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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Il calcio è tornato a casa 
di Ninni Raimondi
 
Il calcio è tornato a casa. Spieghiamolo a inglesi e semicolti del panem et circenses 
 
It’s coming home. Sta tornando a casa. Per tutta la durata del torneo i tifosi inglesi lo hanno detto, scritto e cantato come un mantra. Almeno fino al rigore di Saka. Poi è partito lo sfottò, dalla modifica in un divertente “it’s coming Rome” alla constatazione che forse, dopo tutto, ripetere ogni due secondi “it’s coming home” porta pure sfiga. Ma è davvero così? Ha effettivamente portato sfiga? A loro sicuramente sì, ma solo perché hanno evocato qualcosa di cui non sono minimamente consapevoli. Perché quando Donnarumma ha bloccato il rigore decisivo, quando tutti abbiamo esultato, quando Chiellini ha alzato la coppa, è successo veramente: il calcio è tornato a casa. 
 
Il calcio è tornato a casa. Breve storia di un dominio 
Perché parliamoci chiaro, il calcio è roba nostra e gli inglesi c’entrano con il calcio più o meno quanto l’ananas c’entra con la pizza. E non è una questione di discussione su dove sia effettivamente nato, se conta più Roma con l’harpastum o Firenze col calcio storico o Cambridge con le prime regole del 1848. Chissenefrega di dove è nato, sappiamo tutti che lo ius soli è una truffa e che il luogo dove nasci non ti caratterizza. E il calcio, signori, non ha nulla di inglese. Sappiamo tutti chi sono i veri padroni del calcio. C’è ovviamente il Brasile dei pentacampeones dove ogni ragazzino di qualunque favela accrocca degli stracci e delle pezze pur di fare un pallone e gioca fregandosene di tutto. C’è la Germania che tra mondiali ed europei ha il record di finali disputate (e anche di podi conquistati): quattro titoli mondiali con sette finali disputate, tre titoli europei con sei finali, e la frase storica di Gary Lineker che affermava “il calcio è semplice: si gioca 11 contro 11 e alla fine vince la Germania”. 
 
Non è un caso che quando si tratta di fare un cartone animato o un videogioco alla fine la squadra da battere è sempre il Brasile o la Germania. Volendo c’è anche l’Argentina che ha disputato quattro finali vincendone due, che in Sud America è la squadra più blasonata (proprio ora che ha vinto la Copa America raggiungendo l’Uruguay a quota 15 e staccando ancora di più il Brasile a quota 9). Germania-Argentina oltre ad essere un classico (è la partita più giocata nella storia dei mondiali, ben sette volte) è anche stata la finale più giocata nella storia: tre volte, 1986, 1990 e 2014. E poi, come tutti sanno, ci siamo noi. Italia-Germania e Italia-Brasile restano nell’immaginario mondiale come Le Partite di Calcio. Ricordo nel 1994, quando raggiungemmo le semifinali per la seconda volta consecutiva, la terza in quattro mondiali, uno sconsolato telecronista francese ammetteva “les Italiens sont toujours là”. Perché anche se non partiamo quasi mai favoriti, a differenza di altre nazionali, alla fine è sempre probabile vederci arrivare fino alla fine. 
 
L’Italia sopra tutti, contro tutti 
Quattro mondiali vinti, sei finali disputate, altre due volte fermati a un passo dalla finale. E in Europa due vittorie su quattro finali raggiunte, di cui tre nelle ultime sei edizioni. E il nostro calcio, il famoso e odiato “gioco all’italiana”, rimane sempre il più imitato perché il più vincente. Ogni tanto esce una nuova moda che ammalia i deboli di spirito che vorrebbero soppiantare il nostro calcio. Ma ogni volta è destinata a sparire nell’oblio come una nube passeggera. Il famoso calcio totale olandese è una specie di leggenda avvolta nelle nebbie del passato per chiunque sia nato a partire dagli anni ’80. La Francia ogni tanto sforna una generazione di fenomeni (molti dei quali, però, hanno giocato in Italia come quelli del 1998 e 2000) che però vince una volta su quattro di quelle in cui viene indicata come la favorita assoluta. Il noiosissimo tiki taka spagnolo lo abbiamo finalmente archiviato. La generazione di fenomeni belgi… ah no, quella non ha mai iniziato a combinare qualcosa. Noi, invece, siamo sempre là. A ricordare a tutti che un intervento duro ed esteticamente perfetto come quello di Chiellini su Saka vale mille passaggi in orizzontale, cento giocate con schemi totali con la difesa a centrocampo (che si fa sempre infilare dal gioco all’italiana…) e dieci dribbling. 
 
L’Inghilterra? Mai pervenuta 
E l’Inghilterra? L’Inghilterra è semplicemente non pervenuta. Aveva snobbato i tornei tra nazionali per più di vent’anni e non aver partecipato ai primi tre mondiali perché si riteneva troppo forte, un po’ come il Dream Team a pallacanestro che non si presentava alle Olimpiadi e mandava gli sconosciuti. Solo che il Dream Team quando poi partecipa stravince. L’Inghilterra appena ha deciso di partecipare, ovviamente con la puzza sotto al naso, ha preso subito la sveglia: battuta nel 1950 dalla abbastanza scarsa compagine statunitense e poi dalla Spagna che avrebbe chiuso come fanalino di coda il girone finale. Subito eliminata. E la prima partita ufficiale in casa l’avrebbe persa con i nemici irlandesi. La storia calcistica della nazionale inglese è caratterizzata da una sola costante: il nulla. Per vincere un mondiale ha dovuto mettere in campo la più grande truffa della storia delle finali: parliamo ovviamente del gol fantasma di Hurst ai supplementari della finale di Wembley del 1966, dopo un cammino agevolato e la legalizzazione della caccia all’uomo a Pelé in modo che finisse subito fuori dai giochi. Quest’anno ci aveva riprovato: la farsa del campionato itinerante, per tutti tranne che per loro. Un tabellone fatto apposta per mettere dalla stessa parte tutte le favorite (Italia, Belgio, Portogallo, Francia e Spagna) per eliminarsi tra loro e dall’altra tutte le outsider di scarpari con la sola Inghilterra. Poi una semifinale contro una Danimarca meno che mediocre regalata in modo imbarazzante. Peccato però che in finale abbiano affrontato noi. E così quelli che si reputano i padroni del calcio sono rimasti ancora una volta con un pugno di mosche mentre noi, i veri padroni del calcio, abbiamo festeggiato. 
 
Una questione di spirito 
Ma non è soltanto una questione di storia. È una questione di spirito. Per noi il calcio ha un carattere quasi sacro, non è altro che l’eredità dei Ludi, la tensione che si avverte nel tifoso ha sì quelle caratteristiche “inglesi” da Febbre a 90, ma è amplificata da moti popolari che hanno eguali solo nelle processioni e nei riti pagani. Quello che potete vedere a Roma o a Napoli nelle piazze in festa calcistica non ha eguali in nessuna città al mondo, neanche tra le tifoserie più calde del Sud America. Ma lo potete trovare nei rapporti dei magistrati romani che raccontano dei disordini e delle feste per le corse o quando in città Suburra e Regia si contendevano testa e coda del cavallo vincente invocando Marte. In Italia si confonde identità storica e cittadina con il tifo calcistico, il tifo italiano fa riecheggiare le lotte tra le Signorie e il campanilismo medievale in cui ci si voleva ammazzare solo perché dell’altra città. Eppure, come allora, l’identità italiana era qualcosa che superava tutto. Anche allora quando si era divisi, l’Idea di Italia troneggiava su tutte le altre. 
 
E questo accade anche oggi nel calcio, dove un romanista come me può amare gli juventini Chiellini e Bonucci dopo averli odiati – tornerò a odiarli tra pochi giorni, tranquilli – un laziale può godere delle sgroppate di Spinazzola e un interista può entrare in adorazione di Donnarumma per i tre rigori parati tra finale e semifinale. Non succede mai nelle coppe, mai tiferemmo un’altra italiana se gioca contro una straniera. Ma quando gioca l’Italia non c’è nulla che regga. In Inghilterra tutto questo non esiste, il tifo ha più un carattere sottoculturale da hooligans in cui sopravvive più che altro un carattere tribale, comunque positivo, ma più istintivo e “animale” che metafisico. Sono più importanti gli scontri fuori dagli stadi della sacra battaglia che si disputa in campo. Il tifo è più uno sfoggio di armi tra appartenenti alle varie tribù che non una sacralizzazione dell’identità che si realizza tramite l’essere tutt’uno con gli attori del rito. La differenza è la stessa che poteva intercorrere tra i quiriti e i barbari a nord del Vallo, insomma. E lo stesso tifo per la nazionale inglese non è mai sentito come quello dei club e sembra avere più le caratteristiche degli snob che negli anni ’30 erano convinti di essere i più forti, prima di perdere contro le squadre di tutto il mondo conosciuto, che non quelle di un popolo che impazzisce sventolando un tricolore e cantando Mameli a squarciagola. 
 
Piantarla con la retorica del panem et cicercenses 
Ah, prevengo subito e uso non casualmente un forte termine di chiara connotazione identitaria: sticazzi se chi sventola il tricolore non sa cosa rappresenti o lo faccia solo durante le partite o se non conosca la storia dell’Inno di Mameli. L’importante è che lo si faccia, il simbolo è tutto ed è sacro in sé a prescindere dalla consapevolezza di chi lo usa. E finiamola una volta per tutte con la stucchevole retorica materialista e semi colta del panem et circenses. A Roma non si facevano i giochi per placare la popolazione ma si facevano per invocare i numi. E in Italia non si dà il calcio in pasto alle masse per addormentarle, non è un caso che si stia cercando in tutti i modi, anzi, di ucciderlo, il calcio. 
 
E la retorica, chiaramente amplificata da chi da bambino non veniva scelto neanche per stare in porta o fare l’arbitro, di chi critica chi festeggia i famosi 22 miliardari in mutante mentre viene addormentato per essere governato è altrettanto fallace: con tutti i suoi difetti il popolo italiano è forse uno dei meno “addormentati” e uno di quelli in Occidente che più resiste a livello popolare con un istintivo rifiuto a certe politiche aberranti e nemiche della civiltà che vanno dal femminismo boldriniano al lgbtq cirinniano. Forse proprio perché il calcio che evoca numi serve a disintossicare. Quel calcio che è sangue e suolo e che finalmente torna qui, da noi. Anche grazie ai tifosi inglesi che, inconsapevolmente, con le loro invocazioni lo hanno spinto a tornare a casa. 
 
14 Luglio  2021