centinaia di premi che coronano successi letterari e giornalistici, che lasciano invariata la sua voglia di bersi la vita intera e scrivere, senza limite, come viveva. Irregolare in tutto, alcool, donne, sigari e scrittura, intellettuale per niente, come non era scontato il suo modo di fare e la sua incredibile disponibilità generosa, capace di angherie letterarie e di commozioni delicate, di pernacchie ai presunti grandi e attenzioni epistolari ai liceali confusi.  
Le testimonianze di questa sua incredibile umanità sono centinaia e ingorgano i social, dalla scrittosciacquetta milanesina alla giornalista cool romana, dal critico letterario kamikaze all’uomo qualunque che aveva cercato un contatto personale e aveva trovato un compagno di bevute, siamo stati tutti amici di AGP. 
Da lettore gli perdonavi molto, perché il suo modo era comunque un seminare perle lessicali e calembour irresistibili, anche quando raccontava palesi sciocchezze, ma era il suo scrivere a la Pinketts della G come Genio e realizzava in ogni caso il fine ultimo e necessario della scrittura: divertire, fosse solo per stuzzicare, conquistare, intrattenere, irritare, ma sempre divertire.  
Storie surreali e nere, cotolettate alla milanese, fosse anche inquietanti ma sempre maternamente gigantesche e croccanti. Questa sua forza attraverso la gioia aveva attratto Fernanda Pivano, che l’aveva scoperto, ma gli alienava per forza e per sempre la simpatia degli Scrittori con la maiuscola, quelli impegnati e con il corpo rachitico e molle e la calvizie incipiente già a sedici anni, quelli dei testicoli che rotolano secchi dopo un paio di pagine, per intenderci.  
Pinketts poi seduceva senza per forza dover raccontare di essere scrittore e questo non glielo perdoneranno mai. 
Il ricordo è quello di un Andrea G. Pinketts, come sempre elegantissimo anche se senza cravatta per il caldo, che ad Area19 raccontava dell’ostracismo che aveva subito il suo primo libro, per anni tenuto nell’ombra perché raccontava, con la sua solita ironia ma senza remore, una storia triste di pedofilia e sofferenza.  
Lui, comunque fuori dal politicamente corretto, ma carognone gentiluomo, che da giovane, trovandosi costretto, aveva scelto la parte dove le donne si vestivano meglio e non l’aveva mai rinnegata, dopo un’iniziale timidezza, osservava con curiosità il mondo di questi matti tatuati e molto rokkenrrò. Dopo aver occupato il bancone bar con nonchalanche già dal primo pomeriggio, l’essersi trattenuto per buona parte della notte fra concerti, poghi e cocktail a decine, aveva sussurato all’orecchio di un giovane militante di CasaPound: "Siete dei bastardoni, ma siete bellissimi!", durante il concerto degli Zetazeroalfa. 
Addio, Andrea G. Pinketts, conoscerti è stato scoprire che eri esattamente uguale ai bastardoni dal grande cuore che raccontavi. 
 
Reggae e stornelli romaneschi 
Può un genere musicale diventare Patrimonio dell’Umanità?  
A quanto pare, secondo l’Unesco, ora si.  
Pochi giorni fa l’agenzia culturale e scientifica dell’Onu ha dichiarato il Reggae, la tradizionale musica “in levare” Giamaicana, “intangible cultural heritage of Humanity” (patrimonio culturale intangible).  
Secondo l’Unesco, infatti, il genere musicale reso celebre nel nostro continente negli anni sessanta e settanta da Bob Marley ha espresso “il suo contribuito al dibattito internazionale su ingiustizia, resistenza, amore e umanità e sottolinea le dinamiche che lo rendono contemporaneamente cerebrale, socio-politico, sensuale e spirituale”. 
Altro valore aggiunto che avrebbe il reggae rispetto a, chessò, gli stornelli a dispetto romaneschi, è che si è originato in una comunità marginale, repressa, come quella dei discendenti degli schiavi neri nelle isole caraibiche (ricordiamo, infatti, che il reggae  e i suoi derivati sono infatti “musica popolare” anche in altre nazioni, come le Barbados).  
“Col tempo, gli stili neo-africani, il soul e il rhythm and blues del Nord America furono incorporati nel nuovo elemento, trasformando gradualmente lo Ska nel Rock Steady e quindi nel Reggae”.  
Verrebbe dunque da chiedersi come mai, secondo l’Unesco, non sarebbero meritevoli di far parte di questo patrimonio “immateriale” anche i generi che lo hanno originato, come per l’appunto, il soul: derivato dagli spiritual cantati dagli schiavi neri degli Stati Uniti d’America, è per eccellenza la musica della “rivalsa” di un popolo sfruttato. 
Come il soul, molta musica di estrazione “popolare” in Europa è figlia di canti di elevazione spirituale di una popolazione altrimenti in uno stato di prostrazione economica e sociale: un esempio su tutti può essere quello dei canti delle mondine Lombarde e Piemontesi.  
Donne costrette a lavorare in condizioni insalubri, esposte a malaria, sanguisughe, malpagate e con orari inumani, hanno fatto del canto la loro forza e anche la loro vittoria. Non meritano forse questi canti, come anche quelli dei minatori della Valtrompia, quelli dei briganti e via discorrendo, una legittimazione in quanto patrimonio culturale, sebbene immateriale?  
Per ora, “accontentiamoci” di avere la più alta percentuale di patrimonio “materiale” Unesco al mondo: il resto si vedrà. 
 
Buon anno 
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