Servizio  
 
 
 
Questo Sito non ha fini di lucro, né periodicità di revisione. Le immagini, eventualmente tratte dal Web, sono di proprietà dei rispettivi Autori, quando indicato.  Proprietà letteraria riservata. Questo Sito non rappresenta una Testata Giornalistica in quanto viene aggiornato senza nessuna periodicità. Pertanto non può essere considerato, in alcun modo, un Prodotto Editoriale ai sensi e per gli effetti della Legge n.62 del 7 Marzo 2001.
 
 
Scarica il PDF della situazione
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Interni
Esteri
Cultura
Parolatio
Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
Si avvisano i lettori che questo sito si serve dei cookie per fornire servizi e per effettuare analisi statistiche completamente anonime. Pertanto proseguendo con la navigazione si presta il consenso all' uso dei cookie..
Da Platone e Aristotele a Pound: la filosofia contro l’usura 
di Ninni Raimondi
 
Da Platone e Aristotele a Pound: la filosofia contro l’usura 
Nei testi dei filosofi della Grecia antica, in particolare in quelli di Platone e Aristotele (i due “maestri” immortalati da Raffaello al centro del suo affresco sulla Scuola di Atene) non mancano riflessioni sull’economia, un termine che, derivando dalla combinazione di oikos (“dimora”) e nomos (“legge”), indicava anticamente le regole pratiche per la saggia amministrazione della proprietà domestica o, in senso estensivo, della terra dove si è nati e si vive (la patria ovvero, per i greci, la polis, la città-stato). 
Tali considerazioni, però, non costituivano ancora una scienza economica propriamente detta, autonoma rispetto alle altre forme del sapere, che emergerà solo in epoca moderna con le pubblicazioni del Tableau économique di F. Quesnay (1758) e della Ricchezza delle nazioni di A. Smith (1776). Per i pensatori greci, infatti, l’economia, lungi dall’essere oggetto di una riflessione indipendente, rientrava nel dominio dell’etica, dell’indagine morale (oltre che della politica), rispetto a cui svolgeva un ruolo ancillare analogo a quello che, nella Scolastica medievale, la filosofia rivestì nei confronti della teologia. I filosofi dell’Ellade, infatti, discettavano «della vita buona, dello stato giusto, dell’uomo felice e, poiché erano convinti che il denaro non dava né saggezza né felicità, essi si preoccupavano di suggerire non il modo per aumentare la ricchezza, ma il modo per subordinare l’attività economica alle finalità morali»[1]
Posta tale premessa, nella corposa produzione platonica e aristotelica si trovano comunque disseminate anticipazioni di temi e di concetti dell’economia politica moderna, quali per esempio, in Aristotele la distinzione embrionale tra valore d’uso e valore di scambio di un bene. Tra questi spunti non poteva, ovviamente, mancare una riflessione teorica sulla moneta (in greco nomisma), la cui comparsa è fatta risalire dagli storici alla metà del VII secolo a.C. presso i greci della Ionia, e su finalità e modi del suo utilizzo; una riflessione, questa, al cui interno compare una critica del prestito a interesse sostanzialmente identificato con la pratica dell’usura. 
 
Platone e il divieto della moneta 
Già nei dialoghi politici di Platone (428-347 a.C.), la Repubblica e le Leggi, il cui tema è la descrizione di una polis “ideale” dotata di una costituzione (politeia) conforme a equità e giustizia, traspare la diffidenza per la smania di guadagno e la tendenza all’accumulazione di denaro che capovolgono la naturale gerarchia dei valori, ponendo al primo posto quel desiderio di ricchezze materiali che, invece, dovrebbe correttamente occupare la terza posizione, dopo la cura dell’anima e quella del corpo. 
Secondo l’autore della Repubblica, nell’economia della polis perfetta si deve ricercare infatti una via di mezzo tra l’eccesso di povertà e quello di ricchezza, non solo perché la divisone tra abbienti e indigenti spaccherebbe la polis in due città contrapposte minandone l’unità, ma anche perché la disparità di condizioni economiche tra i cittadini sarebbe foriera di instabilità politica e sociale. Come osserva infatti Socrate, l’alter ego di Platone nel dialogo, rispondendo nel libro IV ad Adimanto: «l’una [la ricchezza] produce lusso, pigrizia e moti rivoluzionari, l’altra [la povertà] grettezza e scadente lavorazione, oltre ai moti rivoluzionari». Un tema, questo, che è ripreso dall’Ateniese (anch’egli alter ego di Platone) nel libro V delle Leggi, dove si afferma che, se i fini della legislazione della colonia immaginaria di Magnesia (la cui edificazione è oggetto del dialogo) sono la felicità e la concordia dei cittadini, allora nella nuova polis, per garantire il conseguimento di tali scopi, non dovranno esserci «né la gravosa povertà né la ricchezza». Ne consegue che il legislatore deve fissare d’autorità un limite (calcolato non in denaro, ma in lotti di terreno) per la ricchezza e per la povertà degli abitanti della colonia. 
 
Tornando alla Repubblica, nel libro III, discutendo con Glaucone dello stile di vita dei “guardiani” (i phylakes ovvero l’élite di reggitori-filosofi a cui è affidato il governo della città ideale), Socrate, richiamandosi al mito delle tre stirpi (quella d’oro, quella d’argento e quella di ferro o bronzo), affronta il tema della moneta affermando che «non è pio [per i guardiani] contaminare il possesso dell’oro divino [la virtù che essi portano nell’anima] mescolandolo a quello dell’oro volgare», la detenzione del quale sotto forma di moneta è causa di comportamenti “empi” ovvero non conformi a giustizia. Se dunque il denaro è indegno del reggitore-filosofo, che avendo una “anima d’oro” disprezza l’oro materiale, e se l’amore per il denaro è tipico di quella forma politica degenere che è la “timocrazia”, si capisce perché nella Repubblica ai guardiani (ma non alla massa dei produttori) «non è concesso di maneggiare e di toccare oro e argento» (ovvero sono loro preclusi il possesso e l’utilizzo di moneta). Un divieto analogo è pronunciato, per la costituzione di Magnesia, dall’Ateniese (sempre nel libro V delle Leggi), dove si afferma che, fatta salva la quantità di moneta necessaria agli scambi quotidiani, «non è possibile a nessun cittadino privato possedere assolutamente né oro né argento». È all’incirca in questo punto del dialogo che Platone, ancora per bocca dell’Ateniese, oltre a introdurre una forma di autarchia monetaria (la colonia avrà una sua moneta “di servizio”, funzionale agli scambi tra cittadini, ma priva di corso legale al di fuori di essa), introduce il divieto del prestito a interesse, sancendo che «è lecito a chi ha ricevuto il prestito non restituire affatto né l’interesse né il capitale». Il prestito a interesse è così inserito tra i mezzi di illecito arricchimento ed equiparato, in contrapposizione all’agricoltura, a “turpi” mezzi di guadagno quali, per esempio, quelli «legati alla vendita del bestiame». 
 
Aristotele e la “sterilità” del denaro 
Pur nella diversità, rispetto a Platone, dell’impianto teoretico generale, anche in Aristotele (384-322 a.C.), che concentra la sua attenzione sulla tecnica di produzione/appropriazione delle ricchezze o crematistica (da ta chrémata: “beni”, “sostanze”), si ritrovano spunti polemici verso un’idea dell’economia che pone l’accento sulla mera accumulazione/moltiplicazione di beni materiali come fine in sé e non come mezzo di soddisfacimento dei bisogni naturali dell’uomo. 
In questa ottica rientra, non a caso, il biasimo riservato a coloro che, vivendo con l’ossessione di accrescere le proprie sostanze, «si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si estendono all’infinito, pure all’infinito bramano i mezzi per appagarli [cosicché] tutta la loro energia si spende nel procurarsi ricchezze» (Politica, libro I). 
Di notevole importanza sono, inoltre, le considerazioni di Aristotele sulla moneta, della quale il filosofo mette in luce la natura convenzionale e la cui introduzione, in sostituzione al baratto, egli fa risalire all’estensione dei commerci oltre l’ambito delle comunità locali (di villaggio o cittadine). In particolare, Aristotele vede chiaramente il rischio di un utilizzo improprio della moneta nella misura in cui essa si mette al servizio di quella attività “innaturale” (cioè non correlata al soddisfacimento di bisogni naturali come sono, invece, la pastorizia, la pesca e la caccia) che è l’“arte di guadagnare” e diventa, come interesse sul prestito, una fonte impropria di accumulazione di ricchezza. Secondo il filosofo, che nella Costituzione degli Ateniesi attesta, tra le cause discusse nei tribunali attici del V-IV secolo a.C., «il mancato pagamento degli interessi sul prestito di denaro», la parola “interesse” (tokos) viene da tiktein, “generare”, nel senso che «l’interesse è moneta [generata] da moneta» (Politica, libro I).  
 
Questa etimologia non deve trarre in inganno, in quanto la “nascita” di denaro dal denaro non corrisponde all’utilizzo naturale del medesimo. Aristotele, piuttosto, condanna il prestito a interesse proprio in virtù della sua innaturalità, poiché contrario al principio della “sterilità” della moneta (secondo cui è opposto a natura l’uso del denaro “per fare altro denaro”). Il brano della Politica in cui si tratta il tema dell’usura, infatti, non lascia spazio a equivoci interpretativi: «si ha pienamente ragione a detestare l’usura, per il fatto che i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò [lo scambio] per cui il denaro è stato inventato […] sicché questa [l’usura] è tra le forme di guadagno la più contraria a natura» (Politica, libro I). 
 
Contro l’usura: da Aristotele a Ezra Pound, attraverso Dante 
La polemica di Aristotele contro il prestito a interesse attraversò i secoli medievali, durante i quali la Scolastica non solo teorizzò la peccaminosità dell’usura in quanto «furto del tempo che non appartiene che a Dio, perché fa pagare il tempo trascorso tra prestito e rimborso», ma riprese anche l’idea della sua contrarietà al principio della “sterilità del denaro”, motivo per cui Tommaso d’Aquino, «citando Aristotele […] dice: nummus non parit nummos, “il denaro non partorisce denari”»[2]
 
La condanna dell’usura, risalente ad Aristotele e passata ai medievali, riecheggia anche in Dante («ch’usura offende/la divina bontade»; Inf. XI, 95/96) e, tramite l’Alighieri, in Ezra Pound, che «colse soprattutto da Dante il modello che l’ha confortato a tentare [nei “Cantos”] la moderna versione della Divina Commedia, includendovi come lui il problema della moneta, dei falsari, dell’usura riconsiderata aristotelicamente come delitto contro natura e contro l’arte» (G. Accame. Ezra Pound economista, Firenze, 2017).  
 
Fu proprio Pound, che nel Canto XLV aveva riproposto la convinzione antica dell’usura come “peccato” («peggio della peste è l’usura»), a tributare un omaggio ad Aristotele nel Canto LXXIV (il primo dei Cantos Pisani), alludendo alla Politica del filosofo in una delle sue invettive contro «i due imbrogli più grandi» che sono le speculazioni sui tassi di cambio della moneta e, ovviamente, il prestito di denaro a interesse usurario. 
 
 
[1] F. Duchini, Storia del pensiero economico, Milano, 1985 
[2] J. Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Bari, 2020 
Licenza Creative Commons   17 Febbraio 2020
2013
2014
2015
2016
2017
2018
2019