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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Nomadland 
di Ninni Raimondi
 
Nomadland: sicuri che la McDormand che la fa in un secchio sia arte? 
 
sicodramma a sinistra: una lettrice di Repubblica smonta il pluri-premiato Nomadland, definendo il film come «lento», «deprimente» e «supponente», per di più incassando il plauso di Francesco Merlo, che risponde dando ragione alla Mereghetti di borgata: «La sua lettera è una lezione ai “critici” che hanno ormai una soggezione imbarazzante nei confronti di Oscar, Nastri, Leoni e Papere d’argento». Missiva e risposta stanno facendo il giro della rete, generando sdegno quasi unanime («il populismo del cinema», lo ha definito sprezzantemente Luca Sofri su Twitter). 
Vecchia e tediosa questione, quella del cinema diviso tra apprezzamento popolare e giudizio della critica, che richiama immediatamente lo sfogo liberatorio del ragionier Ugo Fantozzi contro La corazzata Potëmkin, che tuttavia, a differenza di quanto comunemente si crede, anche a causa del film di Luciano Salce, dura solo 75 minuti e si degna quanto meno di avere una trama. Non così Nomadland, che sembra anzi pensato appositamente per scansare con minuzia ogni possibile sbocco narrativo che potesse movimentare e dare un senso ai primi piani silenziosi, ai paesaggi brulli, alle scene di vita quotidiana, ai bisogni fisiologici, agli altri paesaggi brulli, agli altri primi piani silenziosi. Ciò non ha impedito al film della cinese Chloé Zhao di vincere il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, il Golden Globe per il miglior film drammatico e per la miglior regista e tre Premi Oscar per il miglior film, la miglior regia e la migliore attrice protagonista. 
 
Nomadland, una “diversità” che fa chic e non impegna 
Come si spiega tale, unanime successo? Forse con l’identità della regista, asiatica e donna, ma allo stesso tempo critica nei confronti dello Stato cinese e della sua cultura nativa: una «diversità» che fa chic e non impegna, dunque, buona da agitare come totem ma scongiurando l’imbarazzante eventualità di dover fare i conti con una vera diversità di punti di vista e di valori di fondo. Nomadland è inoltre un «film impegnato» come si crede che, da stereotipo, debba essere un «film impegnato»: un lento esercizio di stile e ruffianeria, con passaggi di un’ingenuità didascalica imbarazzante (ad esempio la passeggiata all’alba della protagonista, subito dopo il rendez-vous nel deserto, con il sole che sorge a fare da sin troppo telefonata metafora della serenità temporaneamente ritrovata). 
 
Passeggiando per i corridoi di Amazon  
Probabilmente in questo ricercato intellettualismo rientra anche la scelta consapevole di non dar seguito, come dicevamo, ad alcuna svolta narrativa. La protagonista lavora da Amazon? Ci aspetteremmo una denuncia delle condizioni di lavoro ai margini dell’impero big tech, la rappresentazione di ritmi disumani o di rapporti di caporalato feroci. Invece vediamo Frances McDormand passeggiare per i corridoi del magazzino con tutta calma, salutare i colleghi, sentirsi spiegare le norme sulla sicurezza… Sembrerebbe quasi una pacchia, se non fosse per il contorno: il lavoro stagionale e precario, la condizione, che parrebbe sistematica, di operai che vivono in furgoni, camper e mezzi di fortuna, come appunto la protagonista. Ma è una traccia che non viene percorsa fino in fondo. 
Poi assistiamo a un raduno nel bel mezzo del deserto di tutti questi nuovi nomadi, la classe operaia ulteriormente impoverita, tanto da dover rinunciare al «lusso» di una casa. Ci aspetteremmo una presa di coscienza sociale, un progetto collettivo di lotta o quanto meno il tentativo di dar vita a un’alternativa esistenziale. E invece ci ritroviamo con un rinfresco vegano e spiegazioni per defecare nei secchi. Anche la possibile sottotrama sentimentale fa capolino (con tutta l’inverosimiglianza del caso, farebbe notare un recensore aduso al bodyshaming, ma certo non il sottoscritto, non sia mai), ma resta solo abbozzata. 
 
Un contesto che meritava ben altro 
Per il resto nulla. Ed è un peccato, perché il contesto sociale rappresentato meritava di essere raccontato alla luce di una poetica che non sacrificasse 2500 anni di categorie artistiche aristoteliche sull’altare dell’autoreferenzialità autoriale. Parliamo degli impoveriti della crisi del 2007, una fascia di lavoratori già espulsi dal consesso civile ma non dal ciclo produttivo, né barboni né «sistemati», lavoratori precari che non hanno più un tetto ma hanno ancora un van. E che, particolare significativo, sono quasi tutti bianchi. Una categoria molto americana, ma che la crisi dovuta alla pandemia, unita a una generale americanizzazione dei costumi, delle mentalità e dei meccanismi sociali potrebbe presto far attecchire definitivamente anche qui. 
Un recensore pigro definirebbe Nomadland come la rappresentazione dell’altra faccia del sogno americano. Eppure si tratta di un film profondamente americano, dove gli spiantati che si ritrovano nel deserto, anziché preparare la rivoluzione, danno vita a una seduta di autocoscienza stile alcolisti anonimi. Verso la stessa condizione di sradicamento e naufragio sociale dei protagonisti il film adotta un atteggiamento ambiguo, che vorrebbe essere crudamente realistico ma che molto spesso si rivela quasi ammiccante. Ed è solo con una certa, segreta fascinazione per il degrado che si spiega l’indugiare su certi dettagli senza alcuna funzione narrativa (perché, altrimenti, entro i primi 40 minuti lo spettatore dovrebbe essere costretto a sorbirsi la McDormand che urina in un campo e poi che defeca in un secchio, con tanto di rumori e movimenti «tecnici» del caso sapientemente riprodotti?). 
 
Un po’ come per i film italiani sui giovani precari dei primi anni Duemila, sembra quasi che una determinata condizione sociale ed esistenziale venga denunciata ma allo stesso tempo inconsciamente esaltata, come in un elogio della miseria per la miseria, del brutto per il brutto. Il che spiegherebbe anche il transfert estetico che ha portato protagonista e regista a presentarsi agli Oscar con quell’outfit. Che tutto questo arrivi da una regista americana solo per vocazione, ma nata e cresciuta a Pechino, è solo l’ultima testimonianza del fatto che il male americano, come già avevano capito Locchi e de Benoist, non è solo in sé, ma anche e soprattutto in te. 
 
6 Maggio 2021