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Elogio di Gabriele D’Annunzio, p
Elogio di Gabriele D’Annunzio, poeta armato e vate dell’Italia immortale 
di Ninni Raimondi
 
Ottantuno anni fa si spegneva, a Gardone Riviera, Gabriele D’Annunzio (era il 1° marzo del 1938).  
Celebrato poeta ed eroe pluridecorato, D’Annunzio era effettivamente riuscito – com’era nelle sue intenzioni – a "fare della propria vita un’opera d’arte".  
Uomo d’inesauribile genio, noto viveur e inguaribile donnaiolo, ma anche trascinatore di folle e poeta armato.  
D’Annunzio fu tutto questo, ma anche molto di più. Fu l’incarnazione perfetta, quasi sublime, dell’italiano nuovo: l’italiano aduso a tutti vizi e pronto a tutti gli ardimenti, lesto di lingua ma ancor più lesto di spada. Un tipo di italiano esuberante, quasi sfacciato, ma sempre con un certo garbo e una certa eleganza, capace di conversare a corte e al contempo, di combattere in trincea. 
 
Da borghese a eroe     
D’Annunzio nasce come poeta, simbolo di quella corrente letteraria nota come Decadentismo.  
Pur muovendosi a suo agio tra i salotti dell’alta borghesia, D’Annunzio sa coglierne la vacuità e lo spirito infiacchito.  
Contro l’ottimismo ingenuo e il progressismo idiota della Belle époque, l’uomo di lettere si fa esteta e decide di attraversare la decadenza.  
Scruta nelle profondità dell’abisso per riemergerne trasfigurato.  
L’occasione per mettere alla prova questo nuovo tipo umano si presenta con lo scoppio della Grande Guerra.  
D’Annunzio, ormai ultra-cinquantenne e all’apice della gloria letteraria, interrompe il suo esilio francese e torna in patria per esortare gli italiani a riscoprire la propria anima guerriera. Lo stesso D’Annunzio, ormai Vate della nazione, si arruola. Dai salotti alle trincee, dal romanzo alla mitraglia, dalla pioggia nel pineto alle tempeste d’acciaio. 
 
Il Tempio della Vittoria 
Le imprese del D’Annunzio soldato sono fin troppo note: dalla beffa di Buccari al volo su Vienna, per arrivare sino a Fiume.  
Imprese che però il Vate, ora anche Comandante, non interpretò mai come meri gesti individuali, ma come atti – per quanto esemplari ed emblematici – di una storia più grande, che trascende gli individui e sfida l’immortalità.  
È la storia dell’Italia nuova, forgiata e ritemprata nelle trincee della Grande Guerra; è lo spirito della nazione fatale che infine riabbraccia, dopo tanti secoli, la dea Vittoria.  
Una storia e uno spirito che il Vate eternerà nel Vittoriale, tempio della nazione novella e risorta, ode marmorea al popolo italiano inteso come comunione di eroi.  
Ma questo – si badi bene – non vuol essere un elogio museale al destino dell’uomo.  
Vuole essere, invece, un’esortazione. Perché D’Annunzio, facendoci dono della sua vita monumentale e del suo disperato amore per l’Italia, ci ha anche lasciato il più terribile dei moniti.  
Con il suo esempio, infatti, D’Annunzio ci ricorda ogni giorno chi siamo stati.  
 
E, quindi, chi dobbiamo tornare a essere. 
Licenza Creative Commons  7 marzo 2019
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