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Sanremo, quella giuria radical c
Sanremo, quella giuria radical chic che ha ribaltato il televoto 
di Ninni Raimondi
 
Non bastavano i sermoni di Baglioni sull’immigrazione.  
Non era sufficiente neppure condirli con i monologhi di Claudio Bisio, tentativi semicolti di propinarci i testi di Michele Serra, il giornalista radical chic per eccellenza che tende a disprezzare il popolo perché il popolo ha smesso di filarsi l’intellighenzia nostrana.  
Serviva, per suggellare il trionfo del buonismo più trito e stucchevole, un colpaccio finale. Un finto effetto sorpresa prevedibile come il freddo a febbraio. Serviva dunque il verdetto già scritto: la vittoria di Mahmood, cantautore di madre sarda e padre egiziano. 
Viene premiato così il perfetto simbolo della società ideale dell’ideologia multiculturale.  
Peccato che il popolo alla riscossa con la bandiera rossa sia ormai un fantasma del passato e certe fregnacce non se le beve neanche se sparate a reti unificate.  
Prova ne è che l’ideal totem Mahmood al televoto ha incassato un misero 14%, aggiudicandosi il primo posto soltanto grazie al voto di stampa e giuria. E proprio quest’ultima appare quanto mai emblematica, la cosiddetta giuria d’Onore era infatti composta per lo più da personaggi cresciuti a pane, caviale e morale di sinistra. 
 
Dal regista cantore delle tematiche Lgbt Ferzan Ozpetek, allo storico “smalto rosso” della conduttrice tv Serena Dandini.  
Passando per Beppe Severgnini, il giornalista del Corrierone che ama definirsi “normalmente democratico” per rifilarci a ogni piè sospinto frasi fatte, banalità e frecciatine moraliste.  
Per non farsi mancare un tocco esotico alla linea scelta dal Festival, in giuria c’erano pure Camilla Raznovich, autoproclamatasi “hippy giramondo” e la “lesbica dentro” (sua definizione) Claudia Pandolfi.  
 
Insomma, in barba al parere del popolo spettatore, chi l’avrebbe mai detto che con un simile parterre giudicante avrebbe vinto tal Mahmood? 
Licenza Creative Commons  11 Febbraio 2019
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