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La verità negata sulle Foibe san
La verità negata sulle Foibe sanguina ancora 
di Ninni Raimondi
Il giorno del ricordo: Istria 
 
Fino a una quindicina d’anni fa il correttore automatico di MS Word cambiava "foibe" con "fobie".  
Sui libri scolastici di storia era già tanto sentir parlare delle perdite territoriali dell’Italia nel dopoguerra. Sul famoso Garzantino, l’atlante storico che ha cresciuto generazioni di studenti, si accenna a malapena all’espulsione di generiche minoranze italiane «dalla Jugoslavia». Sulle enciclopedie e nei dizionari, al termine «foiba» si parlava solo ed esclusivamente di geologia. Rimozione. Totale. Una rimozione che espelleva dal «consesso civile» qualunque accenno alla perdita delle terre orientali d’Italia, all’espulsione dalla Jugoslavia di 350 mila istriani, fiumani e dalmati e all’eliminazione di migliaia di essi, durante la guerra e dopo. Innumerevoli fatti sparire in quelle cavità naturali che si spalancano nelle rocce istriane. Le foibe, appunto. Le foibe erano diventate così eponime di una tragedia: i primi cadaveri di cittadini italiani (ma anche di etnia slava) massacrati subito dopo l’8 settembre 1943 vennero infatti trovati dai militari della Repubblica sociale all’interno delle grotte carsiche. Immediatamente la stampa repubblicana iniziò a diffondere la notizia a scopo di propaganda anti-comunista e per incitare alla resistenza. Ma questo trasformò una tragedia nazionale in un Leitmotiv di parte. Quando la guerra finì con l’invasione del territorio nazionale, i vincitori, tanto i democristiani quanto più i partiti del Blocco Popolare (comunisti e socialisti) non avevano alcun interesse a ritirare fuori il tema. Le condizioni interne e internazionali costringevano gli ex alleati del Cln a una sorta di schizofrenia che è perfino difficile da spiegare. 
 
Un silenzio bipartisan 
La Dc e gli altri partiti di centrodestra, nonostante il loro fiero anticomunismo, dovevano evitare di toccare il tasto della cosiddetta «autodeterminazione» dei popoli per scongiurare un analogo trattamento per l’Alto Adige. La questione della frontiera orientale doveva essere risolta nelle chiuse stanze delle cancellerie e non a furor di popolo. Il Partito comunista, ovviamente, doveva coprire le atrocità dei compagni titini, la sua complicità nella snazionalizzazione di quelle terre e nelle politiche annessionistiche di Belgrado. Quando nel 1948 Tito poi ruppe con Stalin, le posizioni si rovesciarono, e improvvisamente il dittatore jugoslavo divenne un interlocutore per i governi occidentali e un nemico dei partiti comunisti d’osservanza staliniana, come quello italiano. Ma le responsabilità del Pci erano comunque troppo pesanti perché si potesse pensare di sfruttare le violenze anti-italiane degli jugoslavi in chiave di lotta politica. 
 
TROPPO A LUNGO L’ODIO IDEOLOGICO E INTERESSI DI  FAZIONE HANNO RIMOSSO  IL DOLORE DEGLI ITALIANI SUL FRONTE ORIENTALE 
 
In questo panorama si inserì la rapidissima chiusura della pratica dei «crimini di guerra» italiani durante l’occupazione della Jugoslavia, fra 1941 e 1943. In una sorta di tacito accordo di buon vicinato, Roma e Belgrado rinunciavano ufficiosamente a rivalersi contro i veri o presunti criminali di guerra che avevano angariato le rispettive popolazioni durante il conflitto. Le foibe, insomma, dovevano restare sigillate nel nome della Realpolitik. Con la chiusura del contenzioso per Trieste (1954) anche la questione della frontiera orientale finì nel dimenticatoio. Inoltre quello della città di San Giusto venne trattato dai giornali come un problema di tarda oleografia risorgimentale, che ignorava completamente ciò che c’era stato a est di Trieste. Con la seconda metà degli anni Cinquanta, dunque, il problema dei confini orientali, della scomparsa di migliaia di istriani, fiumani e dalmati e dell’esodo dei rimanenti divenne la proverbiale polvere da spazzare sotto il tappeto. Una straordinaria congiura del silenzio di tutti i partiti dell’arco costituzionale riuscì a relegare il tema quasi solo ai comizi del Movimento sociale, che ben presto trasformarono una tragedia storica in un birignao patriottardo infarcito di imprecisioni e gonfiature propagandistiche che lo resero vieppiù indigeribile al resto dell’opinione pubblica, che di irredentismo non voleva più sentir (o non aveva mai sentito) parlare. 
Solo con la fine del comunismo reale la questione giuliano-dalmata riprese vigore. Lo fece sui media della destra atlantista: Gente, Storia illustrata, Il Giornale di Montanelli ebbero il merito di ritirar fuori un argomento che per 25 anni era diventato un tabù. Lo fecero, forse, più per attaccare il comunismo che per un vero neo-irredentismo, ma comunque ebbero parte consistente a orientare l’opinione pubblica nella straordinaria e brevissima stagione del revisionismo storico, che nell’ultimo decennio del XX secolo permise di riscrivere in chiave scientifica e non più ideologica tanti capitoli del passato nazionale. In quegli anni si aprirono processi a ex partigiani (come i responsabili della strage di Porzus) e si ricominciò a parlare delle «foibe» e dell’esodo. 
 
I nuovi falsari 
Da parte di quelli che erano oramai ex comunisti non era più possibile negare. Venne intrapresa allora una nuova strategia di contrattacco: ridurre, liquidare, giustificare. Una strategia che nei confronti delle versioni più urlate e non scientifiche della vicenda aveva facile vittoria. I morti italiani non furono i «ventimila» pretesi dalla propaganda missina; le «foibe» in realtà erano per lo più pozzi di miniera, e comunque in quelle grotte scomparvero poche centinaia di persone, di cui pochissimi quelli effettivamente accertati; i giustiziati erano fascisti o collaborazionisti, insomma «se lo meritavano». E in fin dei conti «se lo meritava» l’intera nazione italiana, colpevole d’aver invaso la Jugoslavia e aver perpetrato crimini di guerra durante l’occupazione fascista. Era, ed è, una strategia mediaticamente molto valida. Se ne sono avvalsi i ricercatori pubblicati dalla casa editrice udinese KappaVu e vicini alla rivista triestina «Nuova Alabarda», che non fanno mistero delle loro simpatie filo-jugoslave. Se ne avvalgono i romanzieri del gruppo dei Wu Ming e i loro volenterosi collaboratori, che si sono dati a campagne antipatriottiche come quella per rinominare Ronchi dei Legionari in «Ronchi dei partigiani». Ma non sono risultati immuni al contagio anche storici e divulgatori certamente più seri dei cosplayer di Potere Operaio e nostalgici del Maresciallo Tito, le cui argomentazioni sono in gran parte costituite da argomenti ad hominem («sono fascisti, quindi hanno torto a prescindere»). 
 
OGGIGIORNO LE SCHIERE DEI NEGAZIONISTI SONO COMPOSTE DA LIBERAL E VETEROCOMUNISTI 
 
A cavallo dell’approvazione – nel 2004 – della legge che istituiva la Giornata del Ricordo il 10 febbraio, per la prima volta uscirono diversi volumi sull’argomento con le più importanti case editrici nazionali. Ma tutti in qualche misura cercavano di mettere una pezza a colori sull’ennesimo capitolo di quel «sangue dei vinti» che oramai tracimava ovunque come quando si aprono le porte dell’ascensore all’Overlook Hotel. Questa nuova tendenza vede gomito a gomito uomini di area liberal coi veterocomunisti di cui sopra e, al netto dei toni, è basata sull’assioma secondo cui le «foibe» sono «colpa del fascismo». Fu infatti il regime fascista che avrebbe attuato politiche di snazionalizzazione degli slavi, la repressione del loro irredentismo e quindi l’invasione e smembramento della Jugoslavia, con annessi «crimini di guerra», che avrebbero causato «per reazione» le violenze dei partigiani titini contro i cittadini italiani. La sottotraccia è che qualunque atto del governo fascista sarebbe riprovevole e illegittimo – moralmente se non perfino dal punto di vista del diritto internazionale – e che pertanto l’Italia si sarebbe trasformata in una sorta di «Stato canaglia» meritevole della punizione subita in Venezia Giulia. 
 
Gli "ignorazionisti" 
Diversamente dal negazionismo degli anni Settanta e Ottanta, questa nuova moda storiografica ammette – bontà sua! – un certo numero di infoibamenti, le deportazioni, gli arresti e le liquidazioni da parte della polizia politica titina (l’Ozna) e la conseguente fuga della gran parte della popolazione della Venezia Giulia. Lo fa con una forbice sia numerica che morale: i più moderati calcolano in circa 4 mila le vittime e 300 mila i profughi, i più radicali in qualche centinaio le vittime («e se lo meritavano tutti») e massimo 250 mila i profughi. Cifre sicuramente riduzioniste ma non negazioniste tout court. Tant’è che, quando i propugnatori di queste tesi vengono definiti «negazionisti», minacciano querela. In realtà si tratta di modelli interpretativi a tesi: si parte dal presupposto che occorra giustificare a tutti i costi l’azione jugoslava e deprecare la politica italiana («fascista» anche prima del fascismo). E, per far funzionare questo modello, occorre ignorare decine di dati, fatti, atti, documenti storici. Il modello degli «ignorazionisti» può infatti funzionare solo in un contesto di totale decontestualizzazione. 
Si considera per esempio la vicenda della Venezia Giulia italiana come qualcosa che nasce in armi dal cranio di Zeus nel 1918, con l’annessione di quella regione all’Italia, ignorando che le relazioni e le frizioni fra slavi e latini affondano le loro radici ad almeno 11 secoli prima. O si vuole ignorare che i nazionalismi e gli irredentismi contrapposti, la cui fazione slava venne fomentata in chiave anti-italiana dagli Asburgo, hanno avvelenato i rapporti fra italiani, sloveni e croati fin dalla metà dell’Ottocento. E ancora: si parla delle politiche di snazionalizzazione operate dal «governo fascista» (in realtà iniziate all’indomani dell’armistizio di Villa Giusti dai governi liberali) ignorando che quei metodi erano prassi comune in tutta l’Europa e che la Jugoslavia stessa li applicava contro le sue numerose minoranze. Si pretende la riabilitazione degli irredentisti panslavisti fatti giustiziare dal Tribunale speciale in Venezia Giulia, ignorando che si trattava di veri e propri terroristi, rei di attentati, assassinii, spionaggio e azioni a banda armata – tutti reati per i quali in qualunque altro Paese del mondo si finiva al muro. Si depreca l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia, ignorando che Belgrado si era tirata la disgrazia sulla sua stessa testa con un golpe anti-Asse all’indomani dell’ingresso nel Patto Tripartito: un atto che né Roma né Berlino potevano tollerare, perché avrebbe rischiato di far crollare gli equilibri balcanici, portando gli inglesi e i sovietici nel cuore d’Europa. 
 
Josip Broz Tito (1892-1980) è stato tra i massimi responsabili della pulizia etnica ai danni degli italiani.  
Ai suoi funerali partecipò un commosso Sandro Pertini 
Vi è infine il capitolo più controverso, quello del coinvolgimento del Regio Esercito nella guerra civile in Jugoslavia, con il codazzo di rappresaglie, deportazioni e morti fra i civili che ne fu logica conseguenza. Questo è il principale argomento con cui si giustifica la «reazione» dei partigiani sulle popolazioni giuliano-dalmate. Anche in questo caso l’ignorazionismo scorre forte nelle loro vene. Ignorando che fin dai primi giorni dell’occupazione italiana gli irregolari slavi (comunisti, cetnici o di una delle tante altre bande che infestavano la regione) fecero assaggiare ai soldati del Regio Esercito l’asprezza delle tradizioni balcaniche alle quali gli italiani non erano abituati nemmeno nei loro peggiori incubi: infoibamenti (in Montenegro fin dal 1941), torture e mutilazioni di prigionieri, rappresaglie sui civili «collaborazionisti» (l’ultimo caso uscito da poco alla luce è quello di un’intera comunità di zingari sloveni trucidata dai partigiani, donne e bambini compresi, perché accusati di essere "informatori" degli italiani), pulizia etnica. Gli italiani, insomma, dovettero adeguarsi loro malgrado alle durissime regole del gioco balcanico, non ne furono certo la causa. Tant’è che Raoul Pupo, uno dei più lucidi storici esperti della questione, ha definito le stragi del 1943-45 in Istria come il sorprendente «irrompere dei Balcani» in quello che era ancora territorio di storia e cultura italiana, totalmente ignaro delle crudeltà di cui si era capaci appena poche decine di chilometri più a est. 
 
Gli ignorazionisti, insomma, rappresentano l’ultima spiaggia di chi vorrebbe che le foibe restassero sempre sigillate.  
E godono in questa lotta contro la verità e l’Italia di due potenti alleati: il perbenismo montante, che consente attraverso l’accusa di "fascismo" di bollare e condannare a priori qualunque posizione, foss’anche la più fondata.  
E le esagerazioni patriottarde approssimative (vedi per esempio la foto di un gruppo di fucilandi jugoslavi spacciata per una foto di infoibati, che a ogni 10 febbraio spunta fuori sulle bancarelle di mezzo mondo) che danno loro sponda per prendersela col dito che indica la Luna.  
Si tratta dunque di una battaglia da riportare indietro, dal campo dell’ideologia, degli opposti fanatismi, del piagnisteo reciproco, del "i miei morti sono più morti dei tuoi" a quello del metodo scientifico e della contestualizzazione.  
 
Tenendo ben presente che dall’altra parte c’è gente i cui soli argomenti sono quelli che possiamo offrire noi sbagliando una citazione, una data, una foto, per leggerezza, distrazione o foga. 
 
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