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C’era una volta Julius Evola
C’era una volta Julius Evola: quando la tradizione diventa letteratura 
di Ninni Raimondi
 
«Poi entrai nello studio di Arnaldaz, pittore e occultista, occorreva scendere una ventina di gradini. Era un sotterraneo che prendeva luce dall’alto, per mezzo di un lucernario… Una leggenda malEvola si è formata sul conto delle nostre riunioni nello studio di via Margutta. Si favoleggiò che noi fossimo in diretta comunione con gli spiriti della terra, mediante riti osceni e sacrileghi». La leggenda malEvola a cui allude l’autore, il futurista Vincenzo Fani, conosciuto negli ambienti di avanguardia con il nome di Volt, riguarda un personaggio realmente esistito, la cui identità facilmente si riconosce in quel gioco di parole: Julius Evola.  
 
Proprio Evola era infatti il protagonista del racconto di Volt Le parole che uccidono, comparso su Roma Futurista nel 1920. Fu quello il primo, e non l’unico racconto, dedicato a Evola per una ragione che Gianfranco de Turris facilmente individua: «Perché fin da giovane Julius Evola è stato un personaggio, non una persona qualsiasi, un personaggio con una sua personalità inimitabile e sui generis come si accorse subito l’ambiente artistico della Roma a cavallo tra gli anni Dieci e Venti del Novecento». Così scrive De Turris nella prefazione a una bizzarra e intrigante antologia benEvola, che raccoglie appunto storie immaginarie riferite all’esoterista romano (Il barone immaginario: 18 racconti con protagonista Julius Evola, Mursia, 2018). 
Dopo Volt fu una figura letteraria di primo piano come Sibilla Aleramo a trasformare Evola in personaggio da romanzo in Amo dunque sono: divenne allora Bruno Tellegra e la penna della scrittrice ritrasse con un potente chiaroscuro colui che era stato suo amante, poco tempo dopo la conclusione del burrascoso rapporto. Riletto a distanza di decenni, quel romanzo, in cui si riconosce anche la figura di un altro «mago» del Gruppo di Ur Giulio Parise, ha il fascino di un diario ingiallito in cui si raccontano amori di cento anni fa e passioni ormai sopite dal tempo. 
 
Nel 1933 fu la volta dell’inglese Doodsworth, che dedicò a Evola una poesia comparsa sulla rivista Il mare. Si trattava del «supplemento letterario» della Società Letteraria Rapallo, che usciva per iniziativa di Ezra Pound. L’interesse per Evola superò lo spartiacque epocale della Seconda guerra mondiale e, nel 1978, il filosofo tornò a essere «personaggio» grazie alla penna del grande storico delle religioni (e grande romanziere) Mircea Eliade. È proprio Evola, che aveva conosciuto Eliade alla fine degli anni Venti e che era rimasto in contatto epistolare con lui ancora negli anni Sessanta, a rivivere letterariamente nei panni di Ieronim Tanase nel romanzo Diciannove rose. Qui Eliade esprime la sua interpretazione occulta della infermità fisica che lo colpì alla fine della guerra e, più in generale, onora il barone di una considerazione che lo ripaga dei reiterati insulti da parte di un balanzonesco professore dell’università di Bologna. 
A partire dagli anni Novanta, Evola compare in varie «ucronie»: romanzi fantastorici in cui – un po’ come accadeva nelle interminabili discussioni nelle sezioni del Msi – il passato viene riscritto con i famosi «se» che non cambiano la storia, ma mettono allegria: «se D’Annunzio fosse diventato duce nel 1920»; «se Vittorio Emanuele III fosse volato dalla finestra nel 1937»; «se Mussolini invece di dichiarare guerra alla Francia avesse…» e così via. In questi racconti «Evola viene descritto come una figura rappresentativa sul piano politico o metapolitico di una visione diversa di quello che fu il fascismo di Mussolini», scrive sempre De Turris, e adesso specifichiamo anche dove: nella saporita antologia di scritti fantaevoliani. L’omaggio più anticonformista al «filosofo» proibito nel 120° anniversario della nascita, con un titolo che ricorda il Barone rampante e a questo punto anche il Cavaliere inesistente (dunque immaginario) di Calvino. 
 
A differenza di quel cavaliere Evola è esistito eccome, ma il punto è che fino a ora si è parlato di lui come di una sorta di entità astratta: nucleo di coagulazione di idee altissime e inattuali. I racconti dell’antologia curata da De Turris, con tutte le licenze narrative, cercano di cogliere e far vibrare le sfumature del carattere, il lato umano del barone. Ovviamente nella consapevolezza di non poter rispondere, con strumenti critici e analitici, a un grosso punto interrogativo: molti ricordano Evola a partire dal dopoguerra, ma – nota il curatore dell’antologia – «non c’è più nessuno che può raccontare come agisse e si comportasse e che linguaggio usasse Evola tra le due guerre in una situazione diversissima». La letteratura e la fantasia possono colmare, anche in maniera iperbolica, quel vuoto e parlarci di Evola mentre sfida la maledizione di una mummia egizia a Palazzo Chigi o si confronta con un assassino che ha il vezzo di lasciare passi di Metafisica del sesso sulle scene dei suoi delitti; e ancora mentre incontra René Guénon o il poeta Campana, Umberto II di Savoia o Ernst Jünger. Incontri peraltro veri in alcuni casi, verosimili in altri. Rivivono nell’antologia i «paesaggi dell’anima» evoliani: la montagna e l’Oriente, i castelli del Graal e le «zone ai confini della realtà» che lo mettono in contatto, a detta dei fantaevoliani, con gli Iperborei, le divinità germaniche e addirittura, in anticipo sugli agenti Mulder e Scully, con gli alieni. In quest’ultimo caso si avverte il riverbero della documentazione fornita da saggi molto particolari come quello di Lissoni e Pinotti: Gli X-files del nazifascismo: Mussolini e gli Ufo (Idealibri, 2001). Ma, più in generale, tutti i racconti sono inseriti in una robusta cornice documentaria. Così, riguardo a una antologia che solo Gianfranco de Turris – personaggio letterario sorto dalla vena creativa del poeta dadaista Evola – poteva concepire, diciamo che «c’è del metodo in questa follia». 
Licenza Creative Commons  19 Aprile 2019
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