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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Il Punto
Due parole? 
di Ninni Raimondi
 
Facciamoci una bella carrellata di opinioni! 
Dunque dicevamo ... 
 
 
 
 
         
 
 
Il governo si inginocchia ai Benetton: il nuovo ponte di Genova in gestione ad Autostrade 
 
Il nuovo ponte di Genova sarà gestito da Autostrade per l’Italia, ossia proprio la stessa azienda del gruppo Atlantia (di proprietà della famiglia Benetton) legata a doppio filo (e con non poche responsabilità) al crollo del ponte Morandi, in cui il 14 agosto 2018 hanno perso la vita 43 persone. A darne conferma, dopo le indiscrezioni stampa, è il ministro dem di Infrastrutture e trasporti Paola De Micheli: “Sì, sì, la lettera al sindaco Bucci l’ho firmata io“, chiarisce ai microfoni di 24 Mattino su Radio 24. 
 
De Micheli: “In questa fase il concessionario è Aspi” 
Il ponte progettato da Renzo Piano pertanto “va al concessionario”, che è Aspi, per l’appunto. “Ho mandato una lettera perché abbiamo avuto una riunione in cui il sindaco Bucci ha chiesto quali dovessero essere i percorsi: la procedura collaudo, la consegna post inaugurazione”, spiega la De Micheli. “Ovviamente in questa fase il concessionario è Aspi e questa vicenda è soggetta a una fase, dopo questo percorso, sulla revoca (della concessione, ndr) e sulle manutenzioni. In questa fase questa è l’opzione – ribadisce il ministro Pd – e ho firmato e inviato” la lettera al commissario per la ricostruzione Bucci. “Comunque un concessionario ci sarà sempre”, precisa la De Micheli. 
 
I 5 Stelle da anni chiedono la revoca ai Benetton 
Quella che a detta del ministro dei Trasporti sembra una pura formalità è invece un fatto clamoroso: alleati del Pd nella maggioranza giallofucsia ci sono i 5 Stelle, che da 2 anni si battono per revocare la licenza ai Benetton. Ora sembra che i grillini abbiano consumato un voltafaccia anche su questo fronte, avallando la decisione del governo Conte di affidare la gestione del nuovo ponte ad Aspi. 
 
Toti: “Dopo 2 anni di minacce ponte riconsegnato ad Autostrade” 
“Dopo due anni di minacce, immobilismo, proclami, giustizia promessa e rimandata il ponte di Genova verrà riconsegnato proprio ad Autostrade, come ha ordinato il governo M5S-Pd”, commenta il governatore ligure Giovanni Toti. “Penso ai grillini che promettevano, sulle macerie del Morandi, che avrebbero tolto subito le concessioni. Voi ridate il ponte ad Autostrade senza ottenere nulla. Noi – fa presente Toti – continuiamo a lavorare per l’interesse dei liguri. E intanto per la tragedia del Morandi e per le sue 43 vittime nessuno ancora ha pagato. Mentre a Roma litigavate, noi in Liguria almeno abbiamo ricostruito il ponte. Forse abbiamo ringhiato meno di voi… ma visti i risultati…”, conclude il leader di Cambiamo! 
 
Dal canto suo, il Movimento 5 Stelle si è chiuso nel silenzio stampa. Attendiamo con impazienza una giustificazione per questa ennesima resa in nome della difesa della poltrona. Intanto i Benetton ringraziano. 
 
 
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Partiti dal Bangladesh con la febbre, arrivati a Roma con test falsi.  
 
E adesso è scattato l’allarme, perché su un volo provenienti da Dacca sono stati riscontrati 36 casi positivi. Sull’aereo arrivato dalla capitale bengalese c’erano in totale 258 passeggeri a bordo. In pratica un viaggiatore su otto aveva il coronavirus. La scoperta ha indotto il ministro della Salute Roberto Speranza, in accordo con la Farnesina, a bloccare tutti i voli provenienti dal Bangladesh. Provvedimento restrittivo che si unisce alla quarantena obbligatoria già prevista per le persone che arrivano in Italia da nazioni extra Ue ed extra Schengen. “Dopo tutti i sacrifici fatti non possiamo permetterci di importare contagi dall’estero. Meglio continuare a seguire la linea della massima prudenza”, ha detto Speranza. 
 
Certificati falsi 
Decisione tempestiva o tardiva? Sia come sia, se fossero stati individuati e isolati tutti i casi positivi la questione si porrebbe relativamente. Il problema è che, stando a quanto ricostruito da Il Messaggero, i contagiati dal coronavirus arrivati a Roma nelle ultime settimane da nazioni extra-Ue potrebbero essere centinaia. Si ipotizza addirittura che siano 600, in base alle statistiche degli analisti che si occupano di indagini epidemiologiche alla Regione Lazio. Non sono insomma numeri certi, ma verosimili perché basati sulla percentuale calcolata in base ai contagiati rilevati sul volo atterrato a Fiumicino lo scorso lunedì, proveniente appunto dal Bangladesh. 
Ma come mai nessuno ha fermato questi passeggeri? E’ probabile, altrimenti si sarebbe verificata un’inquietante falla nei controlli, che molti viaggiatori abbiano mostrato certificati di negatività al Covid rilasciati dalle cliniche locali della nazione asiatica. Documenti probabilmente falsi o artefatti anche perché, sempre secondo quanto ricostruito dal quotidiano romano, in Bangladesh basterebbero tra i 36 i 52 euro per acquistare un’attestazione sanitaria falsa. 
 
Falle nei controlli? 
“Tutti possono comprare questo certificato, è molto facile, c’è grande corruzione”, ha dichiarato Mohammed Taifur Rahman Shah, presidente dell’Associazione Italbangla, a Il Messaggero. Oltretutto imbarcarsi a Dacca è piuttosto facile: basta mostrare un documento che attesti la propria negatività al test del coronavirus nelle 72 ore precedenti. Ma il presidente dell’associazione Italbangla, intervistato da AdnKronos, evidenziando la mala gestione del Bangladesh ha parlato pure di mancanza di controlli da parte del governo italiano. “Sicuramente sono stati fatti errori dal governo del Bangladesh, che ha lasciato passare tutti, e da quello italiano che non ha controllato chi entrava in Italia”, ha dichiarato Shah. “Nel nostro Paese la situazione legata ai contagi è un disastro, non ci sono cure mediche e la gente sta cercando di scappare con ogni mezzo», ha precisato Shah. 
 
 
 
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Grazie Allah per il coronavirus  
 
Arrestato a Milano jihadista sostenitore dell’Isis 
Questa notte è stato arrestato a Milano un sostenitore dell’Isis. Si tratta di un italiano originario di Bari ma residente nel capoluogo lombardo che, secondo gli inquirenti, si era «radicalizzato» a partire dal 2015. L’arresto è stato effettuato dai carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Milano. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa dal Gip del Tribunale ordinario di Milano su richiesta della locale Procura della Repubblica. L’accusa per lo jihadista è quella di istigazione a delinquere aggravata dall’uso del mezzo telematico. 
 
Se un italiano diventa jihadista 
L’uomo, 30 anni, si chiama Nicola Ferrara, e si era distinto per aver fatto propaganda sul web in favore dell’Isis, esortando gli altri utenti a unirsi alla jihad global per schiacciare gli infedeli. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, Ferrara avrebbe svolto negli ultimi cinque anni un’opera di diffusione massiccia di immagini, audio e video di chiara matrice terroristica. I mezzi di propaganda erano soprattutto i social network, in particolare Sound Cloud e Facebook, piattaforma su cui l’uomo era presente con il profilo «Issa Ferrara». Tra i contenuti condivisi dallo jihadista ci sarebbero immagini di Bin Laden e delle Torri Gemelle, di Al Baghdadi e dei foreign fighters, ma anche di bambini armati che si dicono pronti a uccidere gli infedeli. 
 
Coronavirus voluto da Allah 
In un’intercettazione che risale al 27 marzo 2020, quindi in piena emergenza coronavirus, lo jihadista avrebbe inoltre affermato che la pandemia «è una cosa di Allah, una cosa positiva», poiché «la gente sta impazzendo» e per i miscredenti «tutto l’haram adesso è difficile farlo», nel senso che – costretti al confinamento – gli italiani non potevano più uscire di casa e macchiarsi di altri peccati. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, Ferrara – oltre a fare propaganda su internet – avrebbe anche frequentato l’associazione culturale Al Nur di Milano, di chiaro orientamento sunnita. 
 
 
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Il ponte Morandi non basta 
 
Il porto di Genova e la Liguria pagano il disastro della viabilità 
In Liguria le infrastrutture versano in uno stato pietoso. La situazione non è molto diversa nelle altre regioni d’Italia, ma a Genova si vive in uno stato d’emergenza da mesi. E non è neanche bastata la ricostruzione a tempo di record del ponte Morandi per risollevare la regione. 
 
La ricostruzione del ponte Morandi come esempio 
Sono passati quasi due anni dal crollo del viadotto Polcevera (noto anche come ponte Morandi o ponte delle Condotte). Era il 14 agosto del 2018 quando la sezione del ponte che sovrasta la zona fluviale e industriale di Sampierdarena, lunga circa 250 metri, crollava insieme al pilone occidentale di sostegno (pila 9) provocando 43 vittime fra gli automobilisti che transitavano e tra gli operai presenti nella sottostante area. La città di Genova rimaneva divisa a metà. Una ferita difficile da rimarginare. 
Tutti credevano che sarebbero servito tanto tempo per ricostruire ciò che era distrutto. In realtà le cose andranno diversamente. In soli 20 mesi la ricostruzione era quasi completata. La ricetta di questo successo è semplice: non applicare le regole vigenti. Una procedura ordinaria avrebbe richiesto progettazione, verifiche gare d’appalto e ricorsi vari. La ricostruzione del Polcevera ha seguito un iter diverso: nomina di un commissario unico (il sindaco del capoluogo, Marco Bucci), assegnazione diretta alle ditte esecutrici e un finanziamento destinato ad un progetto specifico. È stato un successo che però resta un’isola felice in un caos che non risparmia neanche i porti, e soprattutto quello di Genova. 
 
Cosco “sconsiglia” il Porto di Genova 
La città della Lanterna ha ricevuto un brutto colpo nei giorni scorsi. La compagnia marittima cinese Cosco ha inviato ai suoi clienti una missiva sconsigliandoli vivamente di utilizzare il porto di Genova per le proprie spedizioni e suggerendo scali italiani alternativi. Una vera e propria batosta. Stiamo parlando di un colosso che è il terzo operatore mondiale dei container, davanti ai francesi di Cma Cgm e alle spalle del leader danese Maersk Line e della compagnia svizzera Msc (Mediterranean Shipping Company). Cosco ha sede a Pechino, la sua flotta è composta da più di 800 navi per un tonnellaggio complessivo che supera 56 milioni di tonnellate. 
Il Sole 24 Ore ha intervistato Marco Donati (direttore generale della compagnia cinese in Italia), il quale ricorda che “la società cinese è presente a Genova dal lontano 1963”. Secondo il dirigente “è la prima volta che ci troviamo a gestire una simile emergenza. I camion non riescono a entrare nel porto, il casello di Genova Ovest bloccato nelle ore cruciali ed i container fermi da giorni sui piazzali perché il cliente non può ritirarli”. Il colosso asiatico vale il 7-8% del porto di Genova. Anche Federlogistica-Conftrasporto lancia un appello per salvare quello che è il principale sistema portuale italiano. Così Luigi Merlo, presidente della Federazione della logistica: “Il sistema portuale della Liguria rappresenta quasi il 50% del traffico container di “destinazione finale”, motore indispensabile per le attività di export delle imprese del nord ed è il primo sistema portuale per il crocierismo, settore che deve essere messo subito in condizione di ripartire. Negli ultimi 20 anni i tre porti liguri sono cresciuti tantissimo mentre la viabilità non solo non è accresciuta, ma è peggiorata”. Il riferimento ad Autostrade per l’Italia è puramente voluto. 
 
Autostrade nel caos 
La crisi del sistema viario della Liguria è dovuto ai lavori finalizzati a mettere in sicurezza svariati tratti autostradali. Negli ultimi giorni la situazione è peggiorata per l’aumento dei volumi di traffico dovuti alla fase post confinamento. Gli amministratori locali e le associazioni di categoria chiedono spiegazioni al governo. La risposta è sempre la stessa: è una questione di sicurezza. Così almeno sostiene il ministro dei Trasporti Paola De Micheli. In una nota su Facebook la De Micheli precisa: “Non potevamo rinviare i controlli, come qualcuno ci chiede, perché non si può mettere tra parentesi la sicurezza. Per la Liguria vogliamo la sicurezza che non accada più quello che purtroppo è avvenuto nel passato: quando è stato pagato un tributo inaccettabile”. E chi potrebbe darle torto? Sulla tempistica, però, è lecito chiedersi perché gli interventi non sono stati fatti prima. Forse in inverno le autostrade erano più sicure? Difficile da credere. Come possiamo uscire, dunque, da questa emergenza? Semplice: basta non applicare la procedura ordinaria come è stato fatto per la ricostruzione del ponte Morandi. La burocrazia è il peggior nemico dell’efficienza. 
 
 
 
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Spiegato bene. Ecco perché il Mes non ci conviene 
 
Nel corso degli ultimi giorni la macchina della propaganda ha lavorato a pieno ritmo. Quella del governo? Macché: difendere Conte e l’esecutivo giallofucsia è ormai una missione suicida. Parliamo di quella chiamata a sponsorizzare il Mes, sul cui utilizzo la maggioranza sta dibattendo da settimane. E’ tutto un profluvio di titoli a nove colonne, interviste agli alti papaveri del Meccanismo (un po’ come chiedere all’oste se il vino è buono), tentativi di ricondurre a più miti consigli i maggiormente riottosi. Un battage mediatico che tuttavia si nutre, pur partendo da una manciata di dati reali, di non poche falsità. 
 
Il Mes fa veramente risparmiare? 
Partiamo dall’unica (mezza) verità: il Mes conviene? Numeri alla mano, apparentemente sembra essere così. Da un punto di vista operativo, il Meccanismo – che potrà erogare all’Italia fino al 2% del Pil 2019, quindi all’incirca 36 miliardi di euro – opera emettendo titoli e applicando sul costo della raccolta una commissione prima di girare queste risorse agli Stati. Attualmente sul nostro titolo decennale paghiamo interessi attorno all’1,2%, mentre il Mes erogherebbe il suo prestito a poco più dello 0,1%. La differenza – circa 330 milioni l’anno sui 36 miliardi di finanziamento – sarebbe il risparmio netto per le nostre casse. 
Ma è davvero così? Sì e no. Anzitutto perché, come detto, il Mes si finanzia sul mercato. Si tratta quindi di un prestito non a tasso fisso – come invece sono i Titoli di Stato, se non collegati all’inflazione o alla crescita, come il Btp futura in corso di emissione in questi giorni – bensì variabile. Oggi i tassi sono bassi grazie anche e soprattutto all’attivismo della Bce, ma non è detto che debbano restare così per sempre. In caso di aumento, infatti, questo si ripercuoterebbe a cascata anche sulle somme che lo Stato debitore è chiamato a rimborsare. 
Certo, questo inficerebbe di poco il risparmio di cui si è detto: in caso di rialzo dei tassi, anche i Btp dovrebbero pagare quel “di più” per poter essere collocati. Il ragionamento non considera però che, dall’avvio del Quantitative easing in avanti, una quota non indifferente (oltre 300 miliardi) del debito pubblico italiano è detenuto da Banca d’Italia, che “gira” – tecnicamente si parla di “retrocessione” – la pressoché totalità degli interessi maturati sui titoli al suo principale azionista, il ministero dell’Econonia che su tali titoli paga quindi (quasi) zero. 
 
Le condizioni di accesso 
C’è poi tutto il capitolo delle condizioni – o condizionalità che dir si voglia – alle quali il Mes è soggetto. Posto che non parliamo della versione “standard” del Meccanismo ma della linea di credito PCS (Pandemic Crisis Support), la sua azione è comunque soggetta a precisi vincoli, riassunti chiaramente nel relativo “term sheet”. 
In esso si parla dell’impegno ad utilizzare le risorse messe a disposizione per finanziare le spese dirette o indirette legate all’epidemia di coronavirus, anche in termini di prevenzione. Questo non significa che ogni intervento sia ammissibile: d’accordo il potenziamento (anche preventivo, come detto) delle terapie intensive, d’accordo i maggiori fondi per le strutture di emergenza ma arrivare a dire, come ha fatto il responsabile economico di Italia Viva Luigi Marattin, che possiamo utilizzarli “per rifare tutti i pronto soccorso d’Italia” è palesemente falso. Non meglio è andata con il segretario del Pd Nicola Zingaretti che, fra tagli e chiusure di ospedali nella regione che amministra, ha trovato il tempo di lanciarsi a scrivere un libro dei sogni su come usare i 36 miliardi (anche e soprattutto per spese che il Mes non vede l’ora di censurare). 
 
Le condizioni ex post (qui casca l’asino) 
Se è vero che in termini di accesso al Mes l’unica condizione ex ante è quella di una coerenza tra motivo dell’erogazione del prestito (la pandemia) e l’utilizzo dello stesso, è sulle condizioni ex post – quindi successive all’accredito della somma – che casca il proverbiale asino. 
Non più tardi di due giorni fa, intervistato da Repubblica, il segretario generale del Meccanismo Nicola Giammarioli assicurava che i fondi concessi “non portano a condizionalità ex post, austerity o ristrutturazione del debito”. Parole simili a quelle pronunciate dai commissari Ue all’Economia, Valdis Dombrovskis e Paolo Gentiloni, che escludevano qualsiasi vincolo futuro. Una curiosa interpretazione della gerarchia delle fonti, dato che dal punto di vista giuridico il Mes si appoggia al terzo comma dell’articolo 136 del Tfue, il quale recita: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità“, nonché – in termini possiamo definirle di “disposizioni attuative”, al regolamento 472 del 2013, il quale fa spuntare ovunque sistemi di controllo, monitoraggio e programmi di aggiustamento macroeconomico ovviamente secondo i desiderata di Bruxelles. Ebbene, né la previsione del Trattato né il regolamento sono stati abrogati o (ammesso sia possibile) temporaneamente sospesi. Lasciando quindi intatto l’impianto originario dell’equazione Mes = Troika. 
C’è chi ha fatto notare che il regolamento tenderebbe ad escludere – in sede comunitaria la chiarezza non è mai stata una virtù, lasciando così più spazio ai rapporti di forza che alla forza del diritto – che la linea di credito “pandemica” possa seguire l’iter descritto sopra, ma il già citato term sheet parla chiaro: astutamente non sotto la voce “condizioni” bensì sotto quella “monitoraggio” viene esplicitato che si applicheranno tutte le misure di sorveglianza del caso, ivi incluso il cosiddetto “Early warning system” e cioè la fissazione tutta nordeuropea di “dare la pagella” al debito pubblico italiano per giudicarlo sostenibile o meno. Indovinate come andrà a finire con il rapporto debito Pil previsto, viste le misure per arginare gli effetti economici della pandemia con il secondo in picchiata a causa del confinamento, in rapida ascesa anche oltre il 160%? 
 
Il Mes è un creditore privilegiato 
I 36 miliardi erogati dal Mes, in ultimo, portano con loro una peculiarità. Pur essendo una quota pressoché infinitesimale nel mare magnum del nostro debito (e andrebbero peraltro ad aumentarlo), quest’ultimo ne risulterebbe “segmentato”. Oggi tutti i detentori del titoli di Stato italiani sono considerati su uno stesso piano, mentre il Mes si collocherebbe su una posizione di primazia: i suoi crediti godono infatti di un privilegio, per cui in caso di difficoltà nel rimborso, come da punto 13 delle premesse del trattato istitutivo il Meccanismo verrebbe soddisfatto in via preventiva – privilegiata, per l’appunto. Questo non significa dire che l’Italia sia a rischio default, ma implica che tutti gli altri creditori vengano considerati come subordinati rispetto al Mes. Il che, a cascata, potrebbe portare i “normali” investitori – quelli che acquistano i titoli di Stato in sede di asta – a richiedere rendimenti maggiori come premio per il (ipotetico, ma non più escludibile nel momento in cui hai diviso i creditori tra figli e figliastri) rischio. Vanificando così anche il risparmio di cui si è detto. 
 
 
 
 
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Bene, alla prossima 
 
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Statemi bene 
 
Ninni Raimondi 
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