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Ecco perché l’integrazione degli
Ecco perché l’integrazione degli immigrati non può funzionare 
di Ninni Raimondi
 
Oggi si sente parlare con grande insistenza di post-verità, secondo argomentazioni che si pongono in continuità con la corrente di pensiero postmodernista in voga qualche anno fa. I postmodernisti sostenevano che, con la fine della modernità, si entra in una fase di radicale messa in discussione di tutte le grandi narrazioni. Questo sta a significare che non è più possibile fissare princìpi, mitologie e valori perché il terreno su cui si reggono si è fatto insicuro e vale soltanto la scelta individuale, mutevole e discontinua. Nessuna oggettività sovra-individuale è possibile, perché la forza della ragione scientifica ha prodotto dominio sulla biosfera e distruzione della vita da cui è necessario allontanarsi. In questo panorama di assenza di senso, tutto può acquisire significato e ogni cosa, ogni visione del mondo, ha uguale dignità e può avanzare pretesa di verità. 
 
Immigrati e comunità tribali 
Il postmodernismo ha comunque analizzato proficuamente una fase sociologica in cui le vecchie certezze, dopo la Seconda guerra mondiale e ancor di più con le proteste del ’68, si sono indebolite e nelle persone si è fatta strada la necessità di elaborare nuove forme di appartenenza. Da questo punto di vista il sociologo Michel Maffesoli ha parlato di «tribù urbane», volendo così indicare la comparsa di comunità contraddistinte da caratteristiche peculiari. Si tratta di un fenomeno emerso dall’insoddisfazione prodotta dall’individualismo moderno ed evidente nelle realtà urbane, espressione diretta del bisogno di soddisfare il senso di appartenenza innato nell’essere umano. Venute meno le certezze date per scontate, gli individui che abitano il mondo vuoto di oggi rivolgono le proprie aspettative di comunanza e solidarietà verso quei gruppi più o meno estesi che rappresentano un momento di condivisione semplice o complesso. Dai circoli culturali alle associazioni sportive, dalle riunioni di preghiera alle sezioni di partito, quelle che Maffesoli chiama tribù urbane assumono molteplici sfumature, ma la ricerca di senso che in esse si esprime è la medesima. 
 
Il sociologo francese Michel Maffesoli 
Il fatto antropologico che deve essere qui evidenziato con forza è il diffuso e persistente bisogno di un’identità comunitaria a cui tutti gli esseri umani aspirano. Si tratta di un fatto politico di primaria importanza e che conferma quanto affermato da Christopher Lasch: «Nessuno è senza passato, anche se la nostra società ci spinge a negarlo, nessuno ha carta bianca sulla propria identità»[1]. Nel momento in cui i caratteri qualificanti della comunità nazionale perdono di significato, quando il senso solidaristico della cittadinanza e la partecipazione attiva alla vita politica non vengono più percepiti come momenti determinanti un senso di appartenenza forte, allora le persone si organizzano a modo loro, fanno da sé e creano situazioni che ripropongono, in piccolo, forme di esistenza comunitaria. Senza voler idealizzare eccessivamente il dato sociologico in questione, le tribù urbane sono espressione di un frazionamento della realtà sociale e politica che manifesta un fatto drammatico ma al contempo altamente stimolante: la disgregazione delle vecchie identità, la loro dispersione e, per così dire, polimorfizzazione. 
Come ha correttamente affermato Roberto Mordacci, il postmoderno è una fase filosofica che può considerarsi oggi esaurita e che dunque non va sovraccaricata di significato o aspettative: «La diagnosi postmodernista circa la fine della storia appare definitivamente fuori gioco. Mutamenti troppo intensi e troppo veloci, troppo grandi e profondi stanno attraversando il mondo contemporaneo»[2]
 
NESSUNO È SENZA PASSATO, ANCHE SE LA NOSTRA SOCIETÀ  
CI SPINGE A NEGARLO, NESSUNO HA CARTA BIANCA SULLA PROPRIA IDENTITÀ 
 
Il postmodernismo tuttavia ha sviluppato alcune analisi della realtà che hanno aperto prospettive inattese sull’oggi. Dopo il postmoderno, infatti, non c’è un ritorno a certezze salde o a una razionalità universalmente accettata: ci si trova tutt’ora calati in una realtà pluralistica e frazionata in cui il senso della storia resta aperto. In fatto di potenzialità polemiche e conflittuali la realtà attuale non è meno problematica del passato, e anzi presenta dinamiche da non sottovalutare. La fine del postmoderno non lascia il posto a una razionalità pura ma a una non-razionalità che, invece, assume caratteri quasi mitici o religiosi nei suoi richiami alle identità ataviche. Il mondo delle tribù urbane «mette in opera un’altra logica rispetto a quella che ha prevalso dall’Illuminismo in poi. […] Parametri quali l’affettivo o il simbolico possono avere la loro razionalità propria»[3]
 
Tradizioni mutanti 
La divisione sollecitata dalle differenze tra gruppi di persone diventa ancora più evidente quando al fattore puramente estetico, occasionale o ricreativo subentra il senso di appartenenza culturale, etnico e religioso. Questo fatto diventa giorno dopo giorno più evidente con l’aumento del numero di immigrati extraeuropei nelle città italiane ed europee. Coloro che lasciano il loro Paese in modo legale o irregolare portano con sé un’eredità peculiare e dei caratteri ben marcati che agli internazionalisti di oggi piace immaginare come costruzioni artificiose senza alcun concreto valore di verità. Insomma per costoro le tradizioni non sono che il frutto di una costruzione arbitraria che può pertanto essere sempre messa in discussione, modificata se non annullata nel nome della cittadinanza universale. 
Coerente corollario di questo assunto è la volontà di riformare la legge sulla cittadinanza in un senso puramente spaziale, lo ius soli, alla luce del fatto che, se l’identità dei popoli non esiste o comunque è una semplice questione burocratica di caratteri fissati per convenzione e utilità pubblica, il passaggio a un diverso Paese si suppone non provochi alcuna frattura col passato, dal momento che si tratterebbe semplicemente di accettare i caratteri che per convenzione servono a integrare nella società di arrivo. Se l’uomo non si radica originariamente in un territorio fatto di cultura, riti e leggi specifiche e fondate in una lunga eredità, allora ogni uomo abita in fondo un non-luogo, una terra su cui è solo di passaggio, che non gli appartiene e a cui non appartiene; che può cioè abbandonare in ogni momento e in modo indolore[4]
Questa teoria risulta sempre più assurda e falsa, specie se si osserva con onestà quale significato politico assume oggi quel frazionamento di identità studiato in ottica ludica dai postmodernisti. Il fatto che più di tutti conferma la forza e la persistenza delle differenze culturali e delle identità etniche è la comparsa di consistenti comunità di stranieri, i quali tendono a separarsi dagli autoctoni per mantenere, in modo anche parziale e mutato, quelli che considerano i propri usi e costumi. Gli immigrati che si trasferiscono in un Paese lontano e molto diverso per storia, lingua, cultura, religione ecc. difficilmente si integreranno rinunciando alle proprie radici, ma piuttosto trasferiranno nei quartieri delle città di residenza una parte del mondo da cui provengono. 
 
GLI IMMIGRATI CHE ARRIVANO IN UN PAESE MOLTO DIVERSO PER STORIA,  
RELIGIONE E CULTURA DIFFICILMENTE SI INTEGRERANNO RINUNCIANDO ALLE LORO RADICI 
 
«Il neo-tribalismo consiste nella creazione di etichette, di categorie e di ambiti di interazione su base etnica all’interno del sistema urbano e produce una situazione di sostanziale apartheid culturale nella metropoli multietnica. Fra residenti e immigrati, così come fra gruppi di immigrati di diversa provenienza vi è contiguità senza interazione, se non sul piano dello scambio materiale. L’interazione sociale si sviluppa invece solo all’interno di comunità etnicamente omogenee, chiuse in se stesse, che perseguono una strategia di isolamento rispetto alle altre comunità di immigrati e ai residenti»[5]. Questo fatto è lampante quando si passeggia in alcune vie o quartieri di quelle città in cui il numero di stranieri è cresciuto significativamente in questi anni. Qui hanno fatto la loro comparsa negozi etnici, ristoranti e centri culturali che rappresentano i prolungamenti di un senso di appartenenza che per queste persone rimane vivo, reale, tangibile ed essenziale. 
Gli immigrati extraeuropei che si trasferiscono nel Vecchio Continente non sempre rinunciano a conservare le proprie radici, ma spesso le portano con sé e tendono a trasferirle in comunità di persone di simile origine. La nazionalità, il ceppo etnico, la religione giocano un ruolo chiave nella formazione di gruppi di persone accomunate dalle stesse radici, al punto che la tanto decantata integrazione viaggia con grande ritardo, dal momento che tra loro gli immigrati parlano la propria lingua, conservano la propria cultura e pregano il loro dio. Detto altrimenti: «La frontiera è qualcosa che gli immigrati portano con sé»[6]. I problemi riscontrati nelle classi a maggioranza di stranieri non devono pertanto stupire, non sono che un esempio tra i tanti possibili. Il sogno dell’integrazione, alla luce del persistere delle identità culturali e della forza solidaristica che animano, è una pia illusione quando si ha a che fare con popolazioni con le quali si ha poco o nulla in comune. 
 
La nuova sfida etnica 
La speranza del comunitarismo, secondo cui sarebbe stato possibile permettere l’esistenza di comunità differenziate all’interno di una nazione capace di ordinarle e governarle, è oggi negata dai fatti, poiché per un progetto simile sarebbero necessari numeri diversi dagli attuali, soprattutto occorrerebbe una crescita demografica degli autoctoni costante e che non mettesse in serio dubbio l’esistenza dei popoli europei negli anni a venire. Allo stato attuale della situazione bisogna invece fare i conti con una pressione demografica costante alle porte dell’Europa e all’interno dei suoi stessi confini. 
Questa pressione pone oggi, e porrà ancor più domani, seri problemi di convivenza perché, come notato diversi anni fa dall’antropologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt, la pressione demografica e il sovrappopolamento, specie se contrassegnati da marcate differenze culturali, sono due tra le più forti cause di conflitti sociali. «Se alla diversità culturale e religiosa sommiamo quella dei caratteri fisico-antropologici, l’integrazione può diventare difficile, soprattutto se gli immigrati arrivano a ondate in un periodo relativamente breve e hanno dunque la possibilità di formare comunità sempre più vaste unendosi ai connazionali già presenti. Queste comunità finiscono allora per autoemarginarsi dalla popolazione che le ospita, la quale, a sua volta, le emargina. Un’etnia che conceda l’immigrazione a un’altra non disponibile a integrarsi e presente con un grande numero di individui, cede la propria terra e in più limita le proprie possibilità di successo riproduttivo, perché il carico umano che un territorio può sostenere non è illimitato»[7]
 
L’etologo austriaco Irenäus Eibl-Eibesfeldt (1928-2018) 
Lo si vede già oggi nelle periferie abbandonate al decadimento e dove alla criminalità locale si sommano centri di accoglienza male organizzati, fuori norma e fonte di degrado e tensioni sociali. Naturalmente il «dovere dell’accoglienza» vale, secondo gli intellettuali e i politici «equi e solidali», solo per il Lumpenproletariat che abita lontano dalle vie «bene»; ma la realtà con le sue tensioni e i suoi problemi torna sempre a chiedere il conto. 
Si è fatto del modello americano un presunto esempio di integrazione riuscita, senza voler ammettere che gli Usa sono oggi più che mai divisi in ghetti e comunità autosegregate sia su parametri economici (le gated communities) sia su parametri razziali[8]. Le divisioni razziali in America sono oggi più vive che mai e il problema di una divisione tracciata sulla base di «nuove» identità fondate su vecchi parametri (colore della pelle, storia, cultura, religione) rischia di esplodere in ogni momento. Basti pensare alle devastazioni causate dalle masse di facinorosi del «Black lives matter». 
 
SI È FATTO DEL MODELLO AMERICANO UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE RIUSCITA,  
MENTRE GLI USA SONO OGGI PIÙ CHE MAI DIVISI IN GHETTI E COMUNITÀ AUTOSEGREGATE 
 
Alla luce dei problemi che emergono quotidianamente in Francia e Regno Unito, è lecito mettere in dubbio il successo dell’integrazione. Il sovrappopolamento non fa che esasperare le occasioni polemiche e accentuare le divisioni. Chi volesse evitare che si precipiti lungo la china di problemi già largamente emersi altrove, deve fare i conti con la realtà e realizzare che non è lo straniero in sé il problema, ma è la quantità inusitata e fuori controllo di maschi in buona salute a suonare sospetta, così come la crescita considerevole di imprese straniere sul suolo nazionale che fagocitano non solo guadagni, ma anche proprietà immobiliari. In questa situazione è dunque necessario uno sforzo da parte dello Stato per mettere ordine in un caos urbano che rischia di trasformarsi in un diluvio demografico a tutto svantaggio degli italiani e degli europei. Se non si vorrà scorgere la rilevanza storico-politica delle identità, il loro ritorno in forza sul palcoscenico della storia mondiale, allora si continuerà a sognare un’America che esiste solo nelle narrazioni del tempo della post-verità, quando cioè i fatti non hanno alcun significato e solo le convinzioni immaginarie di intellettuali e opinion makers hanno peso. 
 
Note: 
[1] C. Castoriadis – C. Lasch, La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, Elèuthera, Milano 2014, p. 31. 
[2] R. Mordacci, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino 2017, p. 80. 
[3] M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, Guerini Studio, Milano 2004, p. 215. 
[4] Cfr. G. Faye, Il sistema per uccidere i popoli, SEB, Milano 20172. 
[5] P. Scarduelli, Per un’antropologia del XXI secolo. Tribalismo urbano e consumo dell’esotico, Squilibri, Roma 2005, pp. 68-69. 
[6] M. Graziano, Frontiere, il Mulino, Bologna 2017, p. 82. 
[7] I. Eibl-Eibesfeldt, L’uomo a rischio, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 160. 
[8] Cfr. A. Coppola, Apocalypse Town, Laterza, Roma-Bari 2012; S. P. Huntington, La nuova America, Garzanti, Milano 2005. 
 
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