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Disinformazione
Disinformazione 
di Ninni Raimondi
 
Chi controlla i controllori? 
Ormai da tempo si sente parlare di disinformazione.  
Questo termine, nato e diffusosi nell’ambiente dello spionaggio e del controspionaggio, è ormai sulla bocca di tutti. Più volte gli organi di informazioni e le istituzioni hanno messo in guardia i cittadini contro le cosiddette fake news, notizie volutamente false che sarebbero diffuse in internet al fine di veicolare specifici messaggi e indirizzare così le scelte degli elettori in una precisa direzione. Il problema delle fake news è ormai argomento di discussione anche all’interno dell’accademia e lo studio di tale problema è diventato un vero e proprio campo di indagine scientifica. 
Che le notizie false siano circolate e continuino a circolare è un dato di fatto. Nella storia, si possono trovare numerosi casi di fake news che hanno avuto effetti anche importanti a livello mondiale: ci sono stati casi eclatanti, ormai noti anche al grande pubblico (si pensi agli effetti avuti sulla Borsa di Londra la falsa notizia della morte di Napoleone Bonaparte oppure alle conseguenze dell’annuncio di uno sbarco alieno da parte di Orson Welles alla trasmissione La guerra dei mondi); ma ci sono anche casi molto meno noti, che agiscono, diciamo così, in un microcosmo. È questa seconda categoria di fake news che ci interessa e che è oggi tanto discussa dai media e dagli esperti: piccole notizie, diffuse magari sui social network da utenti fittizi (cioè il cui profilo non è ricollegabile alla persona che effettivamente gestisce l’utente), che, prese singolarmente, hanno un peso più che relativo ma che considerate nel loro complesso influenzano, secondo gli analisti, l’opinione pubblica. 
 
I controllori 
Mettere in evidenza che il fenomeno delle fake news esiste non è un male; ma utilizzare la consapevolezza di questo fenomeno per legittimare, seppur implicitamente, un controllo “dall’alto” sulla rete è estremamente pericoloso e antidemocratico. Il problema delle notizie false ha infatti indotto diverse persone a sostenere che sia necessario disporre di organi di controllo sulle notizie diffuse sul web, cioè di organi che abbiano lo scopo di accertare se una notizia è o meno vera: una proposta simile sa di vera e propria censura, specialmente se si considera che, oltre al controllo, sono previste specifiche sanzioni. 
Chi fa una proposta simile si dichiara, implicitamente, portavoce della verità, un atteggiamento, questo, riduttivo e antidemocratico: riduttivo perché non tiene conto, volutamente o meno, di quanto sia complesso stabilire quale sia la verità; e antidemocratico perché la scelta delle notizie da analizzare sarebbe, inevitabilmente, arbitraria: la quantità di materiale (immagini, notizie, video, ecc.) pubblicato su internet ogni giorno è tale che una revisione sistematica e completa di tale materiale è semplicemente impossibile, con la conseguenza che i “controllori” (agenzie o istituzioni preposte) dovrebbero scegliere arbitrariamente le notizie da controllare, cadendo così nell’imparzialità. Le istituzioni hanno già manifestato l’intenzione di procedere in questa direzione: il 23 maggio, durante il primo giorno di elezioni europee, il portavoce della Commissione UE Margaritis Schinas ha pregato gli Stati europei di prendere provvedimenti contro un’«ondata di disinformazione tossica, di informazione non corretta e di narrativa dell’odio che prende di mira l’Europa», mentre pochi giorni prima Facebook, dietro segnalazione della ONG Avaaz, ha chiuso 77 pagine e gruppi che venivano «usate come armi» da partiti o gruppi di estrema destra ed euroscettici. 
 
Presunti imparziali 
Non è difficile sollevare dubbi sull’imparzialità di una simile decisione. In primo luogo, si deve considerare che la nozione “diffusione dell’odio razziale” è tal punto vaga da lasciare spazio a un alto grado di arbitrarietà: un’interpretazione ampia di tale nozione, o accusa, potrebbe spingere a prendere provvedimenti contro uno che pubblica una foto in cui si vede un immigrato che attraversa col rosso. In secondo luogo, non si può non rimanere stupiti quando si riscontra che i siti presi di mira da Facebook sono stati segnalati da una ONG: forse le ONG sono per votazione spirituale imparziali? Si sono fatte indagini su questa ONG? Chi sono queste persone? Quali posizioni politiche sostengono? Domande che risultano ancora più cogenti quando si osserva (altra curiosa coincidenza) che buona parte dei profili o gruppi italiani chiusi sostenevano due partiti, la Lega e il Movimento 5 Stelle, che, come è arcinoto, sono state più volte tacciate, sia da politici italiani che da politici stranieri (afferenti soprattutto agli organi UE), di populismo, di estremismo, di nazionalismo, e di altri epiteti che significano tutto e niente (ma che a causa di un preciso processo semantico hanno assunto una connotazione negativa). Non è strano che fra i siti segnalati non ve ne siano di legati a movimenti di estrema sinistra (i cui membri sono noti per la loro violenza), a gruppi filoeuropei, a gruppi legati all’alta finanza, ecc.? Anche qui, un’altra strana coincidenza. 
 
Quali norme? 
Il caso di Facebook la dice lunga sul controllo da parte dei grandi gruppi dell’informatica sulle informazioni che gli utenti scambiano. A volte si dice che la rete è anarchica, perché non vi sono limiti prestabiliti alle informazioni che si possono diffondere o trovare; ma rischia anche di essere  dittatoriale (o oligarchica), dal momento che tutto ciò che circola in essa in essa rimane (rimane traccia di tutto) e che chi detiene il controllo dei bacini di informazioni della rete (Google, Facebook, ecc.) ha accesso incontrastato alle informazioni ivi contenute. E non solo: i grandi gruppi possono, approvandoli al loro interno (coinvolgendo gli opportuni organi di controllo, si intende), prendere provvedimenti o prevedere sanzioni ad hoc, che possono svincolarsi rispetto a ciò che la normativa nazionale o internazionale prevede, dimostrandosi in taluni casi troppo indulgenti e in talaltri eccessivamente punitivi. In breve, la situazione normativa per quanto riguarda internet è tutt’altro che chiara e bisogna evitare che questo dia adito ad atteggiamenti da sceriffo da parte dei colossi informatici (che, come tutti, perseguono i loro interessi). 
Bisogna considerare inoltre che l’atteggiamento allarmistico dei media e delle istituzioni nei confronti del fenomeno della disinformazione ha come conseguenza un sempre maggiore consolidamento degli organi di informazione “ufficiali”: una volta che il germe del sospetto è stato diffuso fra gli utenti di internet, cioè una volta che si è veicolato il messaggio secondo cui qualsiasi informazione potrebbe essere falsa, allora gli utenti (che sono molto sensibili al problema delle fake news: cfr. Fake news worrings “are growing” suggests BBC polls, BBC News, 22 settembre 2017) saranno propensi a dare credito assoluto alle notizie ufficiali (veicolate dagli organi di informazione ufficiali: giornali nazionali, canali televisivi, ecc.) e a prendere con le pinze tutte le altre notizie; ma in questo modo, a lungo andare, si crea una dittatura dell’informazione ufficiale, che è pericolosa soprattutto se si considera che, come è stato dimostrato (cfr. la classifica 2018 di Report Sans Frontières), l’Italia è un paese dove la libertà di stampa è molto limitata. 
 
Le presunte ingerenze straniere 
Le campagne mediatiche e i continui allarmi lanciati dalle istituzioni nazionali e internazionali per far fronte al fenomeno della disinformazione (la diffusione su internet di informazioni capziose o false allo scopo di veicolare i comportamenti e le credenze degli utenti in una precisa direzione) hanno come conseguenza il rafforzamento della fiducia negli, se non addirittura l’esclusività degli, organi di informazione ufficiali (televisioni, giornali, ecc.) e la legittimazione, seppur implicita, di un atteggiamento fortemente censorio e punitivo nei confronti delle notizie veicolate dal web. Questo è particolarmente grave: l’idea che sia necessario – come si sta già facendo – attuare programmi di controllo delle informazioni ha un sapore fortemente antidemocratico; inoltre, attribuire sempre maggiore fiducia agli organi di informazione ufficiali può risultare fuorviante nel momento in cui si tiene conto che l’Italia presenta notevoli criticità per quanto riguarda la libertà di stampa. 
 
Le cellule russe 
Al di là di queste considerazioni, bisogna tenere conto del meccanismo di psicologia sociale che soggiace alla retorica della disinformazione, un meccanismo che è stato ampiamente utilizzato durante tutta la Guerra Fredda per colpire e screditare il comunismo (sovietico) e per instillare nella popolazione un’autentica paranoia, che ha presto portato a un vero e proprio isterismo collettivo. Durante la Guerra Fredda, i servizi segreti statunitensi convinsero la popolazione, attraverso specifiche campagne propagandistiche, che l’Occidente (gli USA ma anche l’Europa non comunista) fosse pieno di cellule sovietiche che avevano lo scopo di scatenare all’improvviso, dopo aver tessuto un’adeguata tela sotterranea, una rivoluzione comunista che avrebbe dato all’URSS e all’ideologia comunista il dominio sull’Occidente. Nacque così, anche grazie alla letteratura e al cinema di spionaggio (si pensi ai libri di Ian Fleming e di John Le Carré, per citare due autori paradigmatici), la fobia sociale del complotto comunista, fobia che, se non ingiustificata, era del tutto esagerata: come è ormai noto, se è vero che durante i quarant’anni di guerra fredda i servizi segreti russi e statunitensi (i secondi appoggiati dai servizi europei) continuarono a battersi per il controllo delle menti e delle economie, è anche vero che le cellule comuniste presenti sul territorio americano e in Europa non avevano assolutamente la forza di organizzare e imporre una rivoluzione mondiale (e di ciò l’URSS era perfettamente conscia, dato che già dopo il secondo conflitto mondiale aveva abbandonato l’idea della rivoluzione diffusa per assumere, invece, un atteggiamento difensivo e di chiusura); la retorica delle cellule comuniste era necessaria per mantenere il regime capitalista e per spingere i cittadini verso specifiche scelte elettorali (tale retorica era costantemente usata nelle campagne presidenziali statunitensi). 
Oggi quella retorica sembra essere resuscitata, solo che a differenza che negli anni ’50-’90 non si parla più di cellule comuniste (visto che il comunismo sovietico non esiste più) ma di cellule informatiche russe; per il resto, nulla è cambiato: se prima, stando a ciò che diceva la propaganda statunitense, le cellule comuniste facevano circolare volantini, captavano informazioni, tessevano relazioni umane o istituzionali, ecc. al fine di progettare una rivoluzione comunista mondiale, oggi le cellule informatiche fanno circolare messaggi sul web, captano informazioni non nei bar ma (più o meno legalmente) su internet, tessono relazioni informatiche o virtuali, ecc. al fine di favorire gruppi o partiti di estrema destra e antieuropeisti la cui ascesa sarebbe conveniente, secondo certi analisti, per la politica estera russa. 
 
Il Russiagate 
Questo, almeno, è ciò che emergerebbe nell’ambito delle indagini sul Russiagate e sulle ingerenze russe nelle elezioni europee. Sin dall’ultima campagna presidenziale statunitense è stata avanzata l’ipotesi che la Russia abbia agito attraverso il web per pilotare le elezioni statunitensi, cioè per pilotare le scelte politiche degli utenti verso il Partito Repubblicano e in particolare verso Donald Trump (poi eletto Presidente USA). L’esistenza di interferenze informatiche russe nella campagna presidenziale è stata dimostrata ma, con buona pace dei democratici, la tesi, subito ventilata dalle opposizioni, secondo la quale l’attuale Presidente USA sarebbe stato non solo a conoscenza ma avrebbe anche favorito tali ingerenze non è stata provata, come risulta dalle indagine del Procuratore Speciale Mueller, il quale, nel suo rapporto finale sul caso ha affermato che «il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso [il] crimine, ma neanche lo esonera» (conclusione strana, se si considera il principio di innocenza fino a prova contraria). La conclusione delle indagini è stata salutata con favore dai repubblicani, che hanno gridato alla caccia alle streghe da parte dei democratici; tuttavia, la tesi dell’ingerenza russa è diventata ormai un fatto assodato. 
Il caso Russiagate sembra riguardare anche l’Europa, come dimostrerebbero i dati raccolti dal sito americano FiveThirtyEight.com: stando alle analisi di questo sito, esisterebbero alcuni soggetti informatici, chiamati troll, riconducibili all’International Research Agency, agenzia informatica con sede a San Pietroburgo avvolta nel mistero ma quasi sicuramente legata ai servizi segreti russi, che diffonderebbero sul web messaggi e video provocatori e capziosi (talvolta falsi) il cui scopo sarebbe di avvicinare gli utenti a posizioni xenofobe, antieuropeiste e populiste, favorendo più o meno direttamente gruppi di estrema destra e i due partiti italiani della Lega e del Movimento 5 Stelle, la cui ascesa politica sarebbe, dicono gli esperti, conveniente per il Cremlino. La denuncia di questo complotto informatico è arrivata non soltanto dal sito statunitense appena citato ma anche dalle dichiarazioni di due ex troll pentiti e dalla giornalista Lyudmila Savchuk, la quale si sarebbe infiltrata per due mesi e mezzo in una “fabbrica di troll” per poi svelarne il funzionamento al mondo (Savchuk parla di grandi stanzoni pieni di PC in cui lavorano decine di persone, sezioni, uffici, riunioni, ecc.). 
 
Quale complotto? 
Non si può negare l’esistenza di questi troll, che sono stati individuati e classificati; né si può negare che questi soggetti informatici diffondano messaggi che veicolano specifici contenuti politici: questi sono fatti. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’accettare supinamente la tesi di un complotto informatico russo; è molto più saggio, invece, assumere un atteggiamento prudente se non addirittura diffidente. Tale atteggiamento è dettato dalla consapevolezza che, come dimostrano gli studi di storia contemporanea, quando ci si muove nell’ambiente dei servizi segreti si è su un terreno precario e confuso, che rende qualsiasi tesi, conclusione o anche soltanto ipotesi fragile e di difficile verificazione (o falsificazione) e che può far apparire una cosa come il suo esatto contrario. Nel caso in questione, partendo dalla consapevolezza che denunciare un complotto a favore di qualcuno significa, specialmente se si dimostra che quel qualcuno è a conoscenza del complotto o che addirittura lo favorisce, screditare quel qualcuno, non si può escludere che la denuncia dell’attività informatica russa non possa essere un’operazione di qualche servizio segreto che ha lo scopo di screditare quei partiti e quelle posizioni politiche che sarebbero favoriti dall’attività dei troll russi. In tal caso, non esisterebbe alcun complotto informatico russo o, per essere più chiari, esisterebbe soltanto come invenzione da parte di qualche servizio segreto antirusso. Si badi: non si sta dicendo che è così; si sta semplicemente sottolineando che nel mondo dei servizi segreti (e anche di internet) tutto è possibile. 
 
L’ipotesi che la denuncia dell’ingerenza informatica russa nelle elezioni presidenziali statunitensi e nelle elezioni europee potrebbe essere parte di un’operazione condotta da qualche servizio segreto al fine di screditare i soggetti (Lega e M5S in Italia, Donald Trump negli USA) che sarebbero favoriti da tale complotto. Questa tesi non può essere però sostenuta, perché manca la benché minima prova per sostenerla. Esistono tuttavia alcuni interrogativi, alcuni aspetti della cospirazione russa che meritano attenzione e che devono essere considerati, se non altro per dare a tale cospirazione il giusto peso. 
 
In primo luogo, è bene domandarsi quanto grave sia la presunta cospirazione informatica, vale a dire quanto peso effettivamente abbia l’attività dei troll russi sulle scelte politiche degli utenti del web. Ad un esame superficiale, il numero di messaggi lanciati da queste entità informatiche fa alzare le orecchie; ma è sufficiente considerare il numero esorbitante di messaggi che ogni giorno circolano in rete per rendersi conto che il loro peso è quasi irrilevante (così come era quasi irrilevante il peso che avevano i volantini comunisti o gli incontri clandestini in qualche scantinato negli USA durante la Guerra Fredda). Sostenere che la Russia possa significativamente indirizzare le sorti della politica europea attraverso queste cellule informatiche (o virtuali) è semplicemente un errore di giudizio, come lo era assumere che gli entusiasmi di alcuni ristretti gruppi comunisti negli USA degli anni ’50 (e ancor più in seguito) potessero portare alla rivoluzione mondiale (il grande sogno di Lenin ma già non più di Stalin): l’allarmismo nei confronti del complotto comunista era parte di una specifica propaganda anticomunista, una propaganda efficace (come dimostra l’accettazione passiva da parte degli statunitensi della cosiddetta caccia alle streghe, avviata dal Senatore anticomunista Joseph McCarthy), perché basata sull’assunto del parlamentare anticomunista Richard Crossman che «il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda». 
 
Questo è ancor più vero se si considera ciò che in psicologia viene definito il bias (o pregiudizio) della conferma, il meccanismo psicologico tale per cui le persone, poste di fronte a diverse informazioni, tendono a selezionare e considerare come rilevanti quelle che confermano le loro credenze già acquisite. Gli studi sul bias della conferma mostrano che un individuo che ha specifiche credenze manterrà tali credenze o addirittura le rafforzerà anche se messo di fronte a evidenze che le disconfermano. Nel caso in questione, ciò significa che le immagini e i messaggi provocatori lanciati dai troll non avrebbero alcuna influenza su coloro che hanno credenze diverse rispetto a quelle che tali messaggi e immagini veicolano, mentre chi già assume posizioni compatibili con quelle cui le informazioni lanciate dai troll inducono non farebbe che rafforzare le sue credenze: quindi, un video, per esempio, in cui si vedono dei migranti compiere degli atti violenti non indurrebbe né “convertirebbe” un elettore proimmigrazione a un atteggiamento meno accogliente, mentre rafforzerebbe le perplessità di chi già nutre posizioni più critiche nei confronti di tale fenomeno. Stando così le cose, la cospirazione informatica organizzata dalla Russia, che deve essere costata un bel po’ di soldi e di fatica, non avrebbe alcun esito significativo, dal momento che non muterebbe quasi per nulla lo status quo (al più, potrebbe esacerbare le avversità fra le fazioni politiche): insomma, soldi spesi per niente; forse è perché i servizi segreti russi hanno dimenticato di chiedere la consulenza di uno psicologo? O forse, quando l’operazione è stata pianificata, non ce n’era uno disponibile? 
 
L’analisi delle reazioni suscitate dalle rivelazioni sull’ingerenza russa mette in luce un paradosso, che sussiste quando si considera, da una parte, l’accondiscendenza con la quale non soltanto gli esponenti delle fazioni politiche avverse a Trump e a Lega e M5S (il PD ha addirittura chiesto l’istituzione di un’apposita commissione di inchiesta parlamentare per indagare sulle ingerenze russe) ma anche i membri del mondo intellettuale, che per la maggior parte non nutrono simpatie verso tali entità politiche, hanno accolto le rivelazioni sulla cospirazione russa e, dall’altra, l’atteggiamento ipercritico degli intellettuali nei confronti della teoria del complotto: ormai da diversi decenni la teoria del complotto, intesa come il meccanismo soggiacente alla creazione delle cosiddette teorie cospirative (che hanno avuto e hanno un peso importante nel veicolare l’opinione pubblica), è oggetto di studio approfondito da parte degli intellettuali, che hanno maturato rispetto a tale fenomeno un atteggiamento che è insieme di snobismo e di ipercritica; come mai, allora, lasciano che una teoria cospirazionista come quella del Russiagate, che recupera molti stereotipi della teoria del complotto classica (il grande manovratore, le cellule infiltrate nella società civile, ecc.) si diffonda senza nemmeno mettere in discussione, perlomeno sui media ad alta diffusione, tale teoria, senza sottolinearne i punti deboli? Per rispondere a tale domanda sarebbe necessario più spazio di quello di cui qui disponiamo ma la risposta può essere tranquillamente sintetizzata: perché gli intellettuali (italiani e non solo) stanno sempre dalla parte del potere; e siccome il potere è ancora rappresentato, per quanto riguarda la politica estera italiana, dagli USA, gli intellettuali non hanno interesse a mettere in discussione le rivelazioni sul Russiagate. Si può inoltre aggiungere che l’atteggiamento ipercritico degli intellettuali nei confronti delle teorie cospirative va a favore dell’establishment politico-finanziario: condannare come teoria cospirativa, quindi come idiozia, qualsiasi tesi che sostenga l’esistenza di gruppi di potere forti che hanno, seppur nascostamente, un peso rilevante nell’indirizzare la politica e la finanza del mondo (si pensi al gruppo Bilderberg) significa appoggiare, se esistono, tali gruppi, permettere loro di agire senza essere disturbati. 
 
Al di là di queste considerazioni, permangono alcune domande: non è curioso che i troll individuati e denunciati veicolino posizioni populiste e antieuropeiste, mentre nessuno dei soggetti denunciati difenda posizioni opposte, di estrema sinistra o posizioni filoeuropee? Vogliamo forse credere che i gruppi sovversivi di sinistra o legati all’ambiente dell’anarchismo non utilizzino il web per veicolare messaggi dal forte contenuto emotivo? E non è curioso che questo scandalo sia scoppiato in un contesto politico nel quale i cosiddetti partiti populisti stanno sempre più prendendo piede, minacciando così gli equilibri di potere prima esistenti? Oltre a questi interrogativi (che mettono in luce, lo ripetiamo, coincidenze prodigiose), altri bisogna porsene quando si considera la facilità con cui l’ingerenza russa è stata smascherata: possiamo ragionevolmente supporre che i servizi segreti russi siano così sciocchi da farsi beccare con le mani nel sacco? Che i loro sistemi di difesa siano così deboli che un sito come FiveThirtyEight.com (sito legato a doppio filo al New York Times, quotidiano liberal che ha esplicitamente sostenuto Hilary Clinton alle ultime elezioni presidenziali statunitensi) possa non soltanto svelare la loro attività ma anche ricondurre a loro tale attività o che una giornalista, per quanto competente, come Lyudmila Svchuk possa infiltrarsi sotto copertura in una “fabbrica di trolls” e svelare al mondo il loro funzionamento (stanze piene di PC con persone che lavorano senza tregua, sezioni, uffici, ecc.) oppure, ancora, che collaboratori all’attività russa, come l’informatico Marat Mindiyarov, possano andarsene in giro a rilasciare interviste svelando i misteri di questo complotto? Non è curioso che i media dispongano di tutte queste notizie? E l’immagine del grande ragno informatico che tesse la sua tela sul mondo, del grande burattinaio (Putin, in questo caso) che muove gli elettori come se fossero le sue marionette, del grande occhio che spia tutto, non ci ricordano le immagini utilizzate nella propaganda antisemita, dove la Russia era sostituita con la comunità ebraica e Putin con qualche ebreo dal naso aquilino?  
Certo, è possibile che i membri dei servizi segreti russi abbiano bevuto troppa vodka; o è possibile, invece, che sia chi crede al complotto ad averne tracannata un po’ troppa. 
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