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Fascismo, cento anni dopo
Fascismo, cento anni dopo: per non morire di mediocrità 
di Ninni Raimondi
 
Qualche settimana fa, la senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà si è fatta notare per aver issato un cartello che offendeva il motto Dio, patria, famiglia.  
“Protestavo contro il fascismo”, si è giustificata la parlamentare. 
 
Il destino delle grande idee 
In quell’istantanea, possiamo ben vedere il diverso destino di due grandi idee della modernità, fascismo e comunismo. Il comunismo è invecchiato, è entrato in agonia, è morto, ha avuto il rigor mortis, si è putrefatto. Oltre la putrefazione, c’è questo: il comunismo delle gattare, l’esplosione di qualsiasi ordine significante, il rovescio della prassi oggettiva nella pulsione soggettiva, il sadismo del commissario del popolo applicato alla mercificazione totale del mondo e dei corpi. Non che con questo si voglia idealizzare il comunismo vecchia maniera, come spesso va di moda, purtroppo, fra i sovranisti. Ma Lenin, diciamocelo, era un avversario di rango e sarebbe difficile negare la grandezza a quell’idea che voleva portare la classe operaia ad assaltare il cielo. Oggi quella grandezza, magari mefistofelica, è svanita e cercheremmo invano un cane che fosse disposto a morire per il radioso ideale di far comprare a una coppia gay milanese un bambino vietnamita. 
 
Il fascismo, fede che va incarnata 
Il fascismo, dal canto, a cento anni dalla nascita appare congelato, fissato astrattamente in un frame che ha senso, nel dinamismo dell’insieme, ma che risulta incomprensibile se isolato, reso statico e osservato da solo. Il fascismo di cui si parla spesso oggi, sia per denigrarlo, sia, paradossalmente, per elogiarlo, è troppo spesso un guscio vuoto, privo di spirito. Dio, patria, famiglia, dicevamo. Non è un motto autenticamente fascista, anche se questi elementi nel fascismo ci furono, ma superati e ricompresi in una sintesi dialettica superiore. Un motto fascista, lo sanno anche i bambini, fu “credere, obbedire, combattere”. Dio, patria e famiglia sono tre enti, tre dati di fatto, tre fattori inerti. L’uomo può solo custodirli. Credere, obbedire e combattere sono tre verbi che indicano una tensione verso qualcosa. C’è movimento, c’è azione. C’è lo slancio verso una fede, che va incarnata. C’è l’obbedienza, nel quadro di una gerarchia stabilita all’interno di uno Stato rivoluzionario, che va creato e poi va messo in moto. C’è il combattimento, perché questo ideale non vive se non nella lotta e nella conquista. Il quadro di fondo, come si vede, è molto diverso.  
Dio, patria e famiglia, nel fascismo, ci sono, come valori che vengono socializzati, come diceva Adriano Romualdi. Presi a soli, sganciati da quella base sociale, da quello Stato e da quel movimento di conquista, Dio, patria e famiglia marciscono, diventano tossici, e infatti forniscono l’alibi per ogni diserzione. 
 
Spartiacque di civiltà 
Nella desertificazione delle intelligenze che caratterizza l’epoca, probabilmente tutto questo sembra incomprensibile. Eppure, anche nella sopravvivenza fantasmatica di un fascismo immaginario e ubiquitario, tipo quello che Antonio Scurati continua a scorgere per vendere più copie del suo libro e riuscire finalmente a vincere il premio Strega, anche in questo eterno dibattito su un fascismo altrettanto eterno, qualcosa di significativo c’è. È significativo, per esempio, che persino oggi, nel 2019, a cento anni da piazza San Sepolcro, sul fascismo occorra prendere posizione. 
Che tu sia un ministro degli Interni leghista, un commerciante francese che scende in piazza con un gilet giallo, un premier ungherese iscritto al Partito popolare europeo, un intellettuale che scrive un libro critico nei confronti dell’immigrazione, un ultras da stadio, un coatto di periferia, a un certo punto della tua vita ti verrà chiesto di schierarti sul fascismo. Questo ruolo da cartina di tornasole, da spartiacque di civiltà, è già di per sé significativo. Il fascismo, ancora oggi, risulta centrale nell’autocomprensione di quest’epoca e dei suoi abitanti, secondo una logica che non cessa di “funzionare”. 
 
Non morire mediocri 
Questo non significa che il movimento fondato da Benito Mussolini ci fornisca oggi solo risposte.  
Esso ci pone altrettante domande. Cosa resta, oggi, di quel movimento? E cosa resta di quella temperie culturale una volta estratta dall’epoca delle tempeste d’acciaio e trasportata in quella dei social? Può ancora, quella fede, animare una coscienza collettiva, anziché solo quella di minoranze intransigenti? La zavorra dell’immaginario negativo che il fascismo si porta dietro, giustificata o meno che sia, è superabile? Domande a cui non sarà possibile rispondere qui. Ma riflettere oggi su quella dinamica rivoluzionaria, su quello slancio tragico, può se non altro aiutarci a non morire mediocri, a non dare troppo peso ai ciarlatani e a non vivere di notorietà social. 
Licenza Creative Commons  25 Marzo 2019
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