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L’aritmetica per capire noi, l’A
L’aritmetica per capire noi, l’Africa e il mondo arabo-islamico 
di Ninni Raimondi
 
Ho sempre sostenuto che uno dei fattori di indebolimento dell’Europa sia un’eccessiva ed errata autocritica del proprio passato, specialmente quello attinente alla sua spiritualità e alla sua espansione, interpretata, quest’ultima, secondo una critica marxista, esclusivamente come volontà di potenza e sfruttamento, e non, invece, come vis civica. 
Non intendo difendere a tutti i costi il colonialismo (sulla base dell’esperienza vissuta in paesi già colonizzati, ne ho già criticato gli aspetti riconducibili al positivismo), ma mi preme tuttavia evidenziare come esso non possa essere considerato solo una iattura. 
Proviamo a schematizzare il processo che ci ha portati a porci in condizione di mora, sconfinata in un’ipocrita piaggeria, nei confronti del mondo arabo-islamico e del continente africano, per cui ci sentiamo colpevoli/debitori nei loro confronti. Così brutti sporchi e cattivi da sentirci in dovere di levare quotidianamente peana di scuse nei confronti di arabi e africani. 
 
Mondo arabo-islamico 
Nei confronti degli arabi e dei musulmani quel nostro senso di colpa ha due cause: 
un condizionamento cultural-modaiolo risalente alle «lettres persanes» di illuministica memoria ci ha convinti che la civiltà arabo-islamica fosse più civile della nostra (madornale errore di valutazione storica); tale condizionamento, complice l’ideologia «falsa e bugiarda» si è saldato con la hybris anti-cattolica nata con la riforma protestante e consolidatasi, ampliandosi, con l’illuminismo, determinando uno zoccolo di complessi di inferiorità culturale nei confronti di quello che all’epoca era di moda: l’Oriente e il suo folclore; 
il colonialismo di marca positivista prima e i tradimenti perpetrati durante la Prima Guerra Mondiale nei confronti delle popolazioni arabe del Medio Oriente poi, hanno determinato un duro zoccolo di complessi di colpa rinverdito dall’impiego delle popolazioni colonizzate come carne da macello durante la Seconda Guerra Mondiale, specialmente da parte dell’esercito francese. 
Se la prima causa enunciata è totalmente falsa, la seconda qualche addentellato con la realtà lo ha, ma tale complesso di colpa dovrebbe riguardare solo ed esclusivamente i francesi e gli inglesi, sicuramente non va esteso all’orbe cattolico. 
E per di più, può essere ribaltato sulle spalle del «più civile» mondo arabo-islamico tirando in ballo le atrocità commesse dalla pirateria moresca nel Mediterraneo, la quale, debellata con l’invasione di Algeri nel 1830 ad opera delle truppe francesi, ha catturato nel Mare Nostrum qualche milione di schiavi che sono stati messi in vendita sui mercati di Tunisi, Algeri e Tlemcen (circa un milione dei quali è stato riscattato dalle organizzazioni caritatevoli della Cristianità). 
Per cui, cercando di essere il più razionali possibile, a titolo di paradigma, si potrebbe impiegare un’operazione aritmetica per calcolare la realtà del reciproco debito storico, ossia: 
 
(a debito) nostri inganni e sfruttamenti vari –  
(a credito) nostro reiterato complesso di colpa – 
(a credito) falso complesso di inferiorità culturale= 
 
nostro debito storico culturale (0) 
Il debito storico culturale del mondo arabo islamico potrebbe essere rappresentato dalla seguente operazione aritmetica: 
(a debito) Sopravalutazione del primato civile e culturale + 
(a debito) assenza di senso di colpa per le soperchierie + 
(a debito) propensione a metterci in mora + 
(a debito)revanscismo = 
 
loro debito storico culturale (+ X) 
Ergo, smettiamo di fare continuamente il bidet alla nostra coscienza, perché, così facendo, continuiamo a coltivare in noi insensati sensi di colpa e alimentare in loro un altrettanto insensato revanscismo.    
 
Mondo africano 
Nei confronti degli africani quel nostro senso di colpa ha una sola causa e una serie di fake-fault: 
Visione positivista della vita che ha giustificato un colonialismo a volte dai tratti disumani (attutito solo dall’etica cattolica, di cui erano improntati i colonizzatori); non bisogna tuttavia esagerare con un’analisi negativa del fenomeno, a titolo d’esempio riporto un commento di un amico marocchino, il quale un giorno mi confidò: “i francesi ci hanno oppressi e sfruttati costringendoci a sopportare la loro spocchia; ci siamo liberati di loro dopo una lotta di indipendenza sanguinosa anche se molto meno traumatica di quella algerina e con ricadute sul futuro del nostro paese molto meno disastrose… ma la loro dominazione non può essere considerata solo una iattura, senza di essa adesso noi non avremmo quegli “acquis” che costituiscono la ricchezza del mio paese… Conosci un marocchino che serbi rancore per il Maréchal Lyautey? A Casablanca c’è addirittura un apprezzato liceo francese a lui intitolato e nel cortile del Consolato di Francia, ben visibile dalla piazza più importante della città, campeggia addirittura la sua statua equestre! È la storia amico mio! ci lascia sempre dei doni, basta saper farli fruttare! 
Fake-fault: 
Lo schiavismo. È stato largamente praticato e in maniera ben più ampia dalle popolazione arabo-islamiche e dalle popolazioni africane stesse nei confronti di tribù rivali senza che questo suscitasse un senso di colpa (lo stesso Voltaire, l’anticattolico filosofo della égalité, risulta essere stato azionista in una società che si occupava di tratta di schiavi). 
Sfruttamento di manodopera e materie prime. Lo sfruttamento effettivamente c’è stato, ma ha lasciato un tesoro di strutture e know-how suscettibile di facilitare la vita degli indigeni, ma che le leadership africane non hanno saputo/voluto sfruttare. 
Il sottosviluppo. Non è attribuibile all’oppressione dei coloni fetenti, bensì esclusivamente alla policy delle classi dirigenti africane che preferiscono “chiagnere” e scucire aiuti umanitari. 
Per cui, cercando di essere il più razionali possibile, a titolo di paradigma, si potrebbe impiegare un’operazione aritmetica per calcolare la realtà del reciproco debito storico, ossia: 
 
(a debito) Errato nostro complesso di superiorità culturale che ha generato un sordo razzismo + 
(a debito) colonialismo e sfruttamento di manodopera e materie prime – 
(a credito) lascito giuridico e strutturale – 
(a credito) nostro reiterato senso di colpa per il passato – 
(a credito) continui aiuti umanitari = 
 
nostro debito storico culturale (0) 
Il debito storico culturale del mondo africano potrebbe essere rappresentato dalla seguente operazione aritmetica: 
(a debito) stagnazione attendista   + 
(a debito) incapacità di far fruttare il lascito + 
(a debito) continua nostra messa in mora mirata a scucire aiuti  = 
loro debito storico culturale (+X) 
 
Due conti della serva possono aiutarci a ristabilire le reciproche posizioni. Ovviamente si tratta di operazioni aritmetiche che vogliono solo rimandare a quei diagrammi non analitici ma dimostrativi, che spesso, risultando spropositati nelle dimensioni, danno un’idea immediata della realtà. 
Le farlocche (ma non tanto) addizioni e sottrazioni di cui sopra, le ho imbastite per aiutarci a recuperare la verità della nostra storia troppo spesso inquinata da gratuite auto-ammende dal sapore rosso-rivoluzionario (sovietico, cinese, cambogiano… fa lo stesso) e a ribadire, coraggiosamente, la verità, a fronte di una damnatio memoriae che ci rende orbi delle nostre glorie e inventa di sana pianta glorie altrui. Siamo un «popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori» e tolleranti ex colonizzatori… un semplice Calendario Atlante De Agostini degli anni ’30-40 dello scorso secolo, in cui sono riportate le infrastrutture che i coloni italiani hanno lasciato nei paesi dell’Africa Orientale, già appartenenti all’Impero, fa capire più di ogni stupida analisi progressista sul colonialismo, quanto quello italiano sia stato un elemento di civiltà. 
Non siamo stati così tanto cattivi come ci auto-accusiamo e loro non sono stati così tanto buoni e civili come andiamo cianciando. 
 
 
    
 
L'Ascaro 
Per noi parla l’ascaro somalo della foto, il quale nel 1993, vecchietto e malandato, si è presentato alle nostre truppe appena giunte a Mogadiscio qualificandosi per quel che era: uno di quei fedeli ascari (della fascistissima canzone “me ne frego”) (1). 
Fu subito adottato. Lo ripulirono, gli tagliarono i capelli, lo vestirono con una uniforme un po’ improvvisata, gli diedero un vecchio moschetto, allestirono per lui una tendina da campo all’interno della base, gli diedero un nome di battaglia: Sciré. 
Fu anche presentato, reperto storico vivente, a un’autorità militare in visita al reparto… Sciré, senza esitazione, come se fosse la cosa più naturale, si irrigidì sull’attenti, fece un perfetto saluto romano e urlò viva il Duce e viva il Re! E da quel momento riprese ad essere quel fedele ascaro che era stato e che per una sessantina d’anni non aveva disperato di veder tornare quelli che, secondo la vulgata post-bellica, erano i cattivi colonizzatori. 
 
Note 
(1) Nella canzonetta dai toni goliardici  «me ne frego», vi è una strofa che dice «che strano, c’é un ascaro che è allegro, è negro ma parla in italiano e per far veder che parla bene, proprio come si conviene, ripete a perdifiato tutto il dì me ne frego, non so se ben mi spiego, me ne frego, fo’ quel che piace a me» 
 
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