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Lo schema dell'”odio di destra” 
di Ninni Raimondi
 
Lo schema dell'”odio di destra”  
Il pensiero di Popper smaschera Lerner e compagni 
 
La notizia della morte di don Roberto Malgesini, il prete impegnato nell’assistenza agli immigrati ucciso a Como (stando a quanto riferisce al momento la stampa) da un senzatetto straniero che, oltre ad avere precedenti penali, sarebbe stato anche oggetto di più di un decreto (inapplicato) di espulsione, ha, come ovvio, riacceso il dibattito sugli effetti negativi (e nel caso in questione tragici) dell’attuale gestione politica del fenomeno immigratorio. 
 
Omicidio don Malgesini, la supercazzola di Caritas e Lerner 
Tra gli (scarsi) interventi in proposito dei guru intellettuali della sinistra, alcuni forse rimasti alla finestra in attesa che si pronuncino due freschi esperti di “cultura fascista” come Fedez e Chiara Ferragni, spicca quello di Gad Lerner, un cui tweet dedicato alla vittima riporta il comunicato della Caritas diocesana di Como, l’ente alle cui iniziative assistenziali il sacerdote ucciso prestava la sua collaborazione. Lerner, infatti, ha condiviso senza commenti (quindi, di fatto, approvandole) le parole di Roberto Bernasconi, direttore della Caritas comasca. La sua è una citazione alla lettera, ma parziale, in quanto egli sorvola (evidentemente per ragioni di spazio) sull’incipit del comunicato, che sarebbe in sé e per sé anche condivisibile («[Don Malgesini] Era una persona mite, ha votato tutta la sua vita agli ultimi, era cosciente dei rischi che correva. La città e il mondo non hanno capito la sua missione. Questa tragedia è paragonabile a un martirio, voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone»), per focalizzarsi sulla seconda parte del messaggio, dove del tragico evento si abbozza un’interpretazione, diciamo così, ideologica (la cito alla lettera, così come la riportano sia Lerner che il quotidiano «La Stampa»): «È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno». Nel tentativo di individuare le ragioni dell’accaduto Lerner, citando Bernasconi, non si abbassa dunque a volgari e populistiche considerazioni quali potrebbero essere il legame tra la diffusione di fenomeni di micro- e (in questo caso) macro-criminalità e una politica dell’accoglienza indiscriminata che rivela ogni giorno di più il suo volto fallimentare. No, egli invece vola alto nei cieli rarefatti della politica e della psicologia sociale e sembra identificare la matrice dell’atto criminoso non, come sarebbe giusto, nel movente (qualunque esso sia) della «persona fisica» (il presunto reo), bensì nella reazione a un generico «odio» (si immagina, in questo caso, razziale) alimentato, non lo si dice esplicitamente ma lo si ricava dal sottotesto, dall’immancabile destra responsabile dell’atmosfera torbida e intollerante verso le minoranze in cui (e quel «smettiamo di odiarci» è emblematico) sarebbe oggi immerso, a suo parere, il nostro Paese. 
 
La teoria dell’«odio di destra» 
Potrebbe sembrare, di fronte al dramma di una vita spezzata, che le opinioni di Lerner siano tutto sommato irrilevanti, se non fosse per un elemento su cui è opportuno esercitare un qualche sforzo di analisi. Siamo qui di fronte a un modello teorico, lo si potrebbe chiamare la teoria dell’«odio di destra», che è divenuto lo schema interpretativo più utilizzato dall’intellighenzia gauchista (di cui Lerner è esponente riconosciuto) per dare conto, attraverso una reductio ad unum causale, di fatti di cronaca tra loro alquanto diversi quali, per citare gli episodi più recenti, l’omicidio di Willy Monteiro (dipinto come un caso di razzismo) o quello della ragazza uccisa dal fratello ad Acerra (in virtù di un movente collegato, con forzatura palese, alle critiche rivolte da più parti al disegno di legge contro l’omofobia). Insomma, che si tratti dell’assassinio di un prete per mano di un immigrato irregolare, del pestaggio a morte di un ragazzo colpevole solo di essere intervenuto per sedare una rissa, dello speronamento di una giovane donna per mano di un parente legato a una repulsione primitiva e magica della diversità sessuale, tutti questi fatti sarebbero spiegabili nei termini della teoria dell’«odio di destra». Ovviamente le cose non stanno così, e occorre dimostrare quanto fragili siano le basi di questo schema interpretativo che rischia di essere reso egemonico (nel senso gramsciano del termine) dall’assoluta predominanza che la sinistra si è costruita nel mondo della comunicazione e dei media. Occorre dunque smascherare la fallacia che si cela dietro lo schema, decostruirlo, come direbbero i colti che hanno studiato i pensatori contemporanei, mettendone a nudo i presunti fondamenti logici. 
 
La falsificabilità delle teorie scientifiche 
In questo sforzo di smascheramento viene in aiuto l’epistemologo austriaco Karl Popper, un autore che a Lerner dovrebbe anche piacere se non altro perché, cimentandosi nella filosofia della politica, egli produsse quella teoria della società aperta a cui si ispira l’Open Society di Soros. Solo che questa volta, e con fondate ragioni, Popper può essere usato contro Lerner e contro lo schema da lui condiviso. Vediamo il perché. Popper affrontò, soprattutto nella sua Logica della scoperta scientifica (1959), il problema dello statuto delle scienze (di quelle della natura e, per estensione, di quelle umane) e sostenne che una teoria è da dirsi scientifica (con tutto il carico semantico positivo che, nell’immaginario collettivo, si associa al termine scienza) solo se può essere non verificata, bensì falsificata dall’esperienza (intesa perlopiù come somma delle osservazioni empiriche condotte in laboratorio). Se una teoria non soddisfa questo elementare requisito, allora essa non è parte della scienza ma della metafisica, ovvero è un qualcosa di completamente destituito di scientificità. Detto nel non facile linguaggio popperiano: «Un’asserzione o teoria è […] falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente [ma anche sperimentalmente] in conflitto con essa». In termini più semplici, «domani pioverà o non pioverà» è un’asserzione che non si può smentire, dunque non è scientifica, mentre lo è l’asserzione, confutabile dai fatti, che «domani pioverà».  Qualcuno, a questo punto, si potrebbe chiedere cosa c’entri questa disquisizione epistemologica con quanto condiviso da Lerner sull’omicidio di Don Malgesini. Ebbene, essa c’entra eccome, viene da rispondere, poiché lo schema interpretativo «la destra alimenta l’odio», essendo capace di spiegare il fatto di cronaca A (ma anche B, C, D ecc.), obbedisce alla stessa logica delle asserzioni metafisiche indagate da Popper. O, per meglio, dire rientra tra quelle costruzioni teoriche che Popper assimilerebbe a teorizzazioni metafisiche. 
 
La scienza e la pseudoscienza 
Spieghiamoci meglio ricorrendo alla lettura del testo di una conferenza che lo studioso viennese tenne nel 1953 a Cambridge (e oggi riprodotto in una collezione di testi popperiani: K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino 2016) con il titolo “La scienza: congetture e confutazioni”. Nel più ampio contesto di una riflessione volta a individuare un «criterio per determinare […] lo stato scientifico di una teoria», ovvero la linea che stabilisce la  «distinzione tra scienza e pseudoscienza» (che è, come detto, la potenziale falsificabilità della teoria stessa), l’epistemologo mette a confronto la relatività di Einstein con tre dottrine che, fin dalla giovinezza, avevano suscitato il suo interesse: «la teoria marxista della storia [cioè il materialismo storico], la psicanalisi di Freud e la cosiddetta “psicologia individuale” di Alfred Adler [uno psicoterapeuta viennese attivo nel primo Novecento]». Ebbene, mentre la teoria einsteiniana appariva dotata di un potere limitato di spiegazione dei fenomeni naturali e si prestava a possibili smentite (dunque era scientifica), le altre tre «pur atteggiandosi a scienze, erano imparentate più con i miti primitivi che con la scienza», nel senso che il loro apparente punto di forza («il fatto che dette teorie erano sempre adeguate e risultavano sempre confermate») era in realtà il loro vero elemento di debolezza, ovvero ciò che ne palesava la non scientificità. In sintesi, argomentava Popper, il marxismo, la psicoanalisi e la psicologia adleriana erano teorie pseudoscientifiche per il loro abnorme «potere esplicativo» (infatti «sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano»), il che le rendeva sostanzialmente non falsificabili, e dunque metafisiche, sia sul piano logico sia su quello empirico. Banalmente, come scriveva Popper riferendosi al materialismo storico di Marx, con un’acuta osservazione che ci riporta idealmente a Lerner e al suo tweet, «un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione [in termini di classe e di lotta tra le classi] della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione […] e soprattutto, naturalmente, per quello che [il giornale] non diceva». Ovvero, portando un esempio che non è di Popper, la notizia di una rapina in banca doveva essere vista come riflesso della lotta economica di classe, nel caso di un quotidiano marxista; o, se era ricondotta a un mero episodio di criminalità sanzionabile penalmente, tale interpretazione non poteva essere che il riflesso dei pregiudizi classisti di un redattore borghese. 
 
Uno schema omniesplicativo 
C’è di più, nel testo popperiano a cui si è fatto cenno, poiché i fautori di queste teorie, i marxisti in particolare, non senza una certa dose (consapevole o meno) di arroganza intellettuale, tendevano sempre ad aggirare le possibili confutazioni al modello attraverso l’elaborazione di «ipotesi di salvataggio» che, in presenza di smentite fattuali,  implicavano la manipolazione sia della teoria sia dei fatti per garantirne la concordanza. Insomma, alla luce di queste considerazioni, l’argomentazione popperiana, oltre che solida, sembrerebbe perfettamente adattabile allo schema teorico omniesplicativo dell’«odio di destra» da cui si sono prese le mosse. Avvengono fatti criminosi, la cronaca registra delitti con protagonisti e contesti completamente eterogenei, e il modello dell’«odio di destra» pretende di spiegarli tutti chiamando in causa l’intolleranza nelle sue varie declinazioni (fascismo, razzismo, omofobia). Se poi i fatti non si adattano alla teoria (se, per esempio, nella tragica fine di Willy gli inquirenti da subito escludono il movente razziale), allora tanto peggio per i fatti: essi vengono rielaborati, per farli entrare a forza nello schema, oppure sono reinterpretati con l’ausilio di ipotesi ad hoc campate per aria come, nel caso di Colleferro, un humus culturale fascista in cui sarebbero cresciuti i presunti omicidi, laddove questa “cultura fascista” viene farsescamente identificata con uno stile di vita fatto di muscolarità narcisistica, bicipiti torniti e petti tatuati, propensione cieca a menare le mani.  
 
Si ricorra a Popper, dunque, per contrapporlo a Lerner.  
E il fatto che Popper chiami in causa, tra gli esempi di moderni «miti primitivi», oltre alle psicologie di Freud e Adler, anche e soprattutto il marxismo, ovvero la cultura filosofica e politica da cui Lerner proviene, e alla cui scuola ha imparato a leggere la realtà, ciò dovrebbe essere, per l’intellettuale gauchista e i suoi colleghi, un motivo di seria riflessione. 
 
 
Grazie per aver letto 
   Ninni Raimondi 
 
26 Settembre 2020
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