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I Boeri
I Boeri: storia di una lunga e tenace «resistenza etnica» 
di Ninni Raimondi
 
I Boeri (o Afrikaner) hanno rappresentato a lungo, nella storia dell’immaginario politico della «destra», un esempio di tenace spirito identitario e pervicace volontà di resistenza ad ogni tipo di assimilazione etnoculturale ad opera degli inglesi, prima, e della popolazione aborigena, poi. Il loro coraggio – soprattutto negli attuali frangenti migratori – funge da sprone per l’homo europaeus, incapace di rassegnarsi alla miseria del suo tempo. 
 
Le origini 
Ma chi erano realmente i Boeri? Boer – che, in olandese, significa «contadino» – è il nome con cui si designa una vera e propria «nazione», contraddistinta persino da una lingua propria (l’Afrikaans) derivante dall’olandese, con una forte commistione, sul piano lessicale, di inglese, tedesco e portoghese. L’identità dei Boeri – al di là delle origini europee – si è definita proprio nel Sudafrica, fin dall’inizio della colonizzazione di quel territorio ad opera della Compagnia olandese delle Indie orientali. Il 6 aprile del 1652, i primi coloni olandesi, guidati dal capitano Jan van Riebeek (†1677), sbarcarono nella Baia della Tavola – dove sarebbe sorta Città del Capo – con l’obiettivo di creare un piccolo insediamento commerciale per le navi olandesi in viaggio verso le Indie. 
 
LA LINGUA AFRIKAANS  
DERIVA DALL’OLANDESE, CON FORTI INFLUSSI  
DELL’INGLESE, DEL TEDESCO E DEL PORTOGHESE 
 
Ben presto l’insediamento si ingrandì per l’afflusso di nuovi coloni di fede calvinista, perseguitati in patria. Agli olandesi (la componente maggioritaria) si aggiunsero protestanti francesi e tedeschi che, progressivamente, si amalgamarono tra loro (anche biologicamente) al fine di contrastare gli attacchi delle tribù aborigene: Khoikhoi e San. Gli Ottentotti e i Boscimani – come li chiamavano i Boeri – erano tribù di cacciatori-raccoglitori tra le più primitive dell’Africa sudoccidentale che, anche sotto il profilo linguistico, costituivano un unicum nel panorama etnologico africano. Abili guerrieri, diedero filo da torcere ai Boeri fino alla seconda metà del XVII secolo, quando furono sottomessi. Intanto, dopo la conquista dell’Olanda da parte delle truppe francesi (1795) e la trasformazione in regno da parte di Napoleone (†1821), l’Inghilterra – nemica della Francia rivoluzionaria – occupò la colonia, che le fu assegnata dal congresso di Vienna col nome di «Colonia del Capo» (1815)[1]
 
La grande migrazione 
L’afflusso sempre maggiore di immigrati inglesi, l’introduzione dell’anglicanesimo e di leggi anglosassoni spinsero i Boeri ad emigrare verso nord, in territori ancora più selvaggi e popolati da tribù ostili. Quando, nel 1834, fu proibita la schiavitù in tutto l’impero britannico, danneggiando così gli interessi degli originari abitanti di Colonia del Capo (possessori di schiavi), circa 20mila Boeri intrapresero quello che, nella loro «memoria nazionale», è ricordato come Die Groot Trek, «La Grande Migrazione». I Boeri si stabilirono a nord, nelle valli dei fiumi Orange e Vaal, fondando tre repubbliche: Natal, Orange e Transvaal, ma ciò non li mise al riparo dalla minaccia inglese. Infatti, nel 1842, il Natal venne annesso alla Colonia del Capo, mentre Orange e Transvaal conservarono l’indipendenza. 
Il 16 dicembre 1838 ha avuto luogo la battaglia di Red River (o di Blood River) tra Boeri e Zulu 
I Boeri furono anche costretti, per circa un secolo, a respingere gli attacchi degli Xhosa e degli Zulu, aborigeni appartenenti al gruppo linguistico Bantu. I primi furono sconfitti nel 1855, mentre gli Zulu continuarono a rappresentare una grave minaccia perché, guidati da re Shaka (1812-1828), avevano costituito un vero e proprio impero, dotandosi di un esercito di ben 30mila uomini, in gran parte armati di lunghe lance: gli «impi»[2]. Il 16 dicembre del 1838, i Boeri ottennero la prima vittoria militare sugli Zulu presso il Red River, guidati da Andries Pretorius (†1853), e quel giorno divenne, molto tempo dopo, il «Giorno della Promessa», cioè la festa nazionale della Repubblica sudafricana. Da quel momento, la vittoria sugli Zulu e la fondazione delle repubbliche indipendenti costituirono i miti fondativi della «coscienza etnica» boera, trasfigurati dalla lettura calvinista delle Sacre Scritture: i Boeri, novello Israele, ritenevano di aver raggiunto la loro Terra di Canaan, in cui mettere radici e prosperare. 
 
I Boeri contro l’impero britannico 
Nella valli dell’Orange e del Vaal, i Voortrekker («pionieri») edificarono un sistema politico repubblicano, fondato sulla piccola proprietà terriera, sull’allevamento e sul commercio al minuto[3]. Negli anni Sessanta, la scoperta di filoni auriferi ed argentiferi nelle valli dei fiumi Orange e Vaal spinse l’impero britannico a tentare il colpo di mano ai danni delle repubbliche. Nel 1877, vi fu il primo tentativo di annettere il Transvaal alla Colonia del Capo, ma il dominio inglese durò poco per l’immediata ribellione boera, che portò alla firma della prima pace di Pretoria, con cui venne nuovamente riconosciuta l’indipendenza del Transvaal (1883). L’Inghilterra vittoriana, però, non poteva arrendersi davanti alla resistenza delle repubbliche e, così, vi fu incoraggiata l’immigrazione degli Uitlanders («stranieri»), avventurieri provenienti da Colonia del Capo. 
Nel 1895, il primo ministro della Colonia del Capo, Cecil Rodhes (†1902), promosse lo «Jameson raid», un’incursione armata di coloni inglesi, guidata da Leander Jameson (†1917), che avrebbe dovuto favorire una sollevazione generale degli Uitlanders già residenti in Orange e Transvaal. Il raid fallì e Rhodes, sconfessato dalla regina Vittoria (1837-1901), dovette dimettersi, benché avesse completato la sottomissione degli Zulu e fondato un’altra colonia britannica: la Rhodesia. 
 
L’ODIERNA FESTA NAZIONALE DELLA REPUBBLICA SUDAFRICANA 
COMMEMORA LA VITTORIA CONTRO I TEMIBILI ZULU 
 
Nel 1899, l’impero britannico decise di farla finita, scatenando una grande guerra contro il Transvaal e l’Orange che, dopo la coraggiosa resistenza sotto la guida dei rispettivi presidenti (Paul Kruger e Martinus Steyn), capitolarono nel 1902, sottoscrivendo la seconda pace di Pretoria. La guerra costò la vita di più di 7mila Boeri, cui sono da aggiungere 20mila morti nei campi di concentramento inglesi ribattezzati laager, parola che, in afrikaans, stava ad indicare il «cerchio di carri» con cui i Boeri si proteggevano dall’assalto degli Zulu. 
 
L’Unione Sudafricana 
L’Orange e il Transvaal furono incorporati nella Colonia del Capo e formarono una nuova entità statale: l’Unione Sudafricana. Il nuovo Stato aveva tre capitali: Città del Capo, sede del parlamento, Pretoria, sede dell’esecutivo, e Bloemfontein, sede del potere giudiziario. Poiché l’Unione aveva moltissimi abitanti europei e salde istituzioni amministrative, Londra le riconobbe il rango di dominion del Commonwealth, cioè lo status di colonia dotata di ampia autonomia politica e di un proprio governo, presieduto da un primo ministro (il primo dominion fu il Canada, istituito nel 1867). Nei primi anni dell’Unione, i Boeri, maggioranza della popolazione bianca, espressero le personalità che si alternarono al governo come Louis Botha, Jan Smuts e James Hertzog. Ma, nonostante ciò, continuò a serpeggiare tra l’opinione pubblica l’odio per l’Inghilterra, com’è dimostrato dal fatto che l’ingresso dell’Unione nel primo e nel secondo conflitto mondiale (al fianco del Regno Unito) scatenò gravi sommosse, perché una fetta consistente della popolazione bianca era favorevole alla neutralità o ad un intervento al fianco della Germania. 
L’atteggiamento filotedesco boero era dettato dal senso di comunanza di stirpe con la Germania, unica potenza europea che, al tempo della guerra contro l’Inghilterra, fornì aiuti finanziari e militari. Nel 1915, l’esercito sudafricano occupò l’Africa sudoccidentale tedesca (odierna Namibia) che, annessa all’Unione, ne condivise le sorti fino al 1989. Nel 1939, in occasione della guerra contro la Germania nazionalsocialista, alcuni Boeri costituirono persino un movimento politico filotedesco («La sentinella del carro dei buoi»), di cui fece parte anche il futuro primo ministro Balthazar Vorster, ma che fu poi messo fuori legge. 
 
Dopoguerra e apartheid 
Nell’Unione, la vita politica si organizzò sul modello europeo, con la formazione di partiti politici quali il Partito Nazionale (1914), il Partito Comunista Sudafricano (1921) – che riunirono l’elettorato bianco – e l’African National Congress (1912) che riunì, invece, la popolazione di colore. La fondazione dell’Unione ebbe come effetto, col tempo, di smorzare le differenze e le aspre contrapposizioni tra i Boeri e gli anglofoni, favorendo la formazione di un vasto raggruppamento etnico e politico comprensivo di tutta la popolazione bianca che trovò, proprio nel Partito Nazionale, la miglior rappresentanza dei propri interessi. Con le elezioni del 1948, il Partito Nazionale conquistò la maggioranza assoluta in parlamento, mantenendo ininterrottamente il governo del paese fino al 1994. 
In quegli anni, con il varo di un’apposita legislazione, prendeva forma quel sistema giuridico-sociale noto come apartheid, parola che, in afrikaans, significa «separazione». A promuoverlo furono i governi del dopoguerra, guidati da Daniel Malan (1948-1954), Johannes Strijdom (1954-1958) ed Hendrik Verwoerd (1958-1966). Nel 1950, fu messo fuori legge il Partito Comunista – ostile alla politica di apartheid – mentre, nel 1960, fu sciolto l’African National Congress in seguito a una manifestazione non autorizzata della popolazione nera, tenuta a Sharpeville, e poi degenerata in insurrezione. Finalmente, nel 1961, i Boeri ottennero l’agognata «vendetta» contro l’Inghilterra, proclamando la piena indipendenza del Paese – che assunse il nome di Repubblica Sudafricana – e uscendo dal Commonwealth: la «patria boera» (Afrikanerdom) sembrò allora diventare realtà. 
 
L’ATTEGGIAMENTO FILOTEDESCO DEI BOERI ERA DETTATO  
DAL SENSO DI COMUNANZA DI STIRPE CON LA GERMANIA 
 
Ma in cosa consisteva l’apartheid, aborrita dalla comunità internazionale, ma di cui pochi conoscevano la reale natura? In un periodo in cui si avviava il processo di decolonizzazione e gli europei venivano estromessi da ogni funzione direttiva e i loro beni nazionalizzati, l’apartheid rappresentò – al di là di qualsiasi considerazione ideologica – lo strumento con cui la minoranza di origini europee (circa il 5% della popolazione) poté sopravvivere, evitando l’estromissione totale dal governo di un Paese modernissimo che, nel bene e nel male, essa aveva creato. L’apartheid, quindi, prima che una «teoria», fu uno strumento imposto dalla necessità storica di preservare l’identità etnica e politica dei bianchi (inglesi e Boeri) consentendo di far funzionare «all’europea» – e fino al 1994! – l’unico Paese dell’Africa subsahariana non travolto dalla decolonizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta[4]
 
L’APARTHEID FU UNO STRUMENTO IMPOSTO DALLA NECESSITÀ STORICA  
DI PRESERVARE L’IDENTITÀ ETNICA E POLITICA DEI BIANCHI 
 
Alle varie etnie africane – appartenenti al gruppo Bantu[5] – fu riservato l’autogoverno di una decina di zone della Repubblica (Bantustan) sotto la sovranità di capi tribali. Il governo sudafricano avviò, alla fine degli anni Settanta, il riconoscimento della piena sovranità politica dei Bantustan, affinché diventassero Stati indipendenti abitati da una specifica etnia, sotto propri capi, e il confine con la Repubblica sudafricana diventasse un confine internazionale tra Stati sovrani. Tra il 1976 e il 1981, furono proclamati indipendenti Transkei, Venda e Ciskei, senza che l’indipendenza fosse riconosciuta dall’Onu: era iniziato il boicottaggio internazionale del Paese con cui, data la ricchezza mineraria, nessuno poteva fare a meno di intrattenere relazioni commerciali. Ed è proprio a causa di tale ricchezza che Usa e Urss, assistiti dal grande capitale internazionale, decisero di puntare sull’annientamento della Repubblica, finanziando il terrorismo collegato a gruppi bantu (la Lancia della Nazione, il Congresso Panafricano), responsabili di molti attentati ai danni anche della popolazione di colore[6]. Nell’azione di sabotaggio del Sudafrica si distinsero anche le chiese locali (cattolica e riformate, con l’eccezione della Chiesa riformata olandese), che offrirono copertura al terrorismo, e il Partito Progressista, guidato dal finanziere Henry Oppenheimer (†2000), unica forza politica bianca apertamente ostile all’apartheid. 
 
I Boeri e la nuova politica 
I governi di Balthazar Vorster (1966-1978) e di Pieter Botha (1978-1989) rinunciarono progressivamente all’apartheid sotto pressione dei gruppi d’interesse predetti, al fine di migliorare l’immagine del Sudafrica nel consesso internazionale. Questa politica causò tuttavia molte scissioni «a destra» del Partito Nazionale, come la formazione, nel 1969, del Partito Nazionale Rifondato e, nel 1982, del Partito Conservatore, mentre l’imprenditore agricolo Eugène Terre’Blanche fondò nel 1973 l’extraparlamentare Movimento di Resistenza Afrikaner, il quale svolse la sua azione politica al di fuori dell’agone elettorale[7]. Nel 1983 Botha promulgò una nuova costituzione di tipo presidenziale che prevedeva l’abolizione della cosiddetta petty apartheid, cioè della separazione delle etnie nelle infrastrutture e nei luoghi pubblici e la costituzione – accanto al parlamento ufficiale – di due camere consultive, rappresentative dell’elettorato indostano e meticcio, ma non Bantu. Queste riforme non fermarono però il terrorismo e Botha fu costretto nel 1985 a decretare lo «stato d’assedio», reiterato fino al 1989, quando si ritirò dalla vita pubblica. 
 
La Repubblica arcobaleno 
Nel 1990 il nuovo presidente Frederik de Klerk abbandonò l’apartheid e consentì la ricostituzione del Partito Comunista e dell’African National Congress, la cui dirigenza fu scarcerata (per questo fu ovviamente insignito del Premio Nobel). Nel 1993 la nuova costituzione riconobbe poi piena cittadinanza ai neri e le elezioni del 1994 – le prime su base multirazziale – consacrarono la vittoria dell’Anc e del suo leader, l’avvocato di etnia Xhosa Nelson Mandela (†2013), che divenne il nuovo presidente. Dal 1994, benché repubblica multipartitica, grazie alla stragrande maggioranza della popolazione di colore il Sudafrica è, di fatto, un vero e proprio stato monopartitico, in cui le posizioni di potere, a tutti i livelli, sono egemonizzate dall’Anc. Il nuovo regime, però, manifestò immediatamente i suoi «lati oscuri», con le reiterate violenze contro la minoranza bianca – parte della quale espatriò – e con i sanguinosi conflitti che esplosero tra le etnie Bantu, soprattutto Xhosa e Zulu. Infatti, lo zulu Buthelezi (capo del partito Inkatha, minister chief del bantustan KwaZulu e avversario di Mandela) rivendicò subito il ruolo di alfiere della libertà cafra, pur avendo sempre appoggiato il regime dell’apartheid, promuovendo una guerra civile contro l’Anc con l’ausilio di lancieri armati come gli «impi» di re Shaka, di cui si considerava un discendente. 
 
SUBITO DOPO LA FINE DELL’APARTHEID È INIZIATA 
UNA LUNGA SERIE DI VIOLENZE CONTRO LA MINORANZA BIANCA 
CHE TUTT’OGGI PERDURA NEL SILENZIO DEI MEDIA 
 
La sorte riservata ai Boeri, e più in generale ai bianchi, nella nuova «Repubblica arcobaleno» è molto chiara. Se si pensa ai casi frequenti di stupri o uccisioni con la diffusa pratica del necklacing – vivicombustione dopo essere stati immobilizzati con un copertone cosparso di benzina – è veramente arduo pensare alla ricostituzione di un Boerestaat sul modello ottocentesco, evitando una secessione. L’Anc, inoltre, sta portando avanti una campagna di progressivo spossessamento fondiario ai danni dei discendenti dei coloni europei, ricorrendo alla forza o facendo pressioni sul sistema bancario, attraverso la negazione dei prestiti o il pignoramento dei beni dati in garanzia degli stessi. D’altronde, è noto che il politicamente corretto non considera, oggi, storicamente possibili – e, quindi, impone di tacere – genocidi compiuti ai danni di individui di razza bianca o fede cattolica, né esistono forze politiche in grado di competere sul piano elettorale con l’Anc, dato che il Partito Nazionale si è sciolto nel 2005 e l’uccisione di Eugène Terre’Blanche da parte di alcuni Xhosa, nel 2010, ha creato grande disorientamento nelle fila del fronte boero. 
Cosa sia successo realmente nella Repubblica, dopo il 1994, lo si evince anche dall’analisi di alcuni dati qui di seguito citati. Il Sudafrica si è trasformato in una «repubblica delle banane» come quelle nate a seguito del processo di decolonizzazione, debitrici verso il Fondo monetario internazionale: da Stato esportatore di generi alimentari, ne è diventato importatore, l’Aids è endemico, con più di 8 milioni di malati, la povertà coinvolge circa 20 milioni di sudafricani e la delinquenza rende il Paese uno dei più pericolosi del mondo. Da aggiungere il collasso del sistema sanitario nazionale, l’indebitamento statale, l’aumento vertiginoso della corruzione, il degrado ambientale e urbano, con il noto fenomeno degli occupanti abusivi di suolo pubblico (plakkers), e conseguente erezione di baracche all’interno di quelli che, un tempo, erano contesti urbani civili. Uno scenario che, tra alcuni anni, potrebbe riproporsi in Europa. 
 
Note 
[1] Cfr. F. Fiorani – M. Flores, Grandi imperi coloniali, Giunti, Firenze-Milano 2005. 
[2] Gli Zulu furono sconfitti definitivamente dagli inglesi nel 1880, e lo Zululand fu annesso al Natal. Cfr. B. Lugan, Histoire de l’Afrique du Sud. De l’Antiquité à nos jours, Perrin, Paris 1986. 
[3] Cfr. P. J. Pretorius, Volksverraad, Libanon, Mosselbaii (Sudafrica) 1996. 
[4] Sulla decolonizzazione, cfr. C. Coquery-Vidrovitch – H. Moniot, L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Mursia, Milano 1977. 
[5] Gli altri raggruppamenti etnico-linguistici sono il Nilota, il Sahariano e il Sudanese. 
[6] G. Grazer, South Africa: America’s Newest Colony, Skilkom, Pretoria 1985. 
[7] J. Marais, Afrikanernasionalisme en die nuwe Suid Afrika, Strydpers, Pretoria 1990. 
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