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Il 25 Aprile: Orrori rossi in te
25 Aprile: Orrori rossi in tempo di pace  
di Ninni Raimondi
 
Il femminicidio è una grave piaga della società contemporanea, epifenomeno di un retaggio culturale che nei secoli legittimò gli abusi maschilisti ma anche, o forse soprattutto, di una generale inaudita recrudescenza di belluina violenza sociale che miete vittime tra genitori anziani come tra bambini in culla. In Parlamento si sta cercando di dare una risposta legislativa al fenomeno con la nuova legge sul Codice Rosso in difesa delle donne che, però, come la precedente normativa sullo stalking,  rischia di rivelarsi solo un vacuo tentativo di smorzare gli effetti, a volte davvero imprevedibili, più che una reale soluzione per affrontare le vere cause. Se diamo uno sguardo alla nostra storia, inoltre, scopriamo purtroppo che il femminicidio è antico quanto la libertà d’Italia, 
 
Violentate anche le vergini come ai tempi di Nerone 
Tutti oggi si scandalizzano per episodi che balzano sulle prime pagine, a volte senza nemmeno conoscere il vortice di tensioni e violenze psicofisiche reciproche che ha portato ad un aggressione o peggio ad un omicidio, ma pochi s’indignano per le stragi di donne civili compiute dopo il 25 aprile 1945 dai partigiani liberatori e rimaste quasi tutte senza giustizia ed occultate nell’oblio storico: una delle rarissime lapidi in memoria di una vittima, quella per la 13enne Giuseppina Ghersi di Savona, è stata vandalizzata di recente da un vindice odio mai sopito che nessuno persegue né punisce come meriterebbe. Ma di casi simili al suo ce ne sono decine, centinaia… Secondo lo storico e giornalista Gian Paolo Pansa furono  2.365 le vittime. Si tratta di uno dei femminicidi più vergognosi d’Italia: un ricordo che, certamente, crea un po’ d’imbarazzo tra le stesse femministe, nella maggior parte dei casi di vocazione comunista e quindi magari figlie, sorelle, nipoti di coloro che quei crimini li perpetrarono con efferatezza: aggiungendo alla sanguinaria violenza omicida anche la sevizia e l’onta eterna dello stupro. 
 
Come ai tempi di Nerone le vergini cristiane venivano deflorate dai gladiatori prima di essere uccise, come nella ignominiosa guerra di Bosnia le donne furono selvaggiamente violentate per giorni prima di essere sgozzate (o costrette a partorire il figlio dello stupro), anche nell’Italia liberata avvennero simili scempi. Con alcune sostanziali differenze: ai tempi di Roma vigeva una tirannide, in Bosnia c’era una cruenta guerra etnica, nel nostro paese, invece, si era in tempo di pace: il dittatore, il duce Benito Mussolini era infatti stato giustiziato il 28 aprile 1945, le forze militari fasciste si erano arrese, quelle tedesche si erano ritirate. L’Italia era stata liberata dall’occupazione il 25 aprile 1945. Ma proprio il mese di maggio fu uno sei più sanguinari e ferali tanto che il 7 maggio, ricorre l’anniversario della morte di ben quattro donne trucidate dagli orrori rossi in tempo di pace. La memoria ritorna alla provincia di Cuneo, seguendo la china dei racconti di un giornalista che da bambino andava ad assistere ai processi ai “neri” per vedere i “cattivi” puniti; uno storico che solo dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, ha narrato il suo viaggio nella Seconda Guerra mondiale attraverso il libro di alto valore storiografico “Il sangue dei Vinti” di Gian Paolo Pansa. Molteplici aneddoti, che giungono quindi da un ricercatore col cuore partigiano, raccontano di semplici civili, rapiti in casa all’improvviso da squadriglie di giustizieri improvvisati, a volte seviziati, poi uccisi; e donne con la sola colpa di presunti e mai provati collaborazionismi: bastava l’odore del sospetto a sancire la morte che giungeva persino benedetta quando era immediata. Ora alle vittime di questo immane femminicidio nascosto dalla storia vogliamo rendere un poco giustizia ricordando il loro martirio. A volte anche in nome di Gesù Cristo dinnanzi ai quei guerriglieri della Resistenza in larga parte atei e capaci di scegliersi Satana come nome di battaglia.. 
 
Michelina, 12 giorni di violenze feroci 
Non fu immediata per Francesca G., 42 anni, e sua figlia Michelina di 20, di Borgo San Dalmazzo, in quella provincia Granda di Cuneo dove la guerriglia tra partigiani e fascisti-tedeschi fu asperrima come in tutte le zone prealpine. Furono prelevate di casa il 29 aprile insieme al marito Giuseppe G. A difenderli non bastò nemmeno la circostanza che loro figlio Biagio morì fucilato dalle Brigate nere in quanto… partigiano! Michelina faceva la dattilograva saltuaria per guadagnare qualche soldo nei tempi duri della guerra, la sua colpa fu farlo per un capitano della Polizia militare della Littorio. Il 29 aprile i carnefici entrarono nella loro casa, portarono fuori il padre e la madre insieme a lei: il genitore fu subito giustiziato, le due donne furono rapate a zero e poi riportate in casa «per essere violentate a turno da una banda partigiana. Questa tortura andò avanti per qualche giorno» scrive Pansa. Il 7 maggio fu uccisa la mamma, l’11 toccò a Michelina. Solo Dio sa quante volte quella giovane invocò la morte in quei 12 giorni… 
 
Lo stesso giorno in cui moriva Francesca, a Vercelli si consumava una delle più cruente stragi rosse, di cui si trova notizia su numerosi giornali locali. I giustizieri entrarono in una casa del rione Isola e, per futili motivi, freddarono Luigi Bonzanini, insieme alle sue nipoti di 16 e 21 anni, Elsa e Laura Scalfi, inerme e innocenti sorelle inseguite e uccise sul ballatoio. Per non lasciare testimoni gli assassini tornarono poi in casa per eliminare anche la suocera del Bonzanini, Luigia Meroni, paralizzata a letto. I corpi furono buttati nel fiume Sesia. Fu uno dei pochi massacri ad avere parziale giustizia perché l’efferatezza dei partigiani fu tale che i mattatori di quell’eccidio, Felice Starda ed un suo complice, furono misteriosamente uccisi giorni dopo, si sospetta da loro stessi compagni: ma il nome di Starda fu inspiegabilmente iscritto tra le vittime per la Liberazione nella lapide del cimitero di Billiemme e la moglie ricevette l’indennizzo riservato ai caduti per la patria… 
 
Il cadavere dell'attrice milanese 
Al fine di evidenziare gli assurdi femminicidi dei liberatori rimasti senza giustizia e persino dimenticati dalla storia, non racconterò volutamente di tutte quelle ausiliarie giustiziate, per non fare confusione tra le donne combattenti e quelle civili. Ed ovviamente tacerò dei crimini avvenuti in tempo di guerra, prima del 25 aprile, sebbene quelli fascisti siano stati ampiamente propagandati ad infamia eterna e quelli partigiani passati sotto silenzio. Tra le vittime ce ne fu anche una famosa: l’attrice milanese Luisa Ferida, 31 anni, fu assassinata insieme al collega Osvaldo Valenti di 39, all’alba del 30 aprile in via Poliziano, giustiziata per accuse mai provate. 
Per una donna, nell’Italia liberata, era esiziale anche solo aver fatto la segretaria di redazione in un giornale, se era quello sbagliato. Pia Scimonelli aveva 36 anni, e lavorava per Repubblica Fascista: «moglie di un ufficiale disperso in guerra nell’Africa orientale, era rimpatriata in Italia dall’Eritrea con la nave Vulcania, insieme ai suoi tre bambini. Aveva bisogno di lavorare per mantenerli ed era riuscita a trovare quel posto nel giornale…» precisa Pansa. Fuggì con due colleghi del giornale, trovò rifugio in un alloggio poi perquisito dai partigiani. Qualche giorno dopo di loro non si seppe più nulla: i loro tre cadaveri furono riconosciuti all’obitorio di via Ponzio. 
 
Giustiziata sebbene incinta di cinque mesi 
Nessuna pietà nemmeno davanti ad una donna in gravidanza. Accadde il 27 aprile a Cigliano quando i partigiani fecero capitolare un gruppo di fascisti che, dopo aver tentato una breve resistenza, si arrese. Tra loro c’erano due giovani donne che si erano recate a trovare i mariti ufficiali. Una delle due, Carla Paolucci, era incinta di cinque mesi e lo disse ai suoi giustizieri improvvisati. Ma questo non bastò a salvarla. «Si poteva essere giustizia anche per colpe da poco o inesistenti – evidenzia Pansa – Cito un esempio solo: quello di un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche di via Verdi (Torino), cuoche, cameriere, sguattere. I partigiani della Sap le raparono a zero e le rilasciarono. Il giorno successivo furono trovate uccise al Rondò della Forca». Inevitabile quindi la morte per le parenti dei presunti collaborazionisti. Forse per non lasciare testimoni in cerca di giustizia. E’ il caso di Luisa, figlia di un albergatore di Bra il cui hotel, il rinomato Gambero d’oro, fu requisito dai tedeschi, non si sa se con il consenso o meno del titolare (e se avesse espresso dissenso che fine avrebbe fatto?). Fatto sta che «il 26 aprile i partigiani lo arrestarono, insieme alla figlia adottiva, Luisa di 19 anni. Fonti fasciste sostengono che la ragazza fu violentata e poi uccisa con il padre e gli altri alla Zizzola». 
 
Giuseppina, violentata e uccisa a 13 anni 
Un’immagine della piccola Giuseppina esibita come trofeo dai partigiani rossi che poi la uccisero 
Ma c’è una storia che fa rabbrividire. «A Savona, la fine della guerra civile vide esplodere subito un’ottusa barbarie. La mattina del 25 aprile una ragazzina di 13 anni, Giuseppina Ghersi, venne sequestrata in viale Dante Alighieri e scomparve. Apparteneva a una famiglia agiata, commercianti in ortofrutticoli». Non erano nemmeno iscritti al Partito Fascista Repubblicano, ma aveva un parente iscritto cui avrebbe riferito “qualcosa che non doveva vedere”, secondo Pansa, secondo altre fonti in qualità di allieva delle magistrali Rossella era stata premiata per un concorso scolastico direttamente da Mussolini. «I rapitori di Giuseppina decisero subito che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero i capelli di vernice rossa» si narra nel libro. La condussero in una scuola media di Legino (Savona) adibita a campo di concentramento: «Qui la pestarono e la violentarono. Un parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo». Aveva solo tredici anni, tredici! Era in un campo di prigionia dove, ammesso e non concesso che fosse una prigioniera di guerra, in qualche modo avrebbe dovuto essere difesa dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Dopo essere stata picchiata e violentata non sfuggì all’uccisione che forse giunse a toglierle dal destino una vita nel ricordo degli orrori. Dei tanti parlamentari uomini e soprattutto donne che si agitano per i diritti dell’uomo a Guantanamo non rammento nessuno che abbia mai riaperto la storia della piccola Giuseppina sebbene vi sia una denuncia depositata alla Questura di Savona dal 1949… 
 
 
Giuseppina Ghersi 
La targa deposta solo alcuni anni orsono a Noli in memoria della giovanissima Giuseppina Gherzi vittima delle violenze partigiane  
 
Stupri musulmani e partigiani 
Vicino ad Alassio i crimini senza senso si perpetrarono fino al 29 maggio. A Stella in località San Martino, furono giustiziate tre donne non più giovani: di loro si conoscono solo nomi ed età, nulla più. D’altronde molte vittime furono tumulate nelle fosse comuni addirittura camuffate. E’ il caso di altre liguri, Maria Naselli, 54 anni, della figlia Anna Maria di 22, e della domestica Elisa Merlo di 35. Furono arrestate a Legino con il capofamiglia Domingo Biamonti di 61 anni, capitano della Croce Rossa, reo di avere un figlio tenente nella San Marco. Furono giustiziati a colpi di mitra al cimitero di Zinola e tumulati in un’unica fossa con una finta lapide: “Qui riposa la salma di Luigi Toso, di anni 84. La famiglia pose”. Un occultamento che prova la consapevolezza dei carnefici di compiere un gesto violento ed illecito, scoperto 4 anni dopo per il senso di colpa dei becchini. 
 
Sterminate anche la moglie e le tre figlie poco più che ventenni di un benestante agricoltore di Lavagnola (Savona). Giuseppina Turchi, la maggiore delle ragazze, pare che fosse legata ad un ufficiale della San Marco. «E come accadeva a molte donne, in quei giorni, la si accusava di aver fatto la spia» nota Pansa. Per questo era stata rapata a zero e poi rimandata a casa. Ma ciò non placò la sete di sangue e vendetta: nella notte tra il 13 ed il 14 maggio, una squadra di armati irruppe nella cascina della famiglia Turchi e uccise tutti (la più giovane morì dissanguata in un bosco), persino il cane. 
Nel mistero morì Clotilde Biestra, 45 anni, di Loano: imprigionata dai partigiani e scomparsa nel nulla in un giorno imprecisato del maggio 1945. Il motivo? Aveva una nipote ausiliaria che ebbe fortuna di scamparla, nei giorni successivi alla Liberazione, ma fu poi freddata da un killer il 15 gennaio 1946: forse avrebbe potuto testimoniare contro chi aveva deciso l’esecuzione della zia? 
Come si è potuto leggere si è trattato di donne inermi, civili, senza implicazioni dirette con una militanza di guerra: uccise perché madri, mogli, sorelle, zie. Nella sola Genova furono 71 le donne uccise tra i 456 civili. Ci furono 15 femmine anche tra le 53 vittime dell’eccidio di Schio (Vicenza) del luglio 1945. Fra i giustiziati anche una casalinga di 61 anni, Elisa Stella, vittima di una vicenda assurda – narra sempre Pansa che fa riferimento anche al libro “L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile” – Aveva affittato un aloggio a un tizio che, dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della padrona di casa l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano, pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu arrestata, rinchiusa nel carcere di via Baratto e qui finì nel mucchio dei trucidati il 6 luglio». 
 
Stuprata in casa davanti ai tre bambini e sepolta viva 
Tra tutte forse la più “colpevole” fu una infermiera di Conselice, Anselma G. di 25 anni. Rea di essere fidanzata con un militare fascista e di aver curato soldati tedeschi. Fu stuprata e poi uccisa con un’iniezione di veleno, forse per una cinica legge del contrappasso… Nel triangolo rosso, nella provincia di Bologna comunista furono ben 42 le vittime del femminicidio tra i 334 civili. Stragi di donne non di rado compiute per «antipatie famigliari, contrasti sul lavoro, ruggini antiche. E anche per faccende del tutto private come storie d’amore finite male o questioni di gelosia» si scrive ne “Il sangue dei vinti” evocando quelle ragioni di “femminicidi” che ai nostri giorni suscitano le reazioni indignate di politici e opinione pubblica ma che allora furono passate sotto silenzio e ancora oggi sono relegate nell’oblio. 
Tra di loro ci fu anche Ida, 20 anni, sposata e madre di un bambino: strangolata col fino telefonico insieme ai suoi sei fratelli, tutti colpevoli perché due di loro avevano la tessera del Pfr, e gettata in una fossa comune con altre dieci vittime. Nel Modenese, a Liberazione ormai conclamata, non fu da meno il trattamento riservato al gentil sesso che si ritrovò a pagare una doppia empietà per la sua natura: alla condanna a morte si aggiunse infatti l’empietà dello stupro. Pansa narra di omicidi «che qui non possiamo ricordare neppure in parte. Tutti o quasi senza una parvenza di processo. E spesso preceduti da efferatezze barbariche, specialmente nei confronti delle donne catturate». «Rosalia P., 32 anni, segretaria del fascio di Medolla, il 27 aprile fu presa in casa, violentata davanti al marito e ai tre bambini…», fu poi obbligata a scavarsi la fossa in giardino e «sepolta viva». «Il 2 maggio a Cavezzo, madre e figlia, Bianca e Paola C., vennero seviziate a lungo, sino alla morte. Poco tempo fece la stessa fine un’insegnante cinquantenne che stava cercando notizie sulla scomparsa delle sue amiche di Cavezzo». Come detto in questta narrazione ho volutamente espunto le storie di coloro che, per citare un paragrafo del libro, seppero “Morire da uomini” avendo militato e creduto nel fascismo. Tra loro ci fu anche un’insegnante, sospettata di essere ausiliaria ma di certo terziaria francescana, che lasciò parole toccanti. Angela Maria Tam annunciò così la sua morte in una lettera ad un sacerdote: “Durante tutto il viaggio da Sondrio a Buglio ho cantato le canzoni della Vergine. Ho passato in prigione ore di raccoglimento e di vicinanza a Dio. Viva l’Italia! Gesù la benedica e la riconduca all’amore e all’unità per il nostro sacrificio. Così sia!”». 
 
Per molte ci fu l’onta dello stupro che prima avevano già conosciuto anche le partigiane o staffette catturate dai fascisti. Con macroscopica differenza: per 90 di esse, ausiliarie della Saf, la morte, in molti casi preceduta da inaudita violenza, giunse dopo il 25 aprile, in tempo di pace, ad opera di quei partigiani che liberarono l’Italia proprio dalle violenze e dai soprusi del fascismo e dell’occupazione nazista. Una mobilitazione contro il femminicidio dovrebbe quindi cominciare dal passato, riconoscendo le vittime inermi di una vindice carneficina ideologica che pagarono doppio… Solo perché erano donne. 
 
Settecentosettantasei donne uccise 
Qualcuno si chiede se le cifre siano veritiere, ma è quasi certo che peccano in difetto. Sono almeno 776 le donne uccise in Piemonte. Non erano tutte ausiliarie fasciste, molte, di ceto sociale modesto, vennero attirate con l’inganno, seviziate, eliminate e sepolte in gran segreto. 
Settecentosettantasei donne uccise dai partigiani in Piemonte lungo tutta la guerra civile e nelle mattanze dopo la Liberazione. Il conto emerge da un minuzioso lavoro d'indagine condotto da un gruppo di ricercatori torinesi che, da anni, si occupano di inchieste sul versante fascista della nostra guerra interna. Il gruppo è quello che fa capo a Michele Tosca. Suddivisa per le sei province piemontesi, più la regione autonoma della Valle d'Aosta, la cifra di 776 si ripartisce del modo seguente. Torino e provincia: 292 donne uccise. Cuneo e provincia: 164. Vercelli e provincia: 138. Novara e provincia: 108. Alessandria e provincia: 27. Asti e provincia: 24. Valle d'Aosta: 23. 
 
Sono attendibili questi dati?  
La mia opinione è che lo siano.  
Com'è quasi inevitabile in ricerche così difficili, possono esserci cifre errate sia per eccesso che per difetto. La mia impressione è che, semmai, esistano errori per difetto. È quasi certo che le donne uccise dai partigiani in Piemonte siano state di più e non di meno delle vittime censite in quell'inchiesta. L'esperienza mi ha insegnato che, a proposito della guerra civile italiana, tutti sappiamo ancora poco rispetto a quanto è davvero avvenuto tra il 1943 e il 1945. E molto poco di quanto accaduto nei tre mesi successivi, durante la resa dei conti sui fascisti sconfitti. 
 
Perché vennero ammazzate?  
Per le ausiliarie non possono esserci dubbi. Vestivano la divisa dell'esercito della Rsi e, in parecchi casi, della X Mas, della Gnr e della Brigata Nera. Anche se non portavano armi, i partigiani le consideravano militari nemici a tutti gli effetti. E come tali venivano trattate. Una volta catturate, durante la guerra civile o nel dopoguerra, la loro sorte era spesso una sola: la morte. 
Per le altre donne uccise il quadro si fa più complesso. Gli elenchi del gruppo Tosca presentano una grande varietà di storie. Quasi sempre si trattava di persone di modesta condizione sociale: casalinghe, impiegate, maestre elementari, ostetriche comunali, operaie, domestiche. Di tutte le età: dalle settantenni alle giovanissime, persino di 16 o 17 anni. 
Di solito, la loro unica colpa era di essere fasciste, o di sembrare che lo fossero. Oppure erano madri, sorelle, mogli, figlie, fidanzate di piccoli esponenti del Pfr o di militari della Rsi. In altri casi erano ritenute ostili al movimento partigiano. Un'altra circostanza che poteva costare la vita era di avere relazioni amorose con militari fascisti o tedeschi. 
Ma l'accusa di gran lunga più frequente era di essere spie per conto dei fascisti o dei tedeschi e ai danni della Resistenza. Colpisce la presenza quasi ossessiva di questa imputazione. Lo spionaggio era un'attività sempre molto difficile da provare. Tuttavia, nelle guerre interne, chi si sente minacciato dagli informatori del fronte avversario non va mai per il sottile. Basta un semplice sospetto, anche generico e fondato soltanto su voci o lettere anonime, per decidere un'esecuzione. L'ossessione delle spiate era tale che in qualche caso vennero giustiziati anche informatori della Resistenza, infiltrati nelle file fasciste. A ucciderli furono partigiani che lo ignoravano. Non poche delle donne fasciste catturate, prima d'essere soppresse, subirono violenze sessuali. O furono vittime di torture. 
 
Anche l'essere donne anziane non bastava a evitare la morte. In provincia di Torino, Maria Gabella aveva 66 anni e venne fucilata nel 1944 a Vische, in località Castellazzo. Aveva la stessa età anche Laura Rava in Roscio, nata a Ivrea e vedova di un notaio. Era stata insegnante e ormai si trovava in pensione. I partigiani la rapirono e il 24 settembre 1944 la eliminarono a Noasca, in val Locana, dopo averla seviziata. Il corpo fu poi gettato nudo in un canale. 
Aveva 73 anni e mezzo Camilla Durando Chiappirone, nata a Mondovì l'11 maggio 1871. Mentre si trovava sfollata a Scalenghe, il 13 dicembre 1944 venne prelevata dai partigiani e uccisa. Era iscritta al Pfr e soltanto per questo l'accusarono di fare la spia. A Pont Canavese il 24 luglio 1944 furono assassinate madre e figlia: Candida Crosasso, 57 anni, e Olga Crosasso, 27 anni, abitanti a Ingria, in val Soana. Arrestate dai partigiani, le due donne non avevano voluto rivelare dove stava nascosto il nipote e cugino Arduino Crosasso, un ufficiale fascista, forse della Gnr. I partigiani le fucilarono alle cinque e mezzo del mattino, all'ingresso del cimitero di Pont. E sotto gli occhi dei parroci di Ingria e di Ronco che le avevano assistite prima dell'esecuzione. 
Una strage fu quella della famiglia Sito, di Pinerolo. Uno dei fratelli Sito, Francesco, classe 1923, era iscritto al Pfr della città e milite della Brigata Nera. Lui verrà soppresso il 29 aprile 1945, a San Germano Chisone. Ma ben prima, il 18 dicembre 1944, furono uccise le sue tre sorelle: Elisabetta, Giovana e Teresa. Le tre ragazze vennero fucilate nel cimitero di Rivasecca di Buriasco, una frazione vicina a Pinerolo, dopo essere state stuprate. Con loro fu eliminata Rosa Chiale, della Rosita. In tutto, morirono quattro tra fratelli e sorelle, più la Rosita Chiale. 
 
Il 17 aprile 1945, a Verrua Savoia i partigiani rapirono una donna di 64 anni, Maria Scagliotti vedova Porta e la uccisero subito. La stessa sera, fu soppressa sua figlia, Matilde Porta in Pernice, sequestrata a Moncestino. Erano anche loro sospettate di aver fatto la spia? No, però Matilde aveva sposato un tenente della Brigata Nera. 
Si poteva essere uccise soltanto perché un figlio stava con la Repubblica Sociale. Maria Deffar in Delfino, 55 anni, nata a Fiume, era la madre di un marinaio della X Mas. Anche avere un figliastro brigatista poteva bastare per una condanna a morte. Fu il caso di Giuseppina De Mar, uccisa a Pomaretto, in val Chisone, il 28 aprile 1945 con il marito Leonzio Scattolin, di 57 anni. Giuseppina era la seconda moglie di Leonzio che aveva un figlio di primo letto arruolato nella Brigata Nera. A ucciderli furono i partigiani di una Brigata di Giustizia e Libertà. 
Una fine oscura fu quella di Matilde Abrile in Alciati. Aveva 46 anni e, poi era la moglie di un milite della Gnr, veniva ritenuta una «fervente fascista». Il marito era stato nella Milizia Confinaria. Fu uccisa il 19 giugno 1945, a Torino, quando la guerra civile era terminata da quasi due mesi. Secondo una fonte, la donna fu gettata dalla finestra di casa. Ancora a Luserna San Giovanni, in val Pellice, il 3 settembre 1944, fu assassinata in casa come spia una ragazza di 17 anni, Domenica Careglio. Più di tre mesi dopo, il giorno di Natale del 1944, i partigiani uccisero pure il padre e la madre di Domenica: Tommaso Careglio, 41 anni, e Anna Olivero, 44 anni. Anche loro vennero soppressi in casa. E anche loro perché ritenuti spie dei fascisti. 
Persino vendere il pane a qualche reparto fascista poteva condurre alla tomba. Successe così a madre e figlio, uccisi il 15 agosto 1944 a Caselette, un comune vicino a Torino. Lei si chiamava Giuseppina Bessone in Pasinetti e il figlio Bruno Pasinetti, entrambi fornai. 
 
Un altro mestiere pericoloso era quello della maestra elementare. Nella guerra civile, ne furono uccise molte, in tutte le regioni. Erano sospettate di essere fasciste scaldate, anche quando non lo erano. Il censimento guidato da Tosca e il Martirologio dei caduti e dispersi della Rsi a Torino ne registrano più di una. 
Il 26 giugno 1944 venne sequestrata Maria Giordana Sibille, di ruolo nella scuola di Chiomonte, vicino a Susa. I partigiani la fecero sparire e di lei non si seppe più nulla. Il 16 settembre toccò a Mirella Armida Iacovini, maestra a Drubiaglio, una delle frazioni di Avigliana. Anche lei scomparve, forse soppressa subito dopo la cattura. 
 
La donne fasciste modenesi 
Il contributo di sangue pagato dalle donne modenesi, fasciste, o presunte tali, o semplicemente madri, spose, fidanzate e sorelle di fascisti è stato particolarmente alto. 
Molte tra quelle che non pagarono con la vita la loro fedeltà o la loro scomoda posizione di donne dei fascisti, furono oltraggiate, seviziate, vilipese, violentate da orde di barbari che si comportarono, specialmente a guerra ultimata, come le peggiori truppe mercenarie dei tempi antichi che, sulle terre conquistate, avevano il "privilegio" di prendersi tutto quello che era possibile predare, comprese le donne. Ma, e questo è orribile, nemmeno i più fanatici guerrieri Apaches, passati alla storia come dei feroci e sanguinari guerrieri, torturarono e trucidarono le donne bianche come invece è successo nella nostra Italia e in particolare nella civile Provincia modenese. 
Tra le tante donne uccise che è possibile trovare nella cronaca di questa ricostruzione, ne vogliamo ricordare alcune. 
Ad esempio, la maestra Mirka Morselli, uccisa barbaramente a 22 anni a Monfestino semplicemente perché era amica di un ufficiale tedesco; o il caso della Signora Martini Gualtieri Aldina, bruciata viva nella sua casa a Montefiorino dai partigiani perché non volle loro aprire la porta della sua casa; o la giovanissima Balestri Irma, uccisa a Cavezzo dopo otto giorni di sevizie; e ancora a Cavezzo l'orribile esecuzione della signora Sala, vedova di 65 anni, uccisa assieme ai suoi due figli. E che dire della strage della famiglia Pallotti, dove una bambina di dodici anni fu lasciata agonizzante tutta la notte, mortalmente ferita, vicino ai cadaveri della mamma, del papà e del fratello. 
 
Quante ragazze uccise e violentate alla presenza dei loro genitori! E’ sufficiente ricordare la bestiale uccisione, a Castelnuovo Rangone, di una ragazza di 23 anni, Gozzi Ines; a Gargallo di Carpi, della giovane Maini Evalda; a Cavezzo la diciottenne Nivet Maria Grazia; a Modena la giovane studentessa universitaria Bacchi Anna Maria. 
A Carpi la diciottenne Iolanda Pirondi, a Campogalliano la ventiduenne Botti Carmen, ancora a Cavezzo madre e figlia di 38 e 18 anni, Cattabriga Stefanini Prima e Cattabriga Paolina e poi la signora Morselli Latina uccisa assieme al fratello e sempre a Cavezzo la famiglia Castellazzi composta da marito e moglie e dalla figlia diciottenne; in questa circostanza i partigiani violentarono a più riprese le due donne davanti al disgraziato marito e padre ucciso per ultimo. 
E tante altre esecuzioni di donne innocenti: la ventunenne Pellacani Bruna a Bomporto, gettata in un pozzo nero. La Signora Bocchi Marisi Itala falciata assieme al figlio dai mitra partigiani. 
Nella "letteratura" resistenziale antifascista, troviamo, quando si ricordano di citare qualche fascista, che queste persone venivano "giustiziate" per aver commesso il delitto di essere le donne dei fascisti. 
Tante altre donne sono passate sotto le "particolari cure" degli eroici partigiani. A Villa Freto, nel 1954, fu scoperto il cadavere di una sospetta fascista tale Catellani Gina, uccisa nel mese d’Aprile del 1945; a Mirandola le signore Pignatti Iolanda e Paltrinieri Bertacchi Rosalia, di 39 e 31 anni, furono violentate e seviziate davanti ai loro rispettivi mariti e figli e poi sepolte vive; non lontano da questo centro della bassa, a Medolla, era barbaramente uccisa una ragazza di 23 anni, Greco Eva, assieme al fratello di 17 anni ed al padre. 
 
Un discorso particolare deve essere fatto per le ausiliarie poiché queste donne avevano avuto il coraggio di vestire una divisa militare e condividere con i loro colleghi maschi i rischi che correvano trovandosi ad essere facile bersaglio delle imboscate partigiane; ne vogliamo ricordare alcune, cadute in territorio modenese: le ausiliarie Pittalis Maria e Bellentani Mara, la diciassettenne Malagoli Tiziana, la giovane di Castelfranco, Forlani Barbara, Bonini Bianca, Corradi Defais, De Nito Angela. 
Queste eroiche ragazze, che volontariamente si schierarono al fianco dei soldati che aderirono alla RSI, sono state, nella storia d'Italia le prime donne a vestire una divisa militare creando il corpo del Servizio Ausiliario Femminile. 
Se oggi ancora molti, ignorano quanto è stato fatto dalla Repubblica Sociale Italiana, nella sua pur breve vita, e dal suo esercito con quella lotta disperata, ancor meno conoscono ciò che le donne del Nord, dai 18 ai 45 anni, appartenenti a tutti i ceti sociali, seppero fare, in funzione dei loro altissimi ideali per salvare la memoria e l'onore, di fronte all'intero paese, dei loro padri e dei loro fratelli caduti su tutti i fronti. 
E' questa una pagina della nostra storia ancora tutta da scoprire e da celebrare; subito dopo l’8 Settembre, centinaia e centinaia di ragazze si presentarono ai Comandi militari ed alle organizzazioni di Partito; volevano lavorare e lottare accanto ai soldati. Per la loro consistenza d'amore, negli eventi storici, le donne erano scese più volte in campo accanto ai loro uomini per superare assieme i pericoli, le persecuzioni, le lotte. Ma mai, in Italia, il generoso intervento della donna assunse l'aspetto di una partecipazione corale come in quei 600 giorni. Fu il loro, soprattutto, un atto d’amore verso la Patria, quella Patria così travagliata ma pur ancora formata da cittadini capaci di difendere e di combattere per l'onore come giuramento ideale prestato alla propria coscienza. 
In questo clima, in questa audacissima ispirazione, le ausiliarie costituirono uno degli aspetti più espressivi di quel fenomeno volontaristico, che riuscì a creare un esercito al Nord della Linea Gotica e dove ne entrarono a far parte ben 5.000 donne. 
Erano tantissime le volontarie che correvano ad arruolarsi nei reparti della RSI tanto che si dovette affrontare il problema costituendo appunto il Corpo del Servizio Ausiliario Femminile, SAF, costituito da varie specialità. Ausiliarie per i servizi ospedalieri, per i servizi militari, per i posti di ristoro, per la difesa contraerea. 
 
Dopo due mesi di corso, le reclute prestavano giuramento alla RSI, secondo la formula stabilita per le forze armate, in seguito erano impiegate in servizio effettivo presso i reparti delle Forze Armate, della Decima Mas, e della GNR, che prendevano in forza le ausiliarie, sia amministrativamente, che disciplinarmente. 
Per il particolare aspetto che assunse la guerra civile, in ogni momento della giornata, in ogni settore del loro lavoro, queste volontarie erano esposte ai più gravi pericoli. La serenità con cui li affrontarono, giovò sempre a mantenere la saldezza dei reparti combattenti e a rendere luminose le ore più critiche o quasi irreali, quelle drammatiche. Una forza superiore le sostenne anche nell'ora della morte, specialmente quando quella morte fu più dura per loro che per i soldati, poiché, come abbiamo visto per tanti episodi, i partigiani non seppero rinunciare, prima di ucciderle, ad ogni sorta di turpitudine e d’atrocità incredibili. 
 
Le ausiliarie erano infatti militarizzate a tutti gli effetti, i loro fogli matricolari erano regolarmente trasmessi ai distretti militari e costantemente aggiornati. La divisa che indossavano, era di foggia militare, anche i gradi erano rapportati a quelli dell'esercito. 
Tennero sempre a considerarsi del tutto uguali ai soldati e questo contribuì a dar loro quel comportamento esemplare che meravigliò, non solo gli stessi camerati, ma anche la popolazione che sostava sbigottita e commossa quando queste ragazze passavano impeccabili e perfette per le città mentre cantavano le loro canzoni, venate, a volte, di note dolorose, o quando infaticabili di giorno e di notte, sotto i bombardamenti, nelle retrovie, nelle stazioni ferroviarie, andavano e venivano con viveri, medicamenti, ordini. 
Ma sapevano anche stare immobili per giorni interminabili accanto ai loro apparecchi d’intercettazione nelle baracche della contraerea per trasmettere le segnalazioni sui movimenti degli aerei, in particolar modo di quel "pippo" che tormentava le notti degli italiani del nord. 
Ma le ausiliarie sapevano di essere osservate dalla gente e bersagliate dagli avversari, per questo esasperavano quasi la loro virtù trasformando sempre in sentimenti d’amore fraterno, l'ammirazione che nutrivano per i combattenti. 
Erano oltre cinquemila le ausiliarie, un piccolo esercito; quante sono state le "trucidate"? Non è possibile stilare elenchi completi ed esaurienti; in ogni modo il loro sacrificio ha dimostrato al mondo quanta purezza ci fosse nei loro sentimenti e nel loro modo di operare di completa dedizione alla causa. 
Ciò che fecero queste donne può essere sintetizzato nelle motivazioni per la proposta di medaglie al valor militare; di queste ne vogliamo appunto citare due, a ricordo di tutte le ausiliarie trucidate nelle "radiose giornate" della "liberazione". 
 
L'ausiliaria Franca Barbier venne proposta, dall'alto commissario per il Piemonte per il conferimento della medaglia d'oro al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: 
"Catturata dai partigiani, manteneva un contegno deciso rifiutando di entrare a far parte della banda e riaffermando la sua intransigente fedeltà all'idea. Condannata a morte dai fuorilegge, le fu promessa la vita se avesse rinunciato ai principi del fascismo. Rimase fedele nella sua fede e portata davanti al plotone d'esecuzione, ebbe la forza di gridare: "Viva l'Italia ! Viva il Duce !" ordinando da sola il fuoco. Di fronte al suo coraggio i fuorilegge non ebbero la forza di eseguire l'ordine. Fu uccisa dal capo con un colpo alla nuca".   
 
L'ausiliaria Angelina Milazzo, venne proposta, dal Comando Generale SAF, per il conferimento della Medaglia d'argento al valor militare, alla memoria: 
"Abbandonava gli studi per arruolarsi nel servizio ausiliario femminile. Durante l'addestramento era d'esempio alle compagne per fede e disciplina. Assegnata al Comando SAF di Vicenza, si meritava una citazione all'ordine del giorno per la capacità e lo spirito d'iniziativa dimostrati nel portare a termine una difficile impresa. In viaggio di servizio, durante un mitragliamento aereo, sacrificava coscientemente la vita per salvare una gestante già ferita. Suggellava con l'offerta suprema la fulgida vita di volontaria." 
 
Nell'Italia d’oggi queste due eroiche donne non hanno avuto nessun riconoscimento, anzi sono state completamente dimenticate ed il loro sacrificio non viene posto ad esempio alle giovani generazioni. In Italia, il riconoscimento della medaglia d'oro è stato dato, da questa Repubblica, ai massacratori dei soldati altoatesini in Via Rasella a Roma da dove scaturì la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine. L'Italia "nata dalla resistenza" ha premiato, con il Ministro socialista Lagorio, questi "eroi". Quelle donne in camicia nera sono state invece presentate, come delle persone dedite a tutte le malefatte.  
Così è la riconoscenza nell'Italia d’oggi! 
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