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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Recovery Plan il libro dei desideri 
di Ninni Raimondi
 
Recovery Plan il libro dei desideri (dell’Ue) di cui non sentivamo il bisogno 
 
Chiamarlo “piano di ripresa” (o “di rilancio” che dir si voglia) pareva brutto. Meglio celare tutto sotto una coltre di anglicismi. Aiuta a nascondere il fatto che nel Recovery Plan ci sono tante, tantissime esigenze Ue. E, di converso, pochissimo spazio per le reali necessità dell’Italia. 
 
Bruxelles ordina, il governo esegue 
Non poteva essere altrimenti, intendiamoci. Il piano – passaggio necessario per accedere alle risorse del Next Generation Eu, altrimenti noto come Recovery Fund – è scritto su precisi paletti indicati dalla Commissione. Il solito vestito a taglia unica che secondo gli euroburocrati dovrebbe calzare indistintamente per Italia e Slovenia, Germania e Lessumburgo, Danimarca e Portogallo. Bruxelles, dunque, detta legge su come spendere i soldi. I quali, ricordiamo, sono nostri. E per i quali, alla fine dei conti, rischiamo pure di dover pagare profumatamente. 
 
Se non sembra già abbastanza folle pensiamo che sul Recovery Plan è, tra le altre cose, persino caduto un governo. Comprensibile, da un certo punto di vista: le bozze elaborate dall’esecutivo Conte bis erano degne di un temino di quinta elementare. Non basta, tuttavia, cambiare l’inquilino di Palazzo Chigi perché muti la sostanza. Potrà pure essere scritto meglio, ma era e rimane un sunto della recente ideologia “green” e “digitale”, la melassa che ha invaso i palazzi del quartiere europeo nella capitale belga. 
 
Recovery Plan: con una mano danno, con l’altra tolgono 
Più di 220 miliardi. A tanto ammonta il Recovery Plan targato Italia. Oltre 190 dal Recovery Fund, i restanti 30 da ulteriori risorse nazionali. Destinati a cosa? Il documento è tutto un fiorire di digitalizzazione, banda larga, inclusione, produttività. Quasi un terzo delle risorse andranno al capitolo della cosiddetta “rivoluzione verde”, per gli amici “transizione ecologica”. Invariate, rispetto al passato, le risorse per la sanità: 19,7, insufficienti a coprire i quasi 40 miliardi di tagli patiti dal comparto negli ultimi anni. Tanto più che i fondi di cui stiamo parlando sono risorse una tantum, non certo strutturali. 
 
Elemento, quest’ultimo, che restituisce una chiave di lettura abbastanza desolante. Hai voglia, per dirne una, a parlare di riforma della pubblica amministrazione quando – grazie ai tagli, blocco del turnover e quindi delle assunzioni – siamo fra gli ultimi in Europa per numero di dipendenti statali. E senza possibilità di rimpinguare la dotazione, perché incombono sempre le raccomandazioni specifiche per Paese che ci parlano della necessità di proseguire nella cura dimagrante al bilancio dei ministeri. 
 
Contributo ininfluente allo sviluppo 
Stesso identico discorso per tutte le altre “missioni”. Anche senza parlare di dipendenti pubblici, nel Recovery Plan manca del tutto un’analisi delle più stringenti esigenze della nazione. Puoi sprecare fiumi di inchiostro a parlare ad esempio di riconversione verso una mobilità sostenibile quando il dissesto idrogeologico – di cui si parla, ma destinatario di risorse insufficienti – la fa da padrone e ogni alluvione si porta via strade, autostrade e ponti: dove passeranno le auto elettriche (a proposito: come viene generata l’elettricità per ricaricarle?) se non ci saranno più strade percorribili? 
 
E dov’è un’analisi relativa alla possibilità di soddisfare gli investimenti anche e soprattutto con quell’offerta interna che, al pari della domanda, è stata spazzata via dalla stagione dell’austerità? Parliamoci chiaro: soddisfando le linee guida Ue, il Recovery Plan non è – né poteva essere – orientato a fornire a noi un qualche sollievo. Tutt’altro: fatta eccezione per qualche componente (per fortuna le nostre partecipate statali sono ancora un’eccellenza), una discreta parte delle risorse che da Bruxelles affluiranno prenderanno quasi immediatamente la via dell’estero tra tecnologie per banda larga e 5G, mobilità sostenibile e pure per l’alta velocità. Perché è vero, ad esempio, che i Frecciarossa li produciamo ancora in Italia, peccato che l’AnsaldoBreda sia di proprietà giapponese. 
 
Non sorprenderà, a questo punto, conoscere l’impatto finale del piano. Da qui al 2026 il Pil è destinato, nella migliore delle ipotesi, a crescere di 3 punti in più rispetto allo scenario base. Un contributo praticamente ininfluente per una nazione che si trova in stagnazione da due decenni abbondanti per merito di quelle politiche imposte dagli stessi che oggi vorrebbero somministrarci l’elisir di lunga vita. 
 
23 Aprile 2021