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Quel Mussolini di cui sentivamo
Quel Mussolini di cui sentivamo il bisogno 
di Ninni Raimondi
 
È cominciato in salita il percorso italiano di Mussolini, il primo fascista (Carocci), dello storico tedesco Hans Woller. Sul Sole 24 Ore, infatti, il maggior esperto italiano vivente di fascismo, Emilio Gentile, ha stroncato il volume, accusandolo di «scarsa accuratezza» e «sciatteria colloquiale».  
Il libro è stato invece difeso da Giorgio Fabre (autore a sua volta di un saggio su Mussolini razzista) su Alias, il supplemento del Manifesto, che ha risolto l’arcano di almeno uno degli strafalcioni segnalati da Gentile, quello secondo cui Mussolini sarebbe stato «caporedattore» dell’Avanti e del Popolo d’Italia, quando invece ne fu il direttore. L’errore c’è, ma, ha spiegato Fabre, è del traduttore italiano, non di Woller, dato che in tedesco il direttore di una testata è appunto chiamato Chefredakteur. 
 
Una sequela di luoghi comuni 
Particolari a parte, Gentile non ha avuto tutti i torti a riscontrare una certa sciatteria stilistica: la nuova, stringata, biografia mussoliniana scritta dall’esperto tedesco è infatti piena di giudizi come il seguente, riferito ai fascisti della Rsi: «Il pathos con cui invocavano rinnovamento e riscatto era rivolto a un’Europa fascista con “nuovi” uomini ariani, di cui erano loro, i fascisti, i prototipi». Francamente, sembra di leggere un tema delle medie. Il libro, tuttavia, non è interamente da buttar via, anche se si fatica a comprenderne fino in fondo la necessità e l’originalità nell’alluvionale bibliografia sul fascismo. 
È per esempio degna di nota la serietà e l’imparzialità con cui Woller affronta tutta la prima parte della biografia, con giudizi al limite dell’apologia e senza cadere nei luoghi comuni sulla cultura raffazzonata ed eteroclita del futuro duce, come invece quasi sempre accade nei libri sul «figlio del fabbro» di Predappio.  
Woller arriva persino a rivalutare un polpettone anticlericale come L’amante del cardinale. Claudia Particella, liquidato in seguito come spazzatura dallo stesso Mussolini, ma che invece il tedesco definisce «non privo di profondità intellettuale». La serenità di giudizio di Woller viene però in parte compromessa man mano che ci si avvicina alla fase propriamente fascista della vita mussoliniana. 
Il tedesco indugia spesso in congetture al limite della telepatia sulla vita interiore di Mussolini, descrivendone stati d’animo, ansie e indecisioni.  
Lo stesso fastidioso psicologismo fa capolino quando lo storico parla dell’attivismo sessuale del duce bollandolo moralisticamente come «disturbo da ipersessualità». Curioso anche notare come un tedesco sinceramente democratico come Woller si lasci sfuggire più di una volta giudizi storicamente infondati sul «tradimento» dell’Italia nei confronti degli imperi centrali nella Grande guerra, riuscendo a battere in revanscismo persino Adolf Hitler, che già nel 1928 aveva chiuso la questione del presunto voltafaccia italiano del 1915, definendolo un atteggiamento pienamente giustificato e legittimo. 
 
Woller attacca De Felice 
Dimenticabilissimo, infine, l’ultimo capitolo, in cui l’autore tenta di tracciare sbrigativamente un bilancio dell’eredità mussoliniana nell’Italia di oggi, finendo a stalkerare baristi di Predappio con le solite domande sul turismo nostalgico.  
Ed è qui che troviamo il passaggio che probabilmente ha causato l’ira di Emilio Gentile: l’assurda diffamazione di uno storico del calibro di Renzo De Felice. In un paragrafo denso di sufficienza, lo storico reatino viene liquidato come «virtuoso dell’autopromozione» e «artista dell’occultamento», quasi si trattasse di uno youtuber sedicenne.  Alla fine, l’unico aspetto del saggio di una qualche originalità è dato dalla dura requisitoria contro le pratiche «stragiste» degli italiani in Africa, in Grecia e nei Balcani, che per Woller avrebbero anticipato l’operato dei tedeschi in Polonia. 
 
Si tratta, in verità, di una nuova tendenza storiografica che, non senza preoccupazioni prettamente politiche, intende smontare il mito degli «italiani brava gente» e la retorica alla Faccetta nera, che indubbiamente peccava d’ingenuità.  
Si tratta però di un procedimento che non convince, perché evidenzia il bastone senza parlare della carota, che comunque indubbiamente ci fu, e finisce persino per assolvere, nel confronto, il restante colonialismo europeo di marca liberale, che pure non fu certo avaro di stragi.  
 
A quanto pare, il processo all’uomo bianco va sempre di moda, ma alcuni sono più uomini bianchi degli altri. 
Licenza Creative Commons  3 Aprile 2019
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