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Il panopticon digitale ai tempi del coronavirus 
di Ninni Raimondi
 
L’epidemia del coronavirus, fra i tanti cambiamenti che ha imposto alla nostra società, ha consentito al capitalismo della sorveglianza di accrescere notevolmente l’efficienza dei suoi apparati di controllo. Il lancio dell’applicazione Immuni costituisce in tal senso un notevole passo in avanti, e rappresenta l’esito inevitabile di una società dove tutto deve essere monitorato e tracciato. La società trasparente non ammette zone d’ombra, ed è proprio in questa sua volontà di rendere visibile e pubblico ogni aspetto dell’esistenza, persino il più intimo, che risiede la sua violenza totalitaria. D’altronde siamo noi stessi a consegnare le chiavi delle nostre vite a chi è in grado di trarne profitto. 
In una società sempre più interconnessa ogni nostro gesto produce un’immensa quantità di dati, e questi dati raccontano tutto di noi: dove siamo, che cosa facciamo, cosa ci piace. Si pensi ad esempio all’importanza che i Big Data hanno assunto per la strategia marketing delle aziende, le quali grazie all’utilizzo di queste informazioni riescono a conoscere in tempo reale i gusti e le abitudini dei loro clienti, fino al punto di suggerire e indirizzare le scelte di acquisto. Il totalitarismo della trasparenza abolisce il confine tra pubblico e privato, e rende impossibile sfuggire al Panopticon digitale, la nuova frontiera del controllo sociale ai tempi del coronavirus. 
 
Un mondo privo di silenzio e profondità 
Del resto, come aveva evidenziato René Guénon, l’odio per il segreto è una delle caratteristiche principali della mentalità moderna. Ed esso non si esprime solamente attraverso i dispositivi di sorveglianza, ma anche nella scomparsa di ogni lacuna nella comunicazione. La comunicazione è animata da un horror vacui che la porta a coprire tutti gli spazi, a vedere nello iato un ostacolo per la proliferazione incessante di immagini, dati e informazioni. La società trasparente, dove ogni cosa è perfettamente illuminata e nella quale è scomparso quello che Schmitt chiamava l’arcanum, produce un mondo di segni senza significato, un mondo dove le cose si assottigliano sempre di più fino a divenire pura superficie. Un mondo privo di silenzio e profondità, nel quale ogni mistero è dissolto, ha qualcosa di opprimente oltre che di mostruoso. Poiché è nel silenzio che lo Spirito parla, è dalla profondità che affiora la potenza trasfigurante del Mito. 
 
Riaffermare il valore della distinzione 
Anche nell’antica Grecia alla base dei Misteri c’era un elemento ineffabile, frutto di un’esperienza interiore non suscettibile di essere comunicata agli altri. La bellezza che incanta è quella di un corpo che non si concede interamente allo sguardo, che custodisce qualcosa di inaccessibile: gioco sottile dello svelare e del nascondere, senza questo velo la bellezza si riduce a pornografia, ovvero alla negazione stessa dell’erotismo.  
Il vero amore non si rivela mai totalmente, le verità più essenziali sono inesprimibili a parole.  
 
Di fronte all’avanzare della tirannia di una trasparenza che tutto appiattisce e uniforma, e che ha trasformato il mondo in uno sconfinato deserto, è necessario riaffermare il valore della distinzione, della differenza irriducibile a questo sfondo omogeneo, e della sacralità inviolabile della nostra anima.  
E comprendere che è dal silenzio e dalla profondità che sgorgano quelle forze che sole donano senso alla vita. 
 
Perché in ogni deserto bisogna scavare fino a trovare quell’acqua da cui, con Jünger, riaffiora nuova fecondità. 
Licenza Creative Commons  4 Maggio 2020
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