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Identità e nazione
Identità e nazione. Perché quando dici Italia, dici il nome mio 
di Ninni Raimondi
 
Il 17 marzo del 1861 veniva solennemente proclamato il Regno d’Italia, cellula primigenia del nostro Stato unitario. Il 1° marzo del 1938, esattamente 80 anni fa, si spegneva a Gardone Riviera il «poeta soldato» Gabriele D’Annunzio, che sempre a marzo era nato (il 12 del 1863). Marzo: il mese sacro all’Italia, il mese consacrato a Mavors-Mamers-Marte, l’antico dio guerriero dei popoli italici. Perché è proprio la guerra l’elemento quintessenziale che unisce questi grandi eventi della nostra storia: la spedizione dei Mille, il Volturno, il Piave, l’Isonzo, Vittorio Veneto. Il tutto verrà poi impresso dal Vate nel marmo imperituro: il Vittoriale, infatti, rappresenta il più maestoso monumento alla gloria del popolo italiano, edificato allorché Vittoria e Italia – dopo secoli di rovesci e cadute – ritornarono finalmente a fondersi in un binomio indissolubile. 
 
MAMELI E D’ANNUNZIO RAPPRESENTANO  
I DUE POLI IMMAGINIFICI DELLA RINASCITA ITALIANA 
 
È la vittoria, in effetti, il motivo dominante della «rivoluzione italiana». La stessa vittoria che Goffredo Mameli, «stringendosi a coorte» con i suoi camerati garibaldini, aveva sognato e cantato «schiava di Roma». Mameli: il giovane eroe caduto per difendere quella patria che, ora, non era più fantasia di letterati e antiquari, ma nazione che stava risorgendo nell’infuriare della battaglia. Dalla penna alla baionetta, dal calamaio al cannone. È la stessa vittoria che per D’Annunzio veniva a incoronare, con il suo lauro invitto, l’Italia ormai risorta al suo destino storico. Dai salotti alle trincee, dal romanzo alla mitraglia, dalla pioggia nel pineto alle tempeste d’acciaio. 
 
Gabriele D’Annunzio (1863-1938) 
Il Vate, d’altronde, lo aveva in qualche modo profetizzato nel maggio del ’15, non a caso proprio durante il celebre discorso di Quarto, sulla roccia fatale che già aveva salutato i Mille in rotta verso Marsala. Qui le beatitudini cristiane vengono trasfigurate in senso eroico. Incitano alla battaglia, annunciano lotta e vittoria: «Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore. […] Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia»[1]. Mameli e D’Annunzio: i due poli immaginifici della rinascita italiana. Da poeta a poeta, da soldato a soldato, da eroe a eroe: il cerchio si chiude.    
 
L’anti-nazione 
Il cerchio tuttavia, riannodato da intere generazioni di patrioti con alto tributo di sangue, è stato infine spezzato.  
Soffocata la forza propulsiva del «trentennio glorioso» da accademici-alchimisti e affaristi criminali, affossato il «socialismo tricolore» da magistrati analfabeti e speculatori angloamericani, umiliato il sentimento nazional-popolare da intellettuali «esteromani» e arroganti – il popolo si è ritrovato da solo, preda di tutte le ghenghe dell’Anti-Italia: rapaci potentati finanziari, una classe politica intrallazzona e incompetente, trotzkisti riscopertisi alfieri del capitalismo e sacerdoti della sostituzione etnica. A ben vedere, lo spettro dei «nemici interni» dell’Italia è quanto mai ampio: clericali universalisti, postcomunisti internazionalisti, secessionisti camuffati, atlantisti di servizio, europeisti da operetta, patrioti della domenica. 
Questo vasto partito dell’anti-nazione ha molti padri.  
Ha numerose radici e innumerevoli diramazioni. In questa sede ci occuperemo di una sua sola matrice ideologica. Che, però, è in un certo senso la più pervasiva, giacché compenetra tutte le tesi diffuse dalle élites globaliste, siano esse colte o semicolte. Stiamo parlando del cosiddetto «decostruzionismo».  
Secondo questa corrente scientifica, le nazioni non sarebbero realtà, ossia genuine formazioni storiche di lunga durata, bensì solo «artifici» recenti, veri e propri «imbrogli»[2], oppure – nella migliore delle ipotesi – costellazioni di archetipi simbolici di grande efficacia auto-suggestiva. 
 
Insomma, per farla breve: se qualcosa è stato arbitrariamente «costruito», deve essere, appunto, decostruito, ossia demolito e annientato. In questa operazione squisitamente ideologica, che del resto intende mobilitare attivamente gli studiosi[3], l’obiettivo primario del decostruttivismo non possono che essere le nazioni etniche (in special modo quelle europee). Il motivo è presto detto: delimitando confini e incarnando differenze irriducibili, le nazioni etniche rappresentano un ostacolo formidabile ai sogni agghiaccianti di un’umanità uniforme, livellata e indifferenziata. 
 
Una pseudo-scienza? 
Drogato da filosofia postmoderna, individualismo liberale e materialismo marxista, il dibattito decostruzionista sulle nazioni ha visto i suoi natali negli anni Ottanta: i nomi di Ernest Gellner, Benedict Anderson ed Eric Hobsbawm sono in questo senso i più autorevoli.  
Qualche informazione sul retroterra ideologico di questi autori non sarà inutile: se Gellner è un liberale di stampo illuminista, avido lettore del Karl Popper teorizzatore della «società aperta», Anderson e Hobsbawm sono invece due marxisti in piena regola. Insomma, abbiamo a che fare con internazionalisti di razza, sia che tale cosmopolitismo venga declinato alla maniera liberal-capitalista o non piuttosto in salsa trotzkista: nel loro odio viscerale per i popoli e le nazioni, d’altronde, liberali e comunisti si son sempre trovati in sospetta sintonia. 
 
SECONDO I DECOSTRUZIONISTI LE NAZIONI NON SONO REALTÀ 
MA INVENZIONI RECENTI, DELLE VERE E PROPRIE TRUFFE 
 
Ebbene, per Gellner alla base delle nazioni sono presenti «elementi di artificio, di invenzione e di ingegneria sociale», mentre Hobsbawm parla esplicitamente delle nazioni come di «costruzioni» ideologiche realizzate dai teorici nazionalisti (e borghesi) dell’Ottocento: in tutti e due i casi si tratterebbe di «invenzioni», di costruzioni di realtà che non esistono[4]
 
Il sociologo marxista Benedict Anderson (1936-2015) 
Anderson, da parte sua, è diventato famoso per aver coniato il concetto di «comunità immaginate»: le nazioni si configurerebbero come «immaginate» nel senso che i loro membri non conosceranno mai tutti i loro connazionali. Di conseguenza, il sentimento etnico non può che essere indotto dalla propaganda nazionalista che produce «miti artificiali» sulle origini della comunità di riferimento. Si tratterebbe, in sostanza, di una «sovrastruttura», per usare il linguaggio marxista tanto caro a questi studiosi[5]. Quello che non è chiaro, tuttavia, è perché la nazione, concepita in questi termini, dovrebbe essere «immaginata» (o immaginaria), laddove l’«umanità» – ossia l’unica comunità possibile per i globalisti – sarebbe al contrario qualcosa di «reale». In effetti, c’è da giurare che Anderson abbia conosciuto, uno ad uno, tutti gli abitanti del pianeta Terra per poter giustificare il suo cosmopolitismo. 
 
Tutte queste facezie postmoderne hanno poi finito per abbagliare anche altri studiosi. In questo senso, impossibile non citare il noto medievista Patrick Geary, che si è sforzato di dimostrare che la storia delle moderne nazioni europee non inizierebbe nel VI secolo, come si è sempre creduto, bensì nel Settecento. Le nazioni, intese come prodotti di processi etnogenetici di lunga durata, sarebbero pertanto solo un «mito»[6]. Fortunatamente, questi trip mentali sono stati controbilanciati dai lavori di non pochi studiosi, chiamati «primordialisti» o «perennisti». Pensiamo solo al sociologo britannico Anthony Smith, il quale ha insistito molto sulle origini antiche e medievali delle etnie europee che si sono poi composte in nazione. Benché non interessato alle basi biologiche dei popoli europei, Smith ha teorizzato il cosiddetto «etnosimbolismo», il quale si propone di studiare il fitto (e risalente) reticolo di elementi mitici, simbolici e affettivi che hanno accompagnato la nascita delle nazioni e che gli paiono difficilmente estirpabili proprio in quanto elementi profondi e radicati nella vita dei popoli[7]
Ma pensiamo anche a Wolf Liebeschuetz, storico ebreo che, da bambino, dovette riparare in Inghilterra per sfuggire alle vessazioni dei nazionalsocialisti. Di recente Liebeschuetz così si è espresso contro certa medievistica postmoderna e globalista che accusa la vecchia scuola (in sostanza quella dei Traditionskerne, dei «nuclei di tradizione» di Wenskus) di aver infettato i propri studi di ideologia nazionalista: «Costoro non sembrano minimamente consapevoli che sono invece le loro posizioni a essere fortemente ideologiche: esse, infatti, scaturiscono dal rifiuto del nazionalismo e dall’accettazione del multiculturalismo, ossia due caratteristiche fondamentali degli attuali valori occidentali, le quali trovano espressione pratica, tra le altre cose, nel declassamento del patriottismo nazionale nell’interesse dell’ideale europeo. La mia posizione ideologica, al contrario, è che il possesso di tradizioni condivise, di qualunque tipo esse siano, è necessario per il funzionamento e la sopravvivenza di qualsiasi società umana»[8].  
Amen.  
 
Mito vs. utopia 
L’identità nazionale, d’altronde, è stata efficacemente definita da Carlo Tullio-Altan come «una configurazione complessa che consiste nella trasfigurazione in mito di elementi concreti facenti parte del patrimonio di cultura di un popolo: la memoria storica di sé, in quanto popolo, trasfigurata in epos, i costumi, le leggi e le istituzioni che si è dato, trasfigurate in ethos, la lingua parlata dai soggetti che lo compongono, trasfigurata in logos, l’appartenenza, più o meno reale, a una stirpe, trasfigurata in genos, e il suo habitat naturale, appaesato e trasformato dalle opere umane, come domesticità civile, trasfigurato in topos o oikos, nel quale il gruppo vive»[9]. Insomma, l’identità si basa su un mito che si estrinseca anche in un luogo, in un topos concreto – il che è l’esatto opposto dell’utopia, del non-luogo, del trip mentale che abbacina i corifei del globalismo. Ai cinque elementi proposti da Tullio-Altan, tuttavia, è da aggiungere anche l’onoma, cioè il nome, un aspetto sottolineato con enfasi dallo stesso Smith: un popolo si sente nazione anche in quanto può chiamare e quindi individuare sé stesso rispetto agli altri. 
 
PER LO STORICO BANTI RISORGIMENTO E FASCISMO  
CONDIVIDONO LA STESSA CONCEZIONE BIOPOLITICA  
DELLA NAZIONE 
 
Ad ogni modo, in Italia è stato soprattutto Alberto Mario Banti, il più autorevole storico del Risorgimento, ad applicare le tesi decostruzioniste alla nostra storia nazionale. L’operazione di Banti, al di là della sua vis ideologica, è interessante per almeno due motivi. Innanzitutto, ha sottratto il Risorgimento alle letture di stampo «crociano», ossia l’immagine di un movimento storico-politico essenzialmente liberale ed egualitarista, che sarebbe poi stato distorto e affossato dal fascismo. Banti al contrario, comparando il Risorgimento all’Italia fascista, ha ravvisato una comune concezione «biopolitica» e «genealogico-parentale» della nazione[10]. Tanto da insorgere contro ogni tentativo di «riattualizzazione» del messaggio politico risorgimentale. 
 
I fratelli Bandiera 
In secondo luogo, Banti ha molto insistito sulla potenza mobilitante del mito nazional-patriottico, che attecchì profondamente soprattutto nelle città italiane (al contrario, com’è noto, delle campagne).  
Questo punto è decisivo: tutti i decostruzionisti rimangono esterrefatti di fronte alla capacità di penetrazione, all’attrattiva seducente, alla forza trascinante dei miti nazionali e patriottici.  
In effetti, le cronache risorgimentali, così come la memorialistica dei due conflitti mondiali, sono piene di uomini e donne che muoiono gridando «viva l’Italia». Di contro, nessuno è mai morto al grido di «viva il meticciato» o «viva il libero mercato».  
E questo vorrà pur dir qualcosa.  
Insomma, ci riesce difficile immaginare un globalista no borders che, come i fratelli Bandiera, si avvia al plotone d’esecuzione cantando i bellissimi versi del Mercadante: «Aspra del militar / benché la vita, / al lampo dell’acciar / gioia l’invita. / Chi per la patria muor / vissuto è assai; / la fronda dell’allor / non langue mai. / Più tosto che languir / per lunghi affanni, / è meglio di morir / sul fior degli anni. / Chi muore e che non dà / di gloria un segno / alla futura età, /di fama è indegno». Questa è, in definitiva, la differenza tra un epos popolare e una narrazione oligarchica, tra un mito incarnato e un’utopia intellettualistica. Perché si è capaci di sacrificio, del supremo dono di sé, solo per qualcosa di concreto: per la famiglia, per la patria, per tutto quello che ci appartiene e sentiamo carne della nostra carne. Perché quando dici Italia, dici il nome mio. Chi «parla di umanità» invece – come scrisse anche il socialista Pierre-Joseph Proudhon – in realtà «vuole solo trarvi in inganno». 
 
Note: 
[1] G. D’Annunzio, Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi, Treves, Milano 1915, pp. 32-33. 
[2] R. Gallissot – M. Kilani – A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 20012. 
[3] Cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996. 
[4] Cfr. soprattutto E. Gellner, Nazioni e nazionalismi (1983), Editori riuniti, Roma 1997; E. J. Hobsbawm – T. O. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987. 
[5] B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi (1983), Manifestolibri, Roma 1996. 
[6] P. J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Carocci, Roma 2010. 
[7] Cfr. soprattutto A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni (1986), il Mulino, Bologna 1998. 
[8] W. Liebeschuetz, The Debate about the Ethnogenesis of the Germanic Tribes (2007), in East and West in Late Antiquity, Brill, Leiden-Boston 2015, pp. 85-100, qui 100. 
[9] C. Tullio-Altan, La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Gaspari, Udine 1997, p. 29. 
[10] A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 16-18, 150 ss. 
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