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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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di Ninni Raimondi
 
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Formula 1, addio a Max Mosley. Lo storico presidente Fia si è spento a 81 anni 
 
Il boss della Formula 1 Max Mosley è morto all’età di 81 anni nella sua casa nel quartiere di Chelsea, a Londra. 
 
Mosley, per 16 anni presidente Fia 
Max Mosley è stato presidente della FIA per 16 anni ed è una delle figure più influenti di sempre della F1. Figlio del famoso politico fascista britannico Oswald Mosley, fondatore della Unione Britannica dei Fascisti, è diventato famoso – suo malgrado – anche per essere stato protagonista di in un’orgia sadomaso resa pubblica dai tabloid inglesi. Sua madre era Lady Diana Mosley, la terza delle sorelle Mitford. Hitler partecipò persino al matrimonio segreto dei suoi genitori ospitato nella casa di Joseph Goebbels a Berlino nel 1936. 
 
Il ricordo di Bernie Ecclestone 
Max è stato un avvocato e pilota automobilistico dilettante che ha contribuito a far diventare la Formula 1 ancora più prestigiosa a livello mondiale insieme a Bernie Ecclestone. Quest’ultimo ha dichiarato al MailOnline oggi che è stato come perdere un fratello e ha ammesso che avrebbe voluto fare di più per difendere lui sulla scia dello scandalo sessuale nel 2008. 
 
Lo scandalo sessuale 
Max è sopravvissuto a sua moglie Jean Mosley, che ha sposato nel 1960 e gli è stata accanto anche mentre la sua carriera nella Formula 1 è stata oscurata dallo uno scandalo sessuale che, tuttavia, lo ha visto vincere una storica causa avente ad oggetto la privacy contro l’impero mediatico di Rupert Murdoch. 
 
La vittoria contro Murdoch 
Mosley apparve sulla prima pagina del News of the World mentre era protagonista di un’orgia sadomasochista. Il giornale l’aveva etichettata come una “orgia nazista malata”, ma un giudice ha stabilito in tribunale di non aver trovato prove di temi nazisti. Mosley vince la causa contro il tabloid poiché i giudici stabilirono che non c’era alcun interesse pubblico nella registrare clandestinamente l’incontro sessuale del dirigente di Formula 1 trapassato oggi. 
 
 
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Londra, nuova statua a Trafalgar Square: “Omaggio a trans prostitute” 
 
Un’opera realizzata con i calchi di 850 volti di trans è una delle proposte “artistiche” per il quarto podio di Trafalgar Square. 
 
Londra, il podio di Trafalgar Square 
Il podio di Trafalgar Square, costruito nel 1841 ma rimasto vuoto a causa della mancanza di fondi, è stato sede di una commissione continua di opere d’arte pubbliche negli ultimi due decenni. Sei opere di artisti tra cui Samson Kambalu, nato in Malawi, e Paloma Varga Weisz, con sede in Germania, sono state esposte alla National Gallery, che ha riaperto la scorsa settimana, oltre che online. 
 
Sadiq Khan: “Selezione internazionale” 
Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha descritto le proposte come “la selezione di artisti più internazionale fino ad oggi”. Il pubblico è invitato a dire la sua online. La commissione alla fine sceglierà le due sculture vincitrici, e annunceranno  a fine giugno la vincitrice. 
 
L’omaggio alle prostitute trans 
Tra le statue in pole position c’è Improntas dell’artista concettuale messicana Teresa Margolles. La scultura altro non è che i calchi dei volti di 850 persone trans, la maggior parte delle quali sono prostitue, disposte attorno al piedistallo a forma di Tzompantli, un teschio che rappresenta  civiltà mesoamericane. E dire che il peggio sembrava giunto con le minacce alla statua dell’ammiraglio Nelson … 
 
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Chi è David Barnea, il nuovo capo del Mossad 
 
Benjamin Netanyahu ha annunciato oggi il nuovo capo del Mossad, celebre servizio di intelligence esterno di Israele. Si tratta di David Barnea, che sinora aveva ricoperto la carica di vice capo del Mossad e assumerà ufficialmente il nuovo incarico il primo giugno, dopo il ritiro di Yossi Cohen. Quest’ultimo è rimasto per ben 38 anni alla guida del servizio segreto di israeliano. 
 
David Barnea, una vita nel Mossad 
David Barnea ha 56 anni, quattro figli e una lunga carriera nel Mossad. Per 25 anni ha svolto infatti ruoli operativi di primo piano e ha guidato le operazione di intelligence israeliane in varie parti del mondo. Oltre a prestare servizio in un’unità di ricognizione di élite dell’IDF (le forze armate di Israele), ha prestato servizio in molte divisioni del Mossad. In particolare spicca il ruolo da lui svolto al comando della divisione di reclutamento di spie e di vice capo della divisione di intercettazione elettronica di Keshet. Dal 2019 è il vice di Cohen e da tempo era emerso come papabile nuovo capo. La sua nomina era stata però congelata da diversi mesi, perché in Israele vi erano forti dubbi di natura legale – nonché di opportunità politica – sul fatto che un governo ad interim come quello attuale potesse nominare un nuovo leader del Mossad. 
 
“Un nuovo capo aggressivo” 
La “svolta” è arrivata adesso perché il procuratore generale Avichai Mandelblit ha informato il premier Netanyahu di non aver riscontrato particolari impedimenti legali riguardo alla nomina immediata di Barnea. “Gli auguro tutto il successo nel posto, e sono convinto che il nuovo direttore del Mossad farà grandi cose e continuerà a guidare il Mossad verso successi operativi e risultati significativi”, ha commentato lo storico leader Cohen. Cortese dichiarazione di circostanza, ben diversa da quella del primo ministro israeliano che ha subito spiegato cosa si attende da Barnea. Il suo compito “è impedire all’Iran di acquisire armi nucleari”, ha detto senza mezzi termini Netanyahu. Per il Jerusalem Post “l’impressione è che Barnea sia un capo del Mossad aggressivo”. Un cosiddetto falco nominato da un falco. 
 
 
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La tassa di successione? Inutile spruzzata di marxismo 
 
Partiamo dal fondo  
Matteo Orfini, quello che dava di gomito a Carola Rackete durante lo speronamento di una motovedetta della Guardia di Finanza, ha domandato su Twitter come mai in Italia non arrivi mai il momento di redistribuire la ricchezza e di restituire qualcosa ai giovani. Si riferisce ai diciottenni, e tra poco spiegheremo il perché. Mario Draghi ha dichiarato urbi et orbi che questo non è il momento di chiedere i soldi ai cittadini, ma di dargliene. Sorvolando sul fatto che se si trattasse di una richiesta, tutti noi potremmo gentilmente rifiutarla. Evitando di versare tasse ed imposte, prendiamo atto di quanto detto. 
 
La tassa di successione: un condensato di mediocrità e viltà 
Vi è un filo rosso che unisce i due fatti e si chiama Enrico Letta. Il quale ha pensato bene di partorire una boiata: istituire un bonus per i diciottenni finanziandolo tramite una nuova tassa di successione che dovrebbe colpire i cosiddetti ricchi. Spremendosi le meningi, tentando di apparire credibile, ha anche aggiunto che l’1% della popolazione – i famigerati riccastri – è normale che finanzi a suon di tasse speciali i meno abbienti. 
 
Prima di qualsiasi considerazione sulla mediocrità del pensiero espresso e sulla viltà traboccante da una proposta siffatta, ci permettiamo di ricordare al signor Letta che la platea di bisognosi è ampia. E si è ampliata grazie alla pandemia e alla gestione dissennata di quest’ultima ad opera anche del suo partito. E’ evidente che non accenneranno a migliorare, nonostante il rimbalzo del Pil del tutto fisiologico e che non deve dare false speranze. Tra qualche mese esploderà la bolla del blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione non potrà più essere erogata. Una miriade indefinita di famiglie sprofonderanno in una condizione economica peggiore della precedente, con evidenti ricadute anche sulla propria prole. 
 
Il calcolo di quanto potrebbe costare una misura simile non è possibile farlo. Oggi, ipotizzando 10mila euro per circa 280mila persone (come spiegato dal Pd stesso), si aggirerebbe attorno ai 3 miliardi di euro. Ripetiamo: la cifra degli indigenti aumenterà e quindi aumenterà anche il costo del bonus di Letta. Va da sé che, oltre ad imporre una sonora bastonatura al famigerato 1%, sarebbe necessario un cospicuo numero di morti e di successive eredità da spartirsi per poter imporre la tassa di successione. Probabilmente sarebbe necessario un altro anno di pandemia serrata con i conseguenti decessi. La nostra non è ironia ma semplice constatazione della realtà, e fa male prendere atto che la sinistra si muova sul crinale sottile della disperazione. A meno che Letta non voglia negare che alla base di un decesso, presupposto della sua tassa, vi è la disperazione di una famiglia. 
 
Diventati arcobaleno, rimangono marxisti 
Emerge in tutta la sua drammaticità la natura di certa politica che ritiene il cittadino un suddito su cui fare gli esperimenti che preferisce. La dottrina di partenza è marxista sebbene il rosso sia sfumato nell’arcobaleno, ma la violenza di base è rimasta la medesima. L’approccio alla libertà dell’individuo è sempre costante e immutato: loro si ritengono legittimati a disporre delle nostre vite e dei nostri averi, giustificando le proprie perversioni ideologiche con un sempre presente stato d’eccezione che giustificherebbe dette misure. 
 
Così è accaduto e accade con la pandemia, così Letta vuole che accada con la sua idea di bonus ai diciottenni. Utilizzando il generico concetto di povertà come ragione per rapinare i benestanti e far leva su dei meglio non precisati buoni sentimenti che dovrebbero contraddistinguerci. 
I denari o le proprietà che qualcuno lascia in eredità non sono il salvadanaio cui i piddini possono attingere per soddisfare i propri sogni. Quel denaro è frutto di redditi messi da parte e già sottoposti a imposizione fiscale.  
 
Stessa cosa vale per gli immobili sui quali si pagano tasse da capogiro.  
E in ogni caso le dinamiche familiari che hanno portato delle persone a vivere nel benessere non devono interessare a Letta e ai suoi colleghi. Ledere la libertà che è alla base della creazione della ricchezza che vorrebbero redistribuire significa prendere a calci la dignità delle persone che, nella loro ottica, debbono ambire a ricevere i bonus finanziati dalla tassa di successione.  
Non si tratta di una battaglia sulle idee, ma di una battaglia di libertà. 
 
 
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Quando Battiato tratteggiò il mondo distopico in cui siamo sprofondati 
 
Franco Battiato è andato oltre e oggi si sprecheranno fiumi di inchiostro sul misticismo manifesto di chi, assieme all’adelphica penna di Sgalambro, ha descritto la realtà che si cela fuori dal reale. Reale, o presunto tale, direbbe lui, perché irreale è anche l’Io che lo concepisce. C’è in effetti un Battiato essenzialmente impermanente e inafferrabile. Misantropo eppure amato da (quasi) tutti, perché in fondo indecifrabile. C’è chi in lui vede il richiamo all’origine, chi la stroncatura dei paradigmi tradizionali dati per inconfutabili. In fondo Battiato evocò di tutto: i presocratici, gli euclidei, gli induisti, i buddisti, i sufi, gli egizi, i riti tribali, Nietzsche, Guenon. 
 
Il Magic Shop di Battiato 
E insieme massacrò chi tutto questo invocava con superficiale cipiglio new age, nell’insuperabile Magic Shop. Perché se la falce non faceva più pensare al grano era al contempo vero che i Buddha ormai andavano sopra i comodini. Materia e spirito travolti dal nulla. Erano gli anni dei mantra venduti a mille lire, degli Hare Khrisna che importavano per le strade d’Europa l’esotismo del lontano subcontinente. E pure del gossip religioso, con “le rubriche aperte sui peli del Papa”. Ma erano anche gli anni di Battiato, sempre guidato dal tagliente e sprezzante gnosticismo di Sgalambro, che deduceva da una frase del Vangelo “che è meglio un imbianchino di Le Corbusier”. Non tutto il preteso misticismo è assente da materialismo. 
 
Oltre l’esegesi stucchevole 
E’ però stucchevole, forse inutile, darsi all’esegesi dei testi di chi ben più prosaicamente ha saputo emozionare milioni di italiani. Li ha fatti cantare, li ha fatti divertire, li ha accompagnati nella “stranizza d’amuri”. Qualunque cosa si pensi della sua musica, comunque la si legga, per la gran parte degli ascoltatori quelle erano soltanto bellissime canzoni. E va bene così, perché se non lo fossero state tutta l’interpretazione dell’apparato iconico da lui costruito non avrebbe alcun senso. Semplicemente nessuno se lo sarebbe filato. 
 
Ipercontrollo e distopie, dunque il nostro mondo 
Così come in pochi hanno considerato Fetus, il primo album di Battiato, il meno mistico e al contempo forse il più filosofico. Roba di nicchia, si dirà. Di ascolto difficile, poco d’impatto. Correva l’anno 1971 e l’artista catanese aveva appena 26 anni. Cantava allora ispirandosi a uno dei libri cardine della distopia narrativa: Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. “È incerto il processo mentale. La voce è marmo e cemento. Vivo malgrado me stesso. Difficile attuare il controllo. Attorno i miei occhi c'è nebbia”, scandiva meccanicamente Battiato. “Meccanici i miei occhi. Di plastica il mio cuore. Meccanico il cervello. Sintetico il sapore”. 
Di cosa parlava, cosa voleva far emergere?  
 
Nient’altro che quel limbo esistenziale in cui ci troviamo e in parte già ci trovavamo qualche decennio fa.  
Adesso c’è stata soltanto un’accelerazione verso l’ipercontrollo mentale, un nuovo reset, un nuovo mondo delle meraviglie che non meravigliano più. Battiato tratteggiava il futuro gettando elettronica, ante litteram, in un romanzo visionario degli anni trenta. “Processo di magia. Processo forse cieco. O forse illuminato. Da memoria senza passato”.  
Inquietudine della robotica, fascinazione e incubo di quello che sarebbe stato.  
 
E che forse è, adesso. 
 
 
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Ecco il “gioco grande” nel quale era entrato Giovanni Falcone 
 
La Corte di Caltanissetta, nella sentenza Capaci bis, ha individuato una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone» 
 
Giovanni Falcone ha spiegato molto bene perché in Sicilia si viene uccisi dalla mafia. Il riferimento è agli omicidi eccellenti, quelli che definiva di “terzo livello”, ma che non ha nulla a che vedere con la narrazione distorta che gli continuano, senza pudore, ad affibbiare. La mafia corleonese non era quella con la coppola in testa, Totò Riina non era un contadinotto. Non a caso, nel suo ultimo libro, Cose di Cosa Nostra, scritto a quattro mani con Marcelle Padovani, scrive quanto siano «abili, decisi, intelligenti i mafiosi» e, aggiunge, «quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa». Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis. 
 
Lo stesso Falcone scrisse come anche Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati 
Ma qual è il “gioco grande” che tanto viene tirato in ballo, travisando il significato molto più profondo che Falcone gli dava? Lui stesso, scrive nero su bianco nel libro Cose di cosa nostra, che gli uomini come Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. «Il condizionamento dell’ambiente siciliano – scrive Falcone -, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto». Più avanti diventa esplicito. Dice che si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un «gioco troppo grande». Quale? Non bisogna andare troppo lontano, ma molto più vicino di quanto uno pensi ed è talmente sconvolgente che mai nessun servizio televisivo ne parla nonostante sia agli atti. 
 
La sentenza della sentenza Capaci bis 
Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis depositata nel 2017. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: «Alla base di questa campagna di delegittimazione – scrive la Corte – vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche». 
Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa 
Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che «l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini». Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza. 
 
Le dichiarazioni di Angelo Siino e Giovanni Brusca 
Ma i Buscemi erano anche coloro che avrebbero avuto rapporti all’interno della magistratura. Ci sono due dichiarazioni dei pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca che sono state riportati nelle motivazioni della sentenza d’appello del Capaci uno. «Sul punto – scrive la Corte d’Appello -, Angelo Siino ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giammanco, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto “mafia-appalti” ed in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze». 
 
I rapporti tra i fratelli Buscemi e il gruppo Ferruzzi-Gardini 
C’è anche la dichiarazione di Brusca. «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ingegner Bini – scrive la Corte -, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome». 
 
L’importanza degli appalti per la mafia 
Falcone, che ha sempre esplicitato quanto sia importante la questione degli appalti riguardanti anche imprese nazionali (convegno del 15 marzo 1991 e che ha provocato la reazione dei Buscemi «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»), andava eliminato per un insieme di concause. Dall’esito del maxiprocesso, alle indagini verso anche Cosa nostra americana (da qui anche la loro attenzione per l’attentato, come è emerso dalle dichiarazioni dei pentiti e contatti telefonici con utenze americane) fino ad arrivare alla questione mafia-appalti. 
 
Andava eliminato con un’azione eclatante 
Falcone, quindi, andava eliminato attraverso un’azione eclatante. Dagli atti emerge che è stata condotta esclusivamente dalla manovalanza mafiosa. Gioacchino La Barbera, tra coloro che hanno partecipato all’attentato, mai ha parlato di soggetti esterni che hanno partecipato all’azione. Si è ricordato, a distanza di molti anni, di aver visto due soggetti “estranei” per pochi minuti rispettivamente presso la villetta dove era avvenuto il travaso dell’esplosivo e il casolare da ultimo scelto quale base logistica del gruppo: non ha attribuito a questi individui alcuna condotta significativa, tanto che egli ha specificato di avere ritenuto che si trattasse del proprietario dell’immobile o di un giardiniere. Brusca, colui che ha diretto la fase esecutiva e ha poi premuto il telecomando per azionare il tritolo, è stato chiaro sul punto. Alla domanda se nessun estraneo è mai intervenuto nelle operazioni, lui ha risposto: «Assolutamente no». 
 
Falcone andava a ledere i rapporti tra mafia e interessi economici 
La mafia aveva chiaramente adoperato in connessione con altri interessi. Il pentito Antonino Giuffrè ha esplicitato che i “motivi più gravi” che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione di Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo «andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafia e organi esterni», facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Falcone per i “livelli alti” della politica, specificando che «c’era questo intreccio tra Cosa nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare». 
 
Anche Borsellino aveva individuato il “gioco grande” 
Ecco il “gioco grande” che Falcone ben conosceva. Lo sapeva anche il suo collega e fraterno amico Paolo Borsellino che non a caso, ha deciso di approfondire quelle connessioni che lo hanno portato all’isolamento, alla solitudine, alla mancanza di fiducia in alcuni colleghi. Borsellino aveva individuato il “gioco grande”, tanto che Riina ha dovuto accelerare l’esecuzione dell’attentato di Via D’Amelio. Oggi si parla di altro, di “entità”, di trattative, “facce da mostro”, perfino di donne bionde. E forse ancora per tanti altri anni si andrà avanti con l’astratto e l’indefinibile. Ma poi conterà ciò che si tocca con mano. Ci penseranno i posteri, quando non sarà più possibile intossicare, manipolare e prendere in giro gli ignari lettori e spettatori. Accadrà che si potrà serenamente raccontare tutto ciò che è visibile agli occhi. A quel punto si potrà per davvero onorare la memoria di Falcone e Borsellino. 
 
25 Maggio  2021