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Henrik Stangerup: lo scrittore che seppe vedere più lontano di Orwell 
di Ninni Raimondi
 
Lo spettro dei possibili tipi di utopie è incredibilmente vasto, ma mai quanto quello delle distopie, o anti-utopie. Ci sono quelle di natura politica. Quelle che descrivono una sorta di stato di natura hobbesiano di ritorno, a seguito di una catastrofe ambientale, nucleare e via dicendo, a seconda della fantasia dei diversi autori. 1984 di Orwell, Cecità di Saramago, La strada di Cormac McCarthy sono in tal senso emblematiche e tra le migliori. 
 
Distopie politiche 
Per quel che concerne le distopie di natura politica, però, c’è un tratto saliente sul quale conviene soffermarsi brevemente. Tutte indistintamente si proiettano in un futuro più o meno lontano, nel quale viene instaurata una dittatura. Quest’ultima è di solito spinta fino al parossismo più estremo. Pensate al succitato Orwell. Nella società da lui immaginata le restrizioni alla libertà sono assolute: la televisione, con le trasmissioni di propaganda e la possibilità di sorvegliare la vita dei singoli, resta sempre accesa. Tutto è, insomma, per così dire, portato al limite. 
Probabilmente simili scelte da parte degli autori si motivano con la volontà di far emergere in modo più immediato i tratti di un sistema aberrante: per farlo, creano un palese incubo a occhi aperti. Dove sta il problema? Il fatto è che tutte queste narrazioni corrono il rischio, proprio per via della loro radicalità, di essere bollate come deliri paranoici, o esasperazioni eccentriche di menti troppo fantasiose. C’è da dire che le grandi distopie, o almeno la maggior parte, sono state scritte in periodi storici molto lontani dal nostro. Tempi in cui chi comandava faceva largo uso della coercizione. Campi di sterminio, gulag e via dicendo. Nessuno di loro era, in sostanza, arrivato a comprendere come il Potere si sarebbe strutturato dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. 
Come insegna anche Marcuse, la nuova dittatura si muove in modo meno appariscente e non si avvale, per quanto possibile, di dimostrazioni di carattere muscolare. Perché costringere la gente, con la paura della ritorsione, a riversarsi entro una parata oceanica? Fornisci, piuttosto, loro Netflix per condizionarli, qualche serie televisiva. Intrattienili. E non rivoluzionare tutto dall’oggi al domani. Sii silente. Pian piano diffondi l’idea che il lavoro precario sia meglio, garantisca maggiore libertà rispetto al fisso. In cinque-dieci anni, tutti ne saranno persuasi. Chi non si convincerà, soccomberà come gli altri, solo con la vana consolazione della propria consapevolezza. 
 
L’intuizione di Stangerup 
Purtroppo, quasi nessuno dei grandi autori è riuscito a essere così freddo nelle sue analisi. La maggior parte si è lasciata prendere dal terrore per il suo tempo, come Orwell con il comunismo, e nel tratteggiare quello a venire ha calcato troppo la mano, scegliendo i colori più foschi, quelli dell’incubo. Al contrario, come ben dimostra il presente, la dimensione distopica – entro la quale effettivamente viviamo – ha caratteri molto meno smaccati, in cui il negativo appare sovente come positivo. Ciò aveva ben compreso il danese Henrik Stangerup con il suo L’uomo che voleva essere colpevole, edito nel 1978 e recentemente ristampato da Iperborea Edizioni. Dal suo avamposto situato nel cuore del socialismo scandinavo, egli intuì la piega che la situazione europea avrebbe preso di lì a pochi anni. 
Il romanzo è la storia di Torben, uno scrittore ex sessantottino. La Danimarca in cui vive è apparentemente un Paese che ha realizzato molte delle conquiste per cui tanti avevano lottato negli anni precedenti. Non c’è povertà, tutti hanno un lavoro o un sistema di welfare adeguato che se ne faccia carico, e la parità uomo-donna è assoluta. Questa apparente condizione di stabilità diffusa trova però il suo contraltare in uno Stato che nega qualsiasi aspirazione individuale, o culto della personalità. Conta solo la comunità. Si vive più o meno tutti in supercondomini, i pasti si consumano insieme. Persino nelle discussioni è proibito aggredirsi verbalmente, abbandonarsi al livore, o insultare – proprio come oggi su Facebook. 
 
La dittatura del politicamente corretto 
Il politicamente corretto è d’obbligo. Altrimenti intervengono degli «Assistenti», molto simili ai nostri assistenti sociali, che ti invitano a trovare altri spazi per sfogare la tua rabbia, cercando più che altro di sopprimere tale dimensione. Se non crei eccessivi problemi e il tuo malessere è assimilabile a una semplice inquietudine, sono loro stessi a passarti delle pillole per l’umore – i nostri attuali psicofarmaci, anche lì diffusissimi. La letteratura non subisce censura, se non quella per bambini che viene alleggerita dalla presenza di eroi e situazioni violente. In compenso, ricevono finanziamenti solo le case editrici che pubblicano romanzi sociali, cioè su persone che dapprima vivono male la vita comunitaria, per poi scoprirne la bellezza. 
Esiste inoltre un istituto volto a lavorare sul linguaggio. Non è propriamente così duro come quello di 1984. Assomiglia casomai al sogno boldriniano di una revisione della lingua che non discrimini la donna e che tramuti in positivo qualsiasi concetto che potrebbe essere inteso come negativo – le tasse troppo alte, per esempio, vengono definite «contributo volontario». Questo istituto opera inoltre per veicolare una certa idea di società. Le donne, dal momento in cui si decide che debbano lavorare, vengono distinte in attive, se lavoratrici, e passive, se casalinghe. Naturalmente, le prime sono lodate e le altre messe in cattiva luce. 
 
In questa dittatura del politicamente corretto, il protagonista uccide la moglie che oramai non sopporta più, essendo questa divenuta incredibilmente acquiescente al sistema. Dopo averlo fatto vorrebbe essere dichiarato colpevole, ma ciò non è possibile. Nella distopica Danimarca raccontata nel libro, non si uccide per malvagità, ma perché spinti «dalle circostanze» – più o meno come una «risorsa boldriniana», secondo un giudice, non vuole realmente violentare, ma non sa delle differenze di costumi tra il suo Paese e il nostro. Eppure Torben vorrebbe proprio questo, riacquistare il suo diritto a essere colpevole, rivendicare la sua libera scelta, il suo non essere semplicemente un ingranaggio della società momentaneamente inceppato. Il testo risulta praticamente impossibile da sintetizzare e si presta a milioni di altre più sottili riflessioni – non per niente Anthony Burgess, l’autore di Arancia Meccanica, volle dare il suo contributo con una entusiastica postfazione. Ciò per cui spicca, però, è per essere stato il solo a comprendere come realmente le dittature passate si sarebbero trasformate, divenendo più subdole, adattandosi ai tempi.  
Solo Houellebecq, con Sottomissione, riuscirà a raggiungere questo livello.  
 
Ma dovranno trascorrere quasi quattro decenni. 
Licenza Creative Commons  29 Gennaio 2020
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