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Gli ebrei italiani e la “vivissima riconoscenza” a Mussolini 
di Ninni Raimondi
 
Gli ebrei italiani e la “vivissima riconoscenza” a Mussolini. Il concordato dimenticato 
 
«Mussolini ha un approccio inedito anche per l’epoca al tema del razzismo: filosoficamente, più che discriminare le altre razze […] cerca di innalzare antropologicamente la figura dell’italiano. […] credo che il Duce non sia mai stato convintamente antisemita, specialmente all’inizio, soprattutto se rapportiamo il suo pensiero a quello degli uomini e della cultura del suo tempo. Ma è indubbio che a un certo punto la rivoluzione antropologica che il fascismo porta avanti si colori anche di connotazioni razziali […] senza tuttavia mai giungere a tesi sterminazioniste». Così Adriano Scianca sintetizza, in un’intervista concessa ad Adnkronos e riportata dal Primato Nazionale, l’analisi sul razzismo mussoliniano da lui svolta nel saggio Mussolini e la filosofia. 
 
Il tema, si capisce, è delicato, anche perché ogni tentativo di un’equilibrata valutazione storiografica del periodo fascista deve fare tuttora i conti con il “macigno” rappresentato dalle leggi razziali o, più precisamente, dal Regio decreto del 17 novembre 1938 intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana. Si tratta, come noto, del provvedimento legislativo, preceduto da un Manifesto degli scienziati razzisti (luglio 1938) e dalla Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo (ottobre 1938), che introdusse (agli articoli 10-13) pesanti misure discriminatorie nei confronti degli ebrei italiani. Non è questa naturalmente la sede per ricostruire la storia della legislazione razziale fascista, né per tentarne una, seppure approssimativa, esegesi (nel senso di individuare i motivi che spinsero Mussolini a compiere un tale passo). L’introduzione in Italia, durante il Ventennio, di una normativa antisemita ha favorito comunque, nell’immaginario collettivo, un’identificazione de facto negativizzante tra fascismo e nazionalsocialismo, entrambi sussunti sotto l’etichetta di un generico “nazifascismo”, giustificata sulla base di un’asserita condivisione, da parte delle due ideologie e dei due regimi, della medesima visione razzista del mondo (il che, per inciso, è probabilmente uno dei motivi per cui Scianca, nell’intervista sopra citata, ha inteso precisare che in Mussolini, anche in quello della svolta razziale della fine degli anni Trenta, era assente la pulsione sterminazionista che invece animò la teoria e la prassi del razzismo germanico). 
 
Fascismo e antisemitismo: per un «razzismo spirituale» 
A prescindere dalla dubbia valenza storiografica della categoria di nazifascismo, già in più occasioni criticata, per l’inadeguatezza che la contraddistingue, da Renzo De Felice, sul rapporto tra l’antisemitismo fascista e quello hitleriano vanno svolte alcune considerazioni. 
Va innanzitutto sottolineato il fatto, per quanto ovvio e innegabile possa apparire, che “Auschwitz”, ovvero il sistema concentrazionario e il processo di deportazione e sterminio degli ebrei (e non solo) che vi si attuò, fu un prodotto del nazionalsocialismo tedesco e non del fascismo italiano. Sul piano teorico poi, occorre precisarlo, è ormai acclarata l’intenzione di Mussolini, nel momento in cui decise di attuare la svolta razziale, di attribuire al razzismo fascista una coloritura originale rispetto a quello germanico, insistendo più sulla dimensione metafisica della razza dello spirito e dell’anima che su quella biologica della razza del corpo. Una scelta, questa, su cui incise non poco il filosofo Julius Evola il quale, a partire dalla metà degli anni Trenta, aveva dedicato alla questione razziale diversi articoli e saggi (tra cui Il mito del sangue del 1937) finalizzati a delineare i tratti di un «razzismo spirituale» (o «tradizionale») e che fu, secondo l’opinione di De Felice citata nel saggio di Scianca, «una figura cruciale nell’evoluzione mussoliniana verso il razzismo, che il Duce voleva non ricalcasse troppo pedissequamente quello nazionalsocialista». 
Dal punto di vista fattuale, ancora, non si può non ricordare che, come ha evidenziato sempre De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi 1961), nel corso della guerra (almeno fino all’armistizio dell’8 settembre 1943) si ebbe da parte delle autorità militari italiane di occupazione in Francia e Jugoslavia un palese boicottaggio, avallato da Mussolini, delle deportazioni tedesche degli ebrei là residenti. Se più avanti, nel corso della breve vicenda della Rsi, si registrarono invece episodi di collaborazione fascista con i nazisti alle suddette deportazioni (ma vi furono, secondo quanto riporta De Felice, anche «casi di aiuto a singoli ebrei da parte di appartenenti alla Repubblica»), è pur vero che tali episodi andrebbero valutati con circospezione, soprattutto se si considera la condizione di sovranità limitata in cui si trovò a operare lo Stato mussoliniano nelle regioni sotto il suo, spesso solo nominale, controllo. 
 
Va inoltre osservato che le leggi razziali (a cui peraltro si dichiararono contrari gerarchi non certo di seconda fila come, per esempio, Italo Balbo) furono varate nel 1938 da un regime che era al potere (seppure, inizialmente, con caratteri non ancora compiutamente totalitari) dal 1922 e che era espressione di un movimento politico, il fascismo, attivo sulla scena italiana dal 1919. La constatazione che occorsero a Mussolini ben sedici anni per attuare una svolta razzista, laddove, in Germania, tra l’ascesa di Hitler al cancellierato e il varo dei primi provvedimenti antisemiti trascorsero poco più di due mesi, dovrebbe indurre a più di una cautela nel postulare una natura congenitamente antisemita del fascismo che avrebbe atteso solo il momento più adatto per palesarsi in manifestazioni discriminatorie concrete. Nella stessa elaborazione programmatica del fascismo, fin dai suoi albori, l’approccio antisemita alla questione ebraica è infatti pressoché inesistente, mentre l’affermazione che «nessun ebreo può essere Volksgenosse», ovvero “compagno di razza”, campeggia nel programma del Partito nazionalsocialista tedesco sin dal 1920. Conseguentemente, a differenza di quanto accadde in Germania con l’avvento al potere di Hitler, in Italia, dal 1922 al 1938, i circa 40mila ebrei residenti nella penisola non subirono alcuna discriminazione né persecuzione. Il consenso da essi prestato al regime, anzi, seguì le stesse oscillazioni di quello dei loro concittadini “ariani”, mentre è incontrovertibile che diversi ebrei furono, fino al varo della legislazione antisemita, fattivi sostenitori del fascismo, tanto nella fase del “movimento” che in quella del “regime” strutturato e consolidato. 
 
Gli ebrei fascisti e il caso di Margherita Sarfatti 
Renzo De Felice nota, a questo proposito, che «tra i partecipanti alla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, il 23 marzo 1919» vi furono almeno cinque israeliti (uno di questi “ebrei sansepolcristi”, l’interventista Cesare Goldman, fu colui che procurò la sala per il convegno) e che almeno tre ebrei «figurano nel martirologio ufficiale della “rivoluzione fascista”», mentre in 230 ricevettero il brevetto che attestava la partecipazione alla Marcia su Roma (il che spiega, tra l’altro, per quale ragione tra le categorie di israeliti “discriminate” – questa volta nel senso positivo di essere escluse dai provvedimenti antisemiti – dall’art. 14 della legge del 1938 fossero esplicitamente menzionati gli «iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-20-21-22»). 
 
A corroborare l’idea della convinta partecipazione al fascismo di una parte non indifferente dell’ebraismo italiano basterebbe anche ricordare, tra le tante, le figure di Guido Jung, nominato Ministro delle Finanze nel 1932, e di Teodoro Mayer (secondo De Felice «forse il suo più apprezzato [da Mussolini] consulente in materia finanziaria»), scelto nel 1931 come presidente dell’Istituto mobiliare italiano. Senza contare il ruolo svolto, già negli anni tempestosi della lotta per il potere, dai coniugi israeliti Cesare e Margherita Sarfatti. Quest’ultima, in particolare, che ebbe con il Duce una tormentata relazione sentimentale, fu, oltre che direttrice di Gerarchia e riconosciuta artefice del mito mussoliniano con la biografia Dux del 1926 («Romano nell’anima e nel volto, Benito Mussolini è una resurrezione del puro tipo italico, che torna ad affiorare oltre i secoli»), anche ispiratrice delle mosse politiche del capo del fascismo ai tempi della Marcia su Roma («Il 23 [settembre 1922]», scrive Rachele Ferrario in una biografia della scrittrice e attivista ebreo-veneziana pubblicata da Mondadori nel 2015, «Mussolini è ospite della Sarfatti al Soldo [la casa di campagna di Margherita presso Como] dove con lei metterà a punto i dettagli per il colpo di stato») e animatrice della politica culturale e artistica del regime per tutto il corso degli anni Venti. 
 
L’accordo del 1931 e lo statuto giuridico degli israeliti 
A parte i casi, sopra menzionati, di “ebrei fascisti”, non si può non ricordare in questa sede un episodio significativo, sebbene in verità poco noto, nella storia del rapporto tra il regime mussoliniano e gli ebrei prima delle leggi razziali, episodio che denota come, a quasi dieci anni dall’ascesa al potere di Mussolini, le relazioni tra il fascismo e gli israeliti italiani fossero improntate a un clima di sostanziale cooperazione. 
 
Si tratta dell’emanazione del Regio decreto del 30 ottobre 1930 intitolato Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del gennaio 1931, dunque a meno di due anni da quel Concordato con la Chiesa cattolica che aveva suscitato negli ebrei alcune apprensioni circa una possibile svolta clericale del regime (svolta che per essi, memori delle secolari discriminazioni subite sotto l’antico dominio papalino, avrebbe potuto rivelarsi densa di insidie). Il decreto, a firma di Mussolini e di re Vittorio Emanuele III, era destinato a restare in vigore ben oltre il Ventennio fascista (fu infatti abrogato solo nel 1989). Si trattava di un corposo testo di legge, suddiviso in cinque titoli con relativi capi e sezioni, per un totale di 69 articoli, inclusi i sette delle Disposizioni generali e transitorie, e definiva minuziosamente lo statuto giuridico degli israeliti come comunità religiosa autonoma. 
 
Frutto di laboriose trattative fra gli esponenti di punta dell’ebraismo italiano e il governo fascista (il quale, scrive De Felice, «accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico»), la nuova legge ebbe un’accoglienza molto favorevole da parte della grande maggioranza degli ebrei al punto che, già all’indomani della sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il presidente del Consorzio delle comunità Angelo Sereni «telegrafò a Mussolini la “vivissima riconoscenza” degli israeliti italiani”». Riportando alla luce questo episodio che testimonia come, per oltre un quindicennio, fascismo ed ebraismo abbiano potuto coesistere in Italia senza traumi di sorta, non si intende ovviamente edulcorare il dramma che rappresentò per gli ebrei il successivo varo delle leggi razziali, né sminuire le sofferenze che esse inflissero, nonostante le eccezioni dell’art. 14, a tutti gli israeliti, in particolare a quelli che nel fascismo avevano militato e che nel regime di Mussolini avevano sinceramente creduto.  
 
Resta però il fatto, di innegabile portata storica e dunque degno di essere ricondotto alla memoria, che ai Patti lateranensi stipulati con la Santa Sede fece seguito, da parte di Mussolini, la firma di un “concordato” con gli ebrei i quali, dopo le discriminazioni subite in passato nella penisola (in particolare, come detto, a Roma e negli altri domini pontifici), ottennero quel riconoscimento giuridico che nemmeno i governi del sessantennio liberale avevano loro concesso. 
 
31 Ottobre 2020
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