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Il fallimento del liberismo
Il fallimento del liberismo: l’Argentina adesso rischia il default 
di Ninni Raimondi
 
“Una rotta di buon senso, riforme e prudenza”. Così parlava Federico Fubini, penna di punta del Corriere della Sera, dell’Argentina di Mauricio Macri. Quello stesso Fubini che, per sua stessa ammissione, non ha parlato delle centinaia di bambini morti in Grecia a causa dell’austerità “per non essere strumentalizzato dagli anti europei”. E quella stesso Macri che oggi sta portando la propria nazione sull’orlo dell’ennesimo default. 
 
Argentina declassata 
Fitch e Standard & Poor’s hanno, negli scorsi giorni, tagliato il rating argentino. Da B a CCC (due scalini) la prima, da B a B- (un solo scalino) la seconda. B2 invece resta la valutazione accordata da Moody’s. 
Il declassamento operato dalle agenzie non è indifferente. Con la revisione al ribasso (e per di più con outlook negativo) l’Argentina passa infatti nella “serie B” della non invidiabile posizione “junk” – cioè “spazzatura” – in cui già si trovava. Tradotto: stando alle tre sorelle, Buenos Aires sarebbe ad un passo da un ormai inevitabile default. 
La ragione del declassamento sarebbe da riscontrarsi nel risultato delle primarie di pochi giorni fa, che hanno visto il presidente uscente Mauricio Macri incassare una sonora sconfitta. Copione che potrebbe a questo punto replicarsi nelle elezioni del prossimo 27 ottobre. Un’eventualità che i mercati temono, molto irrazionalmente a dir la verità, dato che fino a prova contraria il blocco peronista dato per favorito ancora non governa (né lo fa da quattro anni), mentre la realtà è quella di una nazione letteralmente devastata dall’applicazione di sedicenti “riforme” che hanno prodotto solo macerie. 
 
Il fallimento del liberismo di Macri 
Salito alla presidenza nel dicembre 2015, primo capo di Stato argentino non proveniente dalle file del peronismo o del radicalismo dal 1916, Mauricio Macri ha da subito inaugurato una nuova stagione sulla scia del nome del movimento da lui fondato, “Cambiemos”. 
Il cambiamento si è tradotto, prosaicamente, nell’applicazione di un misto di ricette di austerità e di liberismo spinto. Una strada per comprendere il cui esito Macri avrebbe potuto guardare alla disastrosa esperienza Europa. Non l’ha fatto: al contrario ha ridotto i controlli sui capitali, ha deregolamentato il commercio con l’estero (in un periodo in cui si sta invece facendo rotta verso una progressiva chiusura delle frontiere), è ritornato sul mercato del debito pubblico con emissioni in dollari (consegnando dunque l’economia nazionale a politiche monetarie decise altrove: quando il peso si svaluta – circostanza non inusuale negli ultimi anni – il servizio del debito diventa problematico), imposto una stretta al bilancio con un misto di tagli a sussidi, investimenti e tasse sulle esportazioni. 
 
Il risultato di queste politiche è stato drammatico. La crescita si è azzerata e la produzione industriale è collassata ai minimi da quasi vent’anni, mentre la disoccupazione è quasi raddoppiata (portando oltre un terzo degli argentini sotto la soglia di povertà) e il debito pubblico è letteralmente schizzato, dal 45% del 2014 a sfiorare il 90% oggi.  
Il tutto senza riuscire a migliorare alcun saldo con l’estero, né in termini di bilancia commerciale né in termini di bilancia dei pagamenti. Insomma, se l’Argentina negli anni del kirchnerismo stava faticosamente recuperando dalla devastante crisi di inizio millennio, oggi tutto il terreno è perduto. Spianando così la strada all’ennesimo fallimento: l’ottavo della sua storia, il sesto degli ultimi 70 anni. 
Licenza Creative Commons  21 Agosto 2019
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