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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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L'Opinione 
Ricapitolando 
 
di Ninni Raimondi
 
 
Ricapitolando ... 
 
 
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No al tampone gratis, Draghi sfida i portuali ma tratta con i sindacati 
 
La decisione, assicura il premier, sarà presa nel prossimo cdm. Due le opzioni allo studio: prezzi calmierati o agevolazioni per le imprese 
«Un incontro importante e positivo». Così il leader Cgil Maurizio Landini sintetizza il giudizio sull’incontro a palazzo Chigi con il premier Mario Draghi che ha illustrato ai sindacati il nuovo decreto che vedrà la luce domani in Cdm per irrobustire le norme contro le morti sul lavoro. La prossima settimana «incontro importante» tra sindacati e ministro del lavoro, Andrea Orlando che avvierà un tavolo sulla formazione dei lavoratori. Al centro del confronto anche l’estensione del Protocollo sicurezza firmato da Cgil Csil e Uil con il governo e un eventuale e ulteriore abbassamento dei prezzi dei tamponi, per agevolare i lavoratori non vaccinati alla vigilia della nuova deadline per il passaporto vaccinale. Ovvero “sforbiciare” ulteriormente il prezzo dei tamponi, già calmierati il mese scorso, con una possibile parziale deduzione. 
 
«Draghi ci ha assicurato che il governo deciderà nelle prossime ore», spiega Luigi Sbarra, segretario della CISL, al termine dell’incontro con il premier a Palazzo Chigi, «ne discuteranno domani in Cdm, ci ha spiegato il presidente del Consiglio – gli fa eco Pierpaolo Bombardieri, della UIL – e lì decideranno il da farsi». «Abbiamo colto l’occasione per segnalare al governo la necessità di un forte abbassamento del costo del tampone – spiega infatti Maurizio Landini (Cgil)- ma anche che si potenzi il credito d’imposta per i sevizi di sanificazione. Vorremmo che tutte le aziende, non solo alcune, si assumessero l’onore del costo dei tamponi». 
La decisione verrà presa quindi da qui a domani, quando il Consiglio dei ministri tornerà a riunirsi. E potrebbe essere assunta già nella cabina di regia che il premier Mario Draghi ha convocato per questo pomeriggio alle 18, spiegano fonti di governo all’Adnkronos. Sono due le strade percorribili, a poche ore dall’entrata dell’obbligo di green pass in tutti i luoghi di lavoro, con controlli ai tornelli. La prima passa da una riduzione dei prezzi, escludendo tuttavia la gratuità dei test “stana Covid”. L’altra invece prevede un credito d’imposta che consenta alle imprese che si fanno carico del costo dei tamponi di detrarne l’onere, assieme alle spese di sanificazione sostenute. 
 
Esclusa, in ogni caso, la gratuità dei tamponi, chiesta a gran voce da Lega, Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle. «Il tampone gratuito è come il condono per chi non paga le tasse – ha detto il segretario del Partito democratico, Enrico Letta – Noi siamo contro questa logica: deve essere premiato chi è fedele, chi paga le tasse e chi si è vaccinato e per questo bisogna impedire che piccole minoranze blocchino il Paese perché sarebbe un pessimo segnale». Il riferimento è alle centinaia di lavoratori del porto di Trieste che hanno indetto uno sciopero a partire da oggi e per i prossimi cinque giorni. Al loro fianco Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Vi rendete conto del precedente che stanno creando? – si è chiesta Meloni – Siamo una Repubblica fondata su lavoro e oggi viene impedito di andare a lavorare senza il green pass, il lasciapassare del governo: è un precedente pericoloso». 
Alessandro Volk, componente del direttivo del Coordinamento lavoratori portuali Trieste, ha spiegato che se il governo prorogasse al 30 ottobre il via all’obbligo di green pass «non avrebbe senso bloccare il porto» e che questa «sarebbe una mossa intelligente per prendere un po’ di tempo e trovare poi una soluzione». Ma il governo, già prima della cabina di regia, aveva fatto sapere di non considerare alcun rinvio.  
 
Intanto il prefetto di Trieste, Valerio Valenti, ha spiegato che «chi parteciperà al blocco del porto a oltranza compie un reato, nella fattispecie il reato di interruzione di pubblico servizio, perché la manifestazione presentata come sciopero non è stata convalidata dalla Commissione di garanzia quindi è una manifestazione non autorizzata che impedisce l’accesso dei lavoratori al porto e blocca l’attività». 
 
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Viminale sotto attacco, Meloni: “Lamorgese ha permesso l’assalto per calcolo politico” 
La ministra dell’Interno al question time di oggi alla Camera sui fatti di sabato scorso: "Abbiamo evitato arresti in piazza" 
 
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La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha risposto in occasione del question time di oggi alla Camera sui fatti di sabato scorso a Roma, ma le sue parole invece che pacificare e chiarire la situazione hanno scatenato una reazione ancor più violenta da parte dell’opposizione. La titolare del Viminale ha detto che Giuliano Castellino, uno dei leader di Forza Nuova, si è contraddistinto sabato pomeriggio «per il deciso protagonismo soprattutto nell’intervento a piazza del Popolo, quando ha espresso la volontà di indirizzare il corteo verso la sede della Cgil». 
 
Secondo Lamorgese «la scelta di procedere coattivamente nei suoi confronti non è stata ritenuta percorribile dai responsabili dei servizi di sicurezza, perché in quel contesto c’era l’evidente rischio di una reazione violenta dei suoi sodali con degenerazione dell’ordine pubblico». Castellino, destinatario di Daspo e restrizioni alla mobilità, non è stato quindi arrestato per evitare ulteriori ed eventuali reazioni da parte dei manifestanti. Una risposta alla quale ha dato seguito la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, intervenuta subito dopo in Aula. «Questa risposta non è semplicemente insufficiente – ha detto Meloni – è offensiva delle forze dell’ordine, perché le scene di sette agenti lasciati a prendere le bastonate davanti alla sede della Cgil sono indegne, delle persone che vogliono manifestare pacificamente contro il vostro governo e di questo Parlamento che non è fatto di imbecilli. Lei sapeva e non ha fatto nulla». 
Per la leader di Fratelli d’Italia «quello che è accaduto sabato è stato volutamente permesso» e questo «riporta agli anni della strategia della tensione». Ripercorrendo i fatti, durante la manifestazione di sabato pomeriggio in piazza del Popolo, Castellino dal palco aveva arringato la folla al grido di «faremo la storia», di «sindacati asserviti» e fomentando l’odio contro «politici venduti e giornalisti giornalai».  
 
Infine, l’invito ad «assediare la sede della Cgil» per mano degli «italiani liberi».  
Proclama al quale è seguito il corteo dei manifestanti dove si sono infiltrati gli esponenti di Forza nuova e i no green pass più facinorosi, fino a staccarsi dal resto del serpentone e assaltare la sede del sindacato in Corso d’Italia. Fatti sui quali la ministra Lamorgese riferirà in Aula martedì prossimo. 
 
 
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La lezione di Turati, nessuno sa nulla delle carceri: “I cimiteri dei vivi” 
La casa editrice “Il Papavero” ha ripubblicato il saggio del leader socialista, Filippo Turati, che ispirò Pietro Calamandrei nel suo “Bisogna aver visto” del 1948. 
 
La casa editrice Il Papavero ha ripubblicato “I cimiteri dei vivi” di Filippo Turati (Prefazione di Stefania Craxi, introduzione di Giuseppe Gargani). Pubblichiamo di seguito un estratto della postfazione a cura del magistrato Giuseppe Cricenti, Consigliere di Cassazione. 
Filippo Turati trascorse un relativamente lungo periodo in carcere. La sua indignazione per l’inefficienza e la violenza del sistema carcerario del suo tempo in gran parte deriva dalla esperienza fatta in quel luogo, ed infatti egli è il primo a denunciare che l’indifferenza verso quel sistema è basata sulla inesperienza dei fatti, “perché nessuno ne sa nulla, perché non vi è comunicazione alcuna tra il nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri”. Così che l’insensibilità dei più, anche del se del ceto intellettuale e degli stessi rappresentanti politici, deriva dalla ignoranza di quel mondo: “provatevi a vivere là dentro e poi sappiatemi dire se tutto non vi è da riformare”. 
 
Più tardi, nel 1948, sarà Calamandrei a ribadire questa ragione: “in Italia il pubblico non sa abbastanza – e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia, non sanno – che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. Sia Turati, prima, che Calamandrei poi, propongono di conseguenza l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, un modo per far luce su una realtà altrimenti ignota agli stessi rappresentanti politici. Essi ritengono che sapere di più su quel mondo può servire a cambiarlo in meglio: entrambi invitano i rispettivi ministri del tempo, a fare visita per averne migliore idea. 
Sembrano tempi lontani, ed in un certo senso lo sono, ma chi per l’appunto, abbia oggi una qualche idea del sistema carcerario italiano, sa che quasi nulla è cambiato da allora. Anche oggi il carcere è un ambiente del tutto ignoto agli italiani ed è questa condizione che alimenta l’atteggiamento, che sembra insuperabile, di populismo che si registra verso i problemi dei detenuti, e la istituzione carceraria nel suo complesso. Ma non è solo questo. 
 
L’analisi di Turati individua storture del sistema carcerario che, non solo permangono oggi, ma sembrano essere, perciò stesso, strutturali, e dunque costitutive del sistema in sé. Intanto, il fallimento della funzione rieducativa: “tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato di provvedere alla redenzione del colpevole, garantendo al tempo stesso la sicurezza pubblica contro le recidive, tutto questo è lasciato completamente da parte, è rimasto lettera morta”. Poi, la solitudine dei reclusi, le poche occasioni che essi hanno di comunicare non solo con l’esterno ma con gli stessi organi di gestione del carcere, le condizioni delle strutture e dei luoghi di reclusione, la spietata violenza delle guardie. 
Tutte queste cose, anche se non sommate, ma singolarmente prese, testimoniano il fallimento di una istituzione in sé e per sé, e non solo in un dato momento storico. V’è allora da chiedersi, prima di ogni altra riflessione, perché il carcere, che pure ha fallito in pressoché ogni suo scopo, ancora oggi è di fatto l’unica risposta al reato che la società moderna sappia esprimere: per quale motivo, pur non riuscendo a soddisfare le finalità che gli sono proprie, l’istituzione carceraria sopravvive, e ciò nonostante, vengano destinate ingenti risorse per farlo funzionare: ai tempi di Turati, 30 milioni, quasi la metà dell’intero bilancio. 
 
I dati attuali, ricavabili dal bilancio del Dap, e dalla Ragioneria Generale, indicano che lo Stato italiano spende complessivamente una media di 3 miliardi l’anno per il sistema carcerario, complessivamente. Il risultato di questa spesa è che, sempre secondo dati del Dap, il 68,7 % dei detenuti è recidivo: rimesso in libertà, delinque nuovamente. È dunque, una spesa se non inutile, di certo inefficiente.Viene da chiedersi, allora, perché questa istituzione non solo sopravvive, ma continua ad essere la risposta quasi esclusiva ai reati. 
Negli ultimi anni il legislatore ha aumentato le pene, ha in particolare aumentato il massimo edittale per molti reati, ma non per esigenze di politica criminale, ossia per rispondere con il carcere ad un maggiore allarme sociale, piuttosto per esigenze pratiche, che non si sa o non si vuole affrontare direttamente: si innalzano le pene edittali per evitare la prescrizione, anziché agire sui tempi del processo o fare direttamente una riforma della prescrizione stessa; si aumentano le pene edittali per consentire l’applicazione di misure cautelari o una loro maggiore durata; pene più elevate per consentire le intercettazioni. 
 
Una prassi scriteriata che oltre che fondare politiche del diritto penale sbagliate allontana sempre di più la possibilità di fare del carcere una risposta non esclusiva al reato, ed impedisce di ammettere un numero sempre maggiore di condannati a sistemi alternativi alla detenzione.  
 
Se si considera che dalla stessa riforma del 1975, che aveva l’intenzione di sviluppare risposte alternative al carcere, per rendere la detenzione se non eccezionale, perlomeno di minore frequenza; se si considera che da quella riforma sono passati quasi cinquanta anni senza che il sistema penitenziario abbia perso invece la sua assoluta centralità e soprattutto senza che i problemi costitutivi che abbiamo visto in precedenza siano venuti meno; se si pensa a tutto ciò, si intuisce come la gestione legislativa del sistema penitenziario abbia ceduto il posto all’intervento dei giudici, e segnatamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo: è da Strasburgo che vengono ora le indicazioni di maggiore rilievo. 
 
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Grazie per aver letto 
16 Ottobre  2021