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Antoine de Saint-Exupéry
Antoine de Saint-Exupéry, trasvolatore dell’anima 
di Ninni Raimondi
 
Anche chi non legge libri ha certo sentito parlare della «fiaba per adulti» Il Piccolo Principe, il libro in assoluto più tradotto nel mondo (253 lingue) e tra i più venduti (sesto in classifica con oltre 140 milioni di copie). Ma di tutti quelli che conoscono questo libro, forse solo la metà sa citare il nome del suo autore; e tra questi solo una minima percentuale conosce la vita e l’opera di Antoine de Saint-Exupéry. Escludendo ovviamente i francesi, per i quali lo scrittore è un autentico mito, più o meno come accade per noi con Gabriele d’Annunzio: con la differenza che mentre qui in Italia d’Annunzio, nella sua dimensione extra-letteraria come eroe di guerra e rivoluzionario, è appannaggio di pochi, viceversa in Francia Saint-Exupéry è noto al grosso pubblico anche per quel che fu come uomo. 
 
Una vita avventurosa 
Chi è dunque Antoine de Saint-Exupéry? Nato a Lione il 29 giugno del 1900, trascorre un’infanzia felice (di cui nutrirà sempre una costante nostalgia) nei castelli di famiglia nonostante la morte del padre, scomparso quando lui ha soltanto 4 anni. Quella felicità sarà interrotta drammaticamente dalla morte, a soli 15 anni, di François, l’inseparabile amico (di due anni più giovane) che lo aveva nominato «esecutore testamentario» e, 20 anni dopo, così ricordato da Saint-Exupéry: «Se fosse stato un costruttore di torri, mi avrebbe chiesto di realizzare la sua torre. Se fosse stato padre mi avrebbe affidato l’istruzione dei suoi figli. Se fosse stato pilota di guerra mi avrebbe affidato il suo giornale di bordo. Ma era solo un bambino e mi ha lasciato un motore a vapore, una bicicletta e una carabina». 
Il piccolo Antoine manifesta precocemente la passione per il volo: una passione così smisurata da riuscire ad avere il battesimo dell’aria all’età di 12 anni, in un’esperienza subito riversata in letteratura scrivendo, appena sceso dall’aereo, un poema; e definendo così i due corni entro i quali tende la corda della sua esistenza: il volo e la narrativa. Nel 1921 consegue il brevetto di pilota civile e, nello stesso anno, subisce il primo di una lunga serie di incidenti (spesso anche gravi) dovuti non certo a insipienza ma alla sua audacia temeraria. Nel 1922 ottiene il brevetto militare, accompagnato dalla promozione al grado di sottotenente di riserva, che gli permetterà di entrare a far parte del gruppo da caccia del 33° reggimento d’aviazione, e da un secondo incidente, con frattura del cranio. 
 
LA SUA OPERA PIÙ NOTA È IL LIBRO PIÙ TRADOTTO  
IN ASSOLUTO NEL MONDO, IN BEN 253 LINGUE 
 
Ma è nel 1927 che per Saint-Exupéry i sogni infantili e le aspirazioni adolescenziali trovano una prima gratificazione. Pilota di linea, assicura i collegamenti postali Tolosa-Casablanca e Dakar-Casablanca con caposcalo Cab Juby, deserto alle spalle, oceano Atlantico di fronte, in piena rivolta marocchina e abitando una sorta di capanno in compagnia di vari animali tra cui un camaleonte e una volpe. Spesso si avventura in incontri con berberi e altri abitanti del deserto, impegnandosi a imparare l’arabo. Capiterà che i piloti di alcuni aerei precipitati o abbattuti a fucilate dai mauri saranno presi in ostaggio e liberati su riscatto, oppure uccisi; il recupero dei dispersi nel deserto (a cui Saint-Exupéry parteciperà più volte) sarà sempre un’avventura estrema. È proprio a partire da questa esperienza di volo nel deserto che scrive il suo primo romanzo, Corriere del Sud (1928), che riscuoterà subito un grande successo. Nel 1929 diventa direttore della gestione della Compagnia Aeroposta Argentina e si trasferisce nel Paese sudamericano. Nel 1930, anno cruciale, partecipa alle ricerche e al salvataggio dell’amico pilota Guillaumet e conosce la sua futura moglie, Consuelo. Frattanto, l’esperienza di volo sulle Ande gli ispira il secondo romanzo, Volo di notte, che uscirà nel 1931 con la prefazione di André Gide, valendogli il conseguimento del prestigioso Premio Fémina e consacrandolo come scrittore. 
Negli anni Trenta soggiorna spesso a Parigi, frequentando il quartiere di Saint-Germain-des-Prés e gli scrittori più famosi che lo popolano: fra tutti, Pierre Drieu La Rochelle e, più raramente, André Gide. Ad ogni ora del giorno e della notte è con l’amico fraterno Léon Werth (a cui dedicherà Il piccolo principe) o in qualche locale a «farsi un bicchierino» con Léon-Paul Fargue, altro suo carissimo amico. Intanto, di romanzo in romanzo, nel 1939 arriva, con Terra degli uomini, a conseguire un’altra prestigiosa riconoscenza: il Gran Premio dell’Accademia di Francia. 
 
IL VOLO E LA NARRATIVA  SONO I DUE CORNI ENTRO  
I QUALI TENDE LA CORDA  DELLA SUA ESISTENZA 
 
Ci si potrebbe soffermare sulla sua vita travagliata e turbolenta, come inviato di guerra in Spagna nel 1936 e inviato speciale in Russia per seguire i processi stalinisti; sulla sua attività di sceneggiatore di film; sulle sue controversie con gli esponenti della resistenza anti-nazista «perché non prendeva posizione» (addirittura osò, con Drieu La Rochelle, fare un tour nella Francia di Vichy); sulle altrettanto urticanti controversie con il generale de Gaulle che arrivò a proibire la diffusione dei suoi libri nelle colonie; sulla sua vita a metà strada tra il dandy e l’avventuriero; sulle mille leggende relative alla sua scomparsa che lo fecero entrare nel mito – non per niente su di lui sono state scritte decine e decine di biografie pregne di aneddoti ed episodi spettacolari. Ma è necessario stringere la prospettiva selezionando quello che fa di Saint-Exupéry il caso letterario e biografico più interessante per quanti indagano la proposta filosofica ed esistenziale del Novecento a partire dalla martellata nietzscheana: «Dio è morto». 
 
Cittadella 
La mattina del 31 luglio 1944, a Borgo, a sud di Bastia, prima di salire sull’aereo che non avrebbe più fatto ritorno, Saint-Exupéry consegnò all’amico capitano Gavoille una cartelletta che conteneva alcuni taccuini, qualche foglio manoscritto e le registrazioni di un dittafono. Tutto quel materiale si trasformerà in 985 pagine dattiloscritte, pubblicate nel 1948 da Gallimard con il titolo Cittadella e destinate a diventare un caso letterario assai dibattuto: quel lavoro, che avrebbe dovuto prendere forma di poema, è un’opera incompiuta per ultimare la quale, a dire del suo autore, sarebbero occorsi ancora almeno 15 anni – e «forse non la terminerò mai», confidò a una amico. Si dovrà attendere il 1979 per vederla pubblicata, seppure in forma censurata: un terzo rispetto all’originale e con molti capitoli accorpati e tagliati. Si dovrà così attendere il 2017 per avere, con i tipi di Aga Editrice, la versione integrale in lingua italiana. 
I primi appunti di Cittadella sono datati 1936 ma, data l’architettura dello scritto che ha più di un nesso con il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, non è azzardato collocare il germoglio della prima idea nel 1926, ad Alicante, allorché Saint-Exupéry si apprestava a partire per il Sahara spagnolo: «Mi porto Nietzsche sotto il braccio. Mi piace infinitamente quel tipo. E questa solitudine. Mi stenderò sulla sabbia a Cap Juby e leggerò Nietzsche», scrive a Renée de Saussine, la sua Rinette amica del cuore. 
Se Nietzsche – che per curiosa coincidenza muore lo stesso anno in cui nasce Saint-Exupéry: quasi una staffetta, per chi vede un nesso tra i due – distilla il suo Zarathustra nella solitudine di Sils-Maria «a 6000 piedi sul livello del mare», Saint-Exupéry comincia a coltivare i germi del suo poema nella solitudine del deserto. La similitudine sostanziale dello stato d’animo emerge mettendo a confronto quanto si sa di Nietzsche con questa lettera scritta da Saint-Exupéry alla madre da Cap Juby, nel 1927: 
 
INVISO ALLA RESISTENZA FRANCESE E ANTI-NAZISTA, 
IL GENERALE DE GAULLE  ARRIVÒ PERSINO A PROIBIRE  
LA DIFFUSIONE DEI SUOI LIBRI  NELLE COLONIE 
 
«Vivo da eremita nell’angolo più sperduto dell’Africa, in pieno Sahara spagnolo. Un fortino in riva al mare, la nostra baracca a ridosso, e nient’altro per centinaia e centinaia di chilometri! Il mare, al momento della marea, ci bagna completamente e la notte, se mi appoggio alle sbarre della finestrella della mia prigione – siamo in territorio ribelle –, vedo il mare sotto di me così vicino come se fossi su una barca. Per tutta la notte sento le onde infrangersi contro il muro. 
L’altra facciata del forte dà sul deserto. L’interno è spartano. Un letto, cioè una tavola con del pagliericcio, un catino, una brocca per l’acqua. Dimenticavo gli accessori: una macchina da scrivere e i moduli dell’aerostazione. Proprio come la cella di un monastero. […] Ogni giorno regalo del cioccolato a una nidiata di piccoli arabi, maliziosi e incantevoli. Sono diventato una celebrità fra i bambini del deserto. Ci sono delle stupende fanciulle che hanno già l’aria di principesse indù e mostrano atteggiamenti materni. Siamo ormai vecchi amici. Il marabutto viene tutti i giorni a darmi lezione di arabo. Sto imparando anche a scriverlo: me la cavo già abbastanza bene. Il pomeriggio invito i capi mauri a prendere il tè. Ed essi ricambiano, invitandomi ad assaggiare il loro tè nelle tende a due km di distanza dal forte, in mezzo al territorio dei ribelli dove nessuno spagnolo è ancora stato. Ma io andrò ancora più lontano e senza rischiare nulla perché ormai i capi mauri mi conoscono bene. Disteso sul loro tappeto osservo, attraverso un lembo della tela, la sabbia calma, punteggiata di dune, il terreno ingobbito, i figli dello sceicco che giocano nudi al sole, il cammello legato accanto alla tenda. E ho una strana sensazione: non di distacco, non di isolamento, ma come di un gioco che passa». 
 
LA SUA OPERA PRESENTA MOLTI PUNTI DI CONTATTO 
CON LA RIFLESSIONE  FILOSOFICA DI NIETZSCHE 
 
Non è quindi difficile immaginare quanto questa atmosfera abbia influito sulla trama di Cittadella: in una zona imprecisata del Nordafrica un Caid berbero ammaestra il figlio che, avendone preso il posto dopo il suo assassinio, rievoca la gioventù trascorsa all’ombra del padre carismatico, del quale intende continuare l’opera. Il Gran Caid è colui che ha ricevuto dalla divinità il potere di creare; è il delegato di Dio, colui che affranca le coscienze sottomettendole all’ordinamento della comunità che intende stabilire. Saint-Exupéry immagina così una sorta di Zarathustra del deserto, intenzionato a trarre l’uomo dal vortice del nichilismo incombente attraverso una imprescindibile tavola di valori: attinti però, a differenza del profeta nietzscheano che invoca valori nuovi, a quelli arcaici e alla sapienza ad essi correlata. 
La questione metafisica, cioè la presenza di Dio come cardine della polis, è aggirata superando la «scommessa di Pascal»: conviene vivere come se Dio esistesse, perché così facendo si vive bene e, se Dio esiste, si conquisterà la grazia eterna. Saint-Exupéry va oltre, correlando la questione dell’esigenza dell’idea di Dio per tenere assieme l’impero con il legame tra gli uomini: «Che importa che Dio non esiste! Dio dà all’uomo il divino. La tua piramide non ha senso se non termina in Dio… Perché in un primo tempo Dio dà un significato al tuo linguaggio e il tuo linguaggio, se acquista significato, ti rivela Dio».  Perché «se non c’è nulla al di sopra di te non puoi ricevere nulla se non da te stesso. Ma che cosa puoi ricevere da uno specchio vuoto?».  
 
Il poeta-filosofo 
Ora, per rendere appena fruibile al lettore il senso-significato di Cittadella, occorrerebbe uno spazio che nessuna rivista può concedere. Sul tema, in Francia si è aperto un dibattito infinito e di altissimo livello, di cui in Italia si è avuto solo un pallido riflesso sulle pagine di Civiltà Cattolica nei primi anni Ottanta, riassunto da Saint-Exupéry: l’Impero dell’anima (Aga Editrice 2017), il volume che, insieme a Saint-Exupéry: metafore e citazioni (della stessa editrice), intende fornire un’introduzione allo scrittore francese, il cui pensiero misconosciuto viene così sintetizzato da uno dei suoi migliori esegeti, Jean-Claude Ibert: «Il pensiero di Saint-Exupéry è filosofico, ma talmente sottomesso alla poetica che sfugge ad ogni sistema, e dirige quella difficile operazione che consiste nel conglobare vita e conoscenza in un medesimo atto di creazione. Saint-Exupéry, a differenza di altri scrittori contemporanei che “subiscono” o hanno “subito” il mondo moderno, lo hanno “pensato”.  
È a questo titolo che si è innalzato spesso a livello di intellettuale dei più influenti filosofi di questo mezzo secolo, mentre con la stessa disinvoltura dei poeti più grandi penetrava in quell’universo ove il sensibile eccede l’intellegibile». Si capisce dunque perché il Saint-Exupéry romanziere, filosofo, intellettuale non abbia avuto in Italia la notorietà accademica e la fortuna editoriale che ha avuto in Francia: non essendo riconducibile ad alcuna ortodossia ideologica, né incasellabile nelle ortodossie religiose, con il suo modo di vivere e i suoi scritti si pone totalmente fuori dagli schemi e non è fruibile ideologicamente. Non si è fermato alla narrativa, come hanno fatto i contemporanei Drieu La Rochelle o Céline – il che ne ha permesso lo sfruttamento commerciale nonostante la scelta della «parte sbagliata» – ma, appunto, è andato oltre, sconfinando in ambito filosofico per proporre un modello di uomo e un’idea di Stato differenti dai canoni consueti, di cui i baroni dell’italica cultura si sono erti a guardiani. 
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