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Le conclusioni 
di Ninni Raimondi
 
L'inchiesta, specialmente nel corso degli ultimi anni, ha seguito un doppio binario.  
Da un lato è proseguita, tra innumerevoli difficoltà, l'indagine mirata a ricostruire la dinamica degli avvenimenti basata sui pochi e lacunosi elementi ancora accessibili a quindici anni dal fatto.  
 
Sempre più però, stante l'impossibilità di arrivare ad un quadro completo e coerente capace di far risalire a quanto accaduto, l'attenzione si è venuta spostando sull'insieme dei comportamenti omissivi, degli sviamenti, delle condotte reticenti che in tutti questi ani sono stati di fatto la causa della dispersione, dell'occultamento o dell'inquinamento delle prove che avrebbero dovuto consentire l'accertamento della verità.  
Il fatto che sin dall'avvio siano state taciute informazioni essenziali da parte di chi poteva e doveva fornirle, e ciò pur senza alcuna formale opposizione del segreto di Stato, ha condizionato pesantemente lo svolgimento dell'inchiesta. Questo condizionamento giustifica la connessione che con il passare del tempo si è stabilita sempre più stretta tra la responsabilità per il disastro ed i reati di falso ideologico e falsa testimonianza. Reati questi ultimi contestati a uomini appartenenti alle istituzioni militari del nostro paese, anche con posizioni di alta responsabilità.  
 
Il "caso Ustica", al di là del problema dell'accertamento della verità giudiziaria (compito di competenza esclusiva della magistratura), pone con forza il tema del rapporto tra poteri giudiziari, militari e politici, considerato sia dal punto di vista del difetto di trasparenza, del corporativismo, delle carenze dei poteri di controllo, della tendenziale indifferenza dei responsabili politici verso l'effettivo funzionamento dei pubblici apparati, sia dal punto di vista delle conseguenze di tutto ciò in termini di effetti depistanti sull'inchiesta, più o meno intenzionali.  
All'indomani della sciagura del Dc9 Itavia furono avviate due inchieste ufficiali, l'una dell'autorità giudiziaria e l'altra del ministero dei trasporti.  
 
Delle prime indagini e dei relativi atti urgenti si incaricò la procura di Palermo, sostituita dopo due settimane dalla procura di Roma per motivi di competenza territoriale. L'inchiesta tecnica, di competenza ministeriale, fu invece affidata ad una commissione presieduta da un membro della direzione generale dell'Aviazione civile, il dottor Carlo Luzzatti.  
Sin dalle prime battute il rapporto tra i due organi inquirenti risultò difficoltoso, come risulta dalla ricostruzione di cui si dà conto nella prima relazione della Commissione stragi.  
 
In mancanza di specifiche procedure previste per il caso di disastri aerei la magistratura operò trattando i complessi problemi connessi con la sciagura aerea alla stregua di un incidente comune. D'altra parte, pur tecnicamente competente, l'organismo ministeriale non poté intervenire nella determinazione dei sequestri e degli accertamenti da effettuare in quanto privo dei relativi poteri.  
Questa situazione influì negativamente sull'inchiesta soprattutto nelle primissime fasi, in quanto l'assenza di ogni coordinamento ostacolò il reperimento di molti elementi utili all'indagine. La mancata intesa tra autorità giudiziaria e commissione ministeriale d'inchiesta è solo un aspetto del problema più generale dell'attività peritale. Nel corso degli anni non vi è stata infatti da parte dei giudici continuità di atteggiamento.  
 
All'orientamento del sostituto procuratore di Palermo, dott. Guarino, che nei giorni immediatamente seguenti alla sciagura aveva nominato un proprio collegio peritale, seguì dopo appena due settimane la scelta del pubblico ministero romano Santacroce di ignorare i periti d'ufficio per affidarsi esclusivamente agli esperti della commissione Luzzatti.  
Una soluzione successivamente disattesa dallo stesso giudice, il quale nel 1982, benché Luzzatti e gli altri componenti della commissione fossero stati fino a quel momento pienamente coinvolti in tutti gli esami tecnici disposti dal magistrato, si rifiutò di consegnare alla commissione ministeriale i risultati di alcune analisi richieste di comune accordo ai lab oratori dell'Aereonautica militare, determinando di fatto lo stallo dell'inchiesta ministeriale.  
 
L'uscita di scena della commissione Luzzatti non impedì che anche l'attività dei consulenti tecnici d'ufficio, nominati in seguito, risultasse tormentata.  
Ma appena un anno più tardi, nel supplemento alla relazione redatto per rispondere a nuovi quesiti posti dal giudice, le conclusioni alle quali i periti erano precedentemente giunti furono clamorosamente rimesse in discussione. Mentre la prima relazione concludeva indicando come probabile causa della caduta del Dc9 l'esplosione ravvicinata di un missile, nel supplemento depositato il 26 maggio 1990 due dei cinque esperti (tra cui il presidente Blasi) dichiaravano di essersi ricreduti, avendo nel frattempo maturato la convinzione che la causa del disastro fosse da attribuire all'esplosione di un ordigno all'interno del velivolo.  
Il conflitto tra i periti indusse il giudice ad azzerare le risultanze peritali per ricominciare daccapo con un nuovo collegio. Ma i nuovi consulenti, con una discutibile scelta dei tempi, furono nominati da Bucarelli il 17 luglio 1990, ovvero lo stesso giorno in cui il giudice presentava istanza d'astensione dalla prosecuzione delle indagini.  
Il giudice istruttore Priore ereditò buona parte del collegio peritale costituito da Bucarelli, limitandosi a sostituire alcuni dei membri del nuovo collegio con esperti di nazionalità straniera. Tra le prime iniziative del nuovo gruppo di periti d'ufficio vi fu la decisione di procedere ad un'ulteriore campagna di recupero, per riportare in superficie i resti del Dc9 ancora giacenti in fondo al mare.  
Un'operazione lunga e delicata, che inevitabilmente ritardò l'espletamento delle indagini sui nuovi reperti. Solo a quattro anni dalla nomina del collegio peritale, il 23 luglio 1994, la relazione tecnica fu ultimata e consegnata al giudice.  
 
In essa prendeva corpo la tesi di un'esplosione interna, collocata nel vano toilette. A tale conclusione i consulenti tecnici pervenivano in base a "significative ed oggettive evidenze derivanti dall'esame del relitto ricostruito che fanno ritenere plausibile l'ipotesi che un'esplosione all'interno della toilette possa ritenersi all'origine dell'incidente al velivolo I-TIGI".  
La procura di Roma ha giudicato di notevole importanza le valutazioni concernenti il relitto proposte nella relazione conclusiva del collegio peritale. In particolare è stata ritenuta convincente la descrizione delle modalità e dei tempi di separazione in volo delle varie parti dell'aereo, in quanto capace di fornire un'interpretazione coordinata delle analisi radar, delle registrazioni acustiche di cabina, delle analisi strutturali e dei reperti.  
 
Tuttavia, pur tenendo conto delle particolari difficoltà delle indagini peritali, pesantemente condizionate dagli occultamenti e sviamenti avvenuti nelle prime fasi della raccolta del materiale di prova, i giudici hanno rilevato come le argomentazioni a favore dell'esplosione interna non si possano considerare convincenti.  
Nell'inchiesta sulla tragedia di Ustica il piano dell'accertamento della verità dei fatti e il piano dell'accertamento delle responsabilità della mancata individuazione di quella verità restano ancora oggi drammaticamente divisi. Da quando l'inchiesta ha acquistato vigore, sotto la conduzione del giudice Priore e con il parallelo impegno della Commissione parlamentare, ci si è potuti rendere conto con sempre maggiore precisione di quanti siano stati i depistaggi, le omissioni, i silenzi che hanno costellato l'intero corso di questa vicenda.  
 
Alle comunicazioni giudiziarie emesse dal giudice Bucarelli nel 1989 nei confronti dei militari addetti ai centri della Difesa aerea di Marsala e Licola, il 30 dicembre 1991 si sono aggiunte 13 comunicazioni indirizzate da Priore ad altrettanti alti ufficiali dell'Aeronautica e del Sismi, tra i quali i generali Tascio, Ferri, Bartolucci e Pisano.  
Più recentemente si sono aggiunti i provvedimenti contro altri alti ufficiali dell'Aeronautica, tra cui l'ex capo di stato maggiore Stelio Nardini, imputato di abuso di ufficio per le vicende connesse all'archivio sequestrato nella sua abitazione. Dal momento in cui - con l'invio dei primi ventitré mandati di comparizione - la magistratura ha mostrato di non credere alla versione dell'Aeronautica, numerosi sono gli elementi venuti poco alla volta alla luce.  
 
Continua però a mancare un quadro coerente, in grado di fornire le spiegazioni mancanti. Nulla si sa ancora su ciò che i silenzi dovevano coprire.  
Dal punto di vista politico ed istituzionale – come la Commissione ha già ribadito nelle sue precedenti relazioni - poco cambia tuttavia se dovesse essere provata la tesi del missile, della bomba o altra ancora. Se alla fine dell'inchiesta giudiziaria l'unico approdo dovesse risultare l'accertamento delle responsabilità di quanti hanno ostacolato l'accertamento della verità, tanto basterebbe a dare un senso ad una vicenda altrimenti disperatamente priva di ogni senso. Una vicenda il cui significato si racchiude nella constatazione che nel nostro paese è stato possibile che un aereo di linea precipitasse con i suoi 81 passeggeri. 
Licenza Creative Commons  17 Luglio 2019
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