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“D’Annunzio non fu fascista”. Il
“D’Annunzio non fu fascista”. Il Corriere prova (ancora) a riscrivere la storia 
di Ninni Raimondi
 
Di tanto in tanto qualcuno prova a «defascistizzare il fascismo».  
È una formula coniata da Emilio Gentile, uno dei più stimati storici del movimento mussoliniano.  
Questo metodo sospetto viene applicato in particolare a figure di spicco dell’esperienza fascista che, almeno una volta in più di vent’anni, abbiano espresso una seppur minima critica al regime.  
Paolo Mieli, firma storica del Corriere, lo sa bene: in un suo vecchio libro ha addirittura tentato di contrabbandare la tesi che Giovanni Gentile sarebbe rimasto un «liberale», non divenendo mai, fino in fondo, un fascista.  
Suona strano in effetti, visto che il filosofo di Castelvetrano scrisse assieme a Mussolini la Dottrina del fascismo e deciderà di rimanere fedele alla sua militanza fino al martirio. Ma se con Gentile questo grottesco gioco delle tre carte è più complicato, con la figura di Gabriele D’Annunzio l’irreprensibile Mieli può effettivamente trovare qualche appiglio in più. E così, dalle colonne del Corriere, l’ex direttore di via Solferino ci ha riprovato: il Vate non fu mai fascista, ci dice Mieli.   
 
Umano, troppo umano 
La tesi esposta da Mieli, cavata da un recente libro di Giordano Bruno Guerri, è nota: alcuni legionari fiumani e fedeli dannunziani aderiranno all’antifascismo, mentre D’Annunzio nutrì sempre una certa diffidenza nei confronti di Mussolini.  
È tutto vero, così come è vero che D’Annunzio non può essere definito un «fascista» tout court.  
Ma l’antipatia di D’Annunzio per Mussolini era, in finale, la rabbia covata verso un uomo che era riuscito a fare quella rivoluzione che il Vate non fu capace di realizzare.  
La critica di D’Annunzio al fascismo inoltre, anche quando esulava da questioni personali e «umane, troppo umane», non fu mai impostata da un punto di vista liberale, cioè egualitaristico e individualistico.  
Il Vate, anzi, ben poteva considerarsi un precursore, o comunque un ispiratore della rivoluzione delle camicie nere. E non solo per la liturgia politica che D’Annunzio istituì a Fiume, ma per il sentimento del mondo che la animava: la visione tragica ed eroica della vita propria di D’Annunzio non ha nulla a che vedere con gli aventiniani e i fratelli Rosselli. Né tantomeno con Mieli. 
 
D’Annunzio non era dei vostri 
Per il resto, è vero: alcuni fiumani come De Ambris prenderanno la via dell’antifascismo.  
Ma la maggior parte di loro – sarebbe vano tentare di ometterlo – andò invece a rimpolpare i ranghi dello squadrismo.  
Basti pensare a due figure-chiave di quell’esperienza come Giovanni Giuriati (capo di gabinetto della Reggenza del Carnaro) o Guido Keller, l’unico che poteva dare del «tu» al Vate e che sempre da D’Annunzio fu nominato «segretario d’azione» e capo dell’Ucm, quel curioso (e temibile) Ufficio Colpi di Mano che più di ogni altro esprimeva lo spirito che animava la gioventù legionaria accorsa nella «città olocausta».  
Insomma, capiamo benissimo l’ansia di Giordano Bruno Guerri di voler «ripulire» l’immagine di D’Annunzio per attirare più visitatori al complesso del Vittoriale da lui gestito. Capiamo anche l’operazione ideologica di Mieli e del Corriere, ossia la volontà di arruolare tra i propri ranghi liberal figure monumentali della storia d’Italia come quella di D’Annunzio.  
 
Capiamo tutto.  
Basta solo che non si spacci tutto questo per storia. 
Licenza Creative Commons  20 Marzo 2019
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