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Basta con il mito della “spallata” 
di Ninni Raimondi
 
Basta con il mito della “spallata”.  
Caro centrodestra, così perderai anche a Roma 
 
Basterebbero forse le 277 pagine di Io sono il potere (Giuseppe Salvaggiulo per Feltrinelli, lettura consigliata) per far capire per quale motivo il centrodestra l’anno prossimo andrà a sbattere dolorosamente anche a Roma.  
In ogni singola riga di quel libro viene spiegato chiaramente che no, le piazze piene non sono i migliori sondaggi possibili, e che, no, le persone giuste da conoscere non sono quelle scamiciate nei vicoli ma sono al contrario quelle impalpabili, fantasmatiche, evanescenti ed eteree, e che non hanno una pagina Facebook o un profilo Instagram. Non postano agnolotti in brodo e non mandano bacioni o manga. Scrivono solo lettere veloci e stilizzate, ‘bachi’ in gergo, stringono solo le mani giuste, conoscono tutte le persone che servono, funzionali per un sincero e razionale esercizio del potere. 
 
Rosari e agnolotti non sono il potere 
Crowley scriveva ‘lascia che i miei servitori siano pochi e segreti e che essi governino i molti e i conosciuti’.  
Non lo cito per una sterzata nostalgica di esoterismo prestato all’analisi politologica ma solo perché ha tragicamente ragione: il potere non è la vecchietta che ti cucina lo stufato o il prete che ti regala il rosario, il potere non ha volto, e nemmeno fisionomia da immortalare in una oleografica quotidianità da esibire come a dire “io sono come voi”. E sta qui il problema, in quel “voi”. Perché, e lo dico sin da quel tragico e ridicolo al tempo stesso colpo di testa agostano in cui tutto fu perso (il potere quando lo hai te lo devi tenere a ogni costo: in questo, e solo in questo, bisognerebbe prendere esempio dai comunisti, invece di postare accorati ricordi della Rossanda), nel “voi” c’è una massa informe che però prende ordini e input da altri individui, quelli grigi e sfuggenti che governano categorie, mondi produttivi, sistemi sociali: sono loro i sondaggi, non quelle mani battute in piazza.  
Perché se loro ordineranno alla frettolosa claque di piazza di cambiare orientamento e di andarsene a votare per l’altra parte, quelli obbediranno a capo chino e tu ti ritroverai con un pugno di mosche dopo tanta fatica fisica. 
Non vi è mai capitato di chiedervi, ansimanti e delusi, “ma come abbiamo fatto a perdere se tutti in una piazza piena ci battevano le mani?”.  
 
Ecco.  
Il centrodestra al centro-sud (per intenderci, Roma compresa) si è imbarcato nella costruzione di uno strampalato progetto nazionale che è del tutto privo di quei contatti, di quelle mani strette in maniera coerente: niente tavoli di lavoro, niente rapporti istituzionali, incapacità endemica di proporre una attività che goda di credibilità davanti gli occhi che davvero contano. A pensarci, sembra quasi impossibile coltivare questa epica dell’insuccesso considerando che ci troviamo nel cuore di una crisi economica montante senza pari, nelle mani di un governo incompetente, incapace e scarsamente attrattivo. Eppure l’opposizione riesce nella non facile impresa di essere ancor meno attrattiva: sconta il peccato peggiore di tutti, il non essere percepita come una alternativa seria e credibile.  
E tutto questo a Roma si amplifica, in negativo. 
 
Chi comanda davvero a Roma? 
Roma è una città elefantiaca, titanica e che si basa su alcuni cardini ben precisi: nessuno di questi è anche solo vagamente compreso dal centrodestra romano. Non conta una bella piazzetta piena quando alle spalle le porte dei palazzi che davvero contano ti sono ermeticamente sigillate. La vittoria elettorale a Roma passa per un incontro tra dodici persone, non per un comizio da mille cittadini tripudianti.  
C’è una geografia del potere chiara, cristallina ma che pure sfugge in ogni suo elemento al centrodestra: la prosopopea di certe altezzose figure che credono di esercitare un qualche potere politico cadrebbe in frantumi se solo sapessero di quale considerazione godono davvero nelle teste e nei pensieri di chi detiene il vero potere romano. 
 
Analizziamo alcuni punti essenziali.  
I contatti istituzionali con mondo economico, categoriale e produttivo: sono radi, sporadici, scarsamente organizzati. Non ci sono tavoli permanenti, non ci sono ‘ufficiali di collegamento’ tra sfera politica e mondo produttivo e categorie. Mentre la contro-parte li ha, e li fa funzionare a pieno regime. I contatti con il potere: qui siamo al nulla completo. I grand commis, le alte sfere magistratuali, i detentori del potere amministrativo non sono mai stati davvero lambiti da una opera di tentato approccio per gettare un proficuo ponte. Non c’è nessuna figura di rilievo nel cdx romano che goda della stima di questi soggetti. La consiliatura Alemanno è e deve restare come severo monito su tutto ciò che non deve essere mai fatto. 
La macchina amministrativa: una città che vive praticamente solo di terziario, pubblica amministrazione e che ha 40 mila dipendenti (tra dipendenti diretti dell’ente e delle partecipate) implica una conoscenza capillare dei meccanismi funzionali dell’amministrazione. Anche qui si registra una scarsissima presenza e una ancora più scarsa visione di insieme. 
 
Mancanza progettuale e incoerenze programmatiche: le assenze e le lacune gravissime nei primi due punti si trasformano nella assenza di una guida, di una luce nella elaborazione progettuale, intendendo per progetto non una lista dei sogni o della spesa o peggio ancora un insieme di slogan, ma alcuni punti chiave corroborati dall’accreditamento dei potentati. E per sviluppare un progetto coerente, che goda di una seria, non episodica sponda presso categorie capaci di modificare il corso di una elezione, serve una coerenza interna: non si possono far coesistere tra loro punti del tutto antitetici, tanto per rimpolpare la carne esangue di un programmino da vendere come in una televendita di Mastrota. Devi conoscere le categorie, le devi “coltivare”, conoscere i loro problemi, le loro istanze, dialogarci seriamente, non saltellare facendo promesse o inanellando vuoti slogan. 
Gestione satrapica del coordinamento: la destra romana, da sempre, ha una propensione antropologica alla faida, alla iper-frammentazione e al verticismo direttoriale che finisce per inaridire qualunque progettualità. Questo aspetto si è innervato anche nel “nuovo” centrodestra, che filtra tutto sempre attraverso le stesse persone. Questi capetti, il cui ego è inversamente proporzionale alla loro preparazione culturale, politica e strategica, si scontrano con la realtà politica fattuale: ovvero quella che decide il vero vincitore prima del ricorso alle urne, spostando gli autentici flussi elettorali.  
La “destra sociale” non ha alcun futuro, prima lo si capisce meglio sarà. 
 
Chi comanda davvero?  
Su Roma manca una classe dirigente. Lo dico sine ira et studio. Lo hanno rilevato per mesi anche gli organi di informazione, e pure quelli non pregiudizialmente ostili. E’ un dato di fatto, si è liberi di indignarsi, di non crederci ma quello è. D’altronde lo si vede nella azione politica episodica, frammentaria, piuttosto abborracciata, in alcuni rimessa sulle spalle di singoli volenterosi, magari pure preparati ma lasciati a loro stessi, nelle iniziative che gira e gira vanno sempre a parare nella piazza e mai nella torre (per riprendere l’immagine del volume di Niall Ferguson, La piazza e la torre, di cui pure consiglio la lettura).  
Manca una linea di comando limpida e collegiale. 
Il centrodestra a Roma: manca una vera “squadra” 
 
In questi ultimi mesi ci siamo resi conto (non è plurale maiestatis) che le porte sono serratissime per il centrodestra. Le mani che contano non le stringeranno. Le federazioni e le associazioni esponenziali di interessi produttivi guardano ad altra parte. E non per ideologia, per pregiudizio, ma per totale sfiducia in chi loro percepiscono come affetto da mancanza di competenza, di affidabilità e di preparazione. Per quel guazzabuglio-minestrone nemmeno riscaldato che costituisce la forma del “programmaW di cui discorrevo prima. Nella sfiducia nella idea di una ipotetica “squadra”. Perché non serve uscirsene fuori con un candidato attrattivo: serve una enorme squadra dietro, capillare, attenta, preparata. 
Ed io invece vedo solo il tragico ritorno in scena di polverose cariatidi che serviranno solo per rinfocolare le polemiche della politica.  
Eppure su Roma, come su Torino, si consumeranno le velleità della ennesima “spallata” (è dalla Emilia Romagna che ronza questo mitema destinato sempre a infrangersi), con una differenza discretamente drammatica: questa volta andare a sbattere avrà il peso amaro del tramonto definitivo del progetto nazionale, farà esplodere le incoerenze e i dissapori interni, determinerà fughe di massima, Canosse e transumanze.  
 
Certo, ci si può consolare in maniera dolente con il ritenersi in crescita, più rappresentativi sui territori, ma no, non funziona così: da queste parti più che guardare alle percentuali di Zaia bisogna prendere atto del trend campano e pugliese. 
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