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23 dicembre 1896: nasce Giuseppe Tomasi di Lampedusa 
di Ninni Raimondi
 
23 dicembre 1896: nasce Giuseppe Tomasi di Lampedusa 
 
“Maggio 1860” è la data d’esordio del Gattopardo. Sin dall’esordio Tomasi di Lampedusa sembra quasi voler “depistare” il lettore perché il romanzo tratterà, sì, dei fatti avvenuti in Sicilia nel 1860 ma quasi in un nobile pretesto per raccontare altro: l’uomo fuori della storia, l’essenza sopra gli eventi storici e contingenti. 
La voce di padre Pirrone ci raggiunge dalla sala del palazzo avito. Sta terminando il rosario quotidiano: “… nell’ora della nostra morte. Amen”. Ronzii di voci ripetono il ronzio delle cicale ancora fuori, nel giardino assolato. Dalle finestre aperte sale il trotto di un cavallo, una carrozza sull’acciottolato sconnesso della strada. 
 
L’affresco che sovrasta la scena del rosario in casa Salina è un tripudio di rosa e azzurro, uno sfolgorìo intrecciato di colori e numi, nuvole e corpi nudi: “Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina apparvero da subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa”.  
 
“Il Gattopardo”: un romanzo che sarebbe piaciuto a Thomas S. Eliot (ma fu rifiutato da Vittorini). I rapporti tra Tomasi di Lampedusa e il poeta della “Waste Land” 
 
Il rosario ricorda poi di nuovo la morte, forse tema principale del romanzo. La “voce pacata” del principe, il protagonista, termina proprio allora di recitare i Misteri dolorosi: la parola “morte” è ripetuta e si stacca dal “brusio ondeggiante” delle voci dei vari protagonisti. 
 
Per arcani incroci la Sicilia del romanzo incastonata in mezzo al Mediterraneo continua a produrre caratteristiche non insulari: “Aristocratico siciliano nell’anno 1860”, Fabrizio Salina discende da sangue germanico, “un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte…”. Alta statura e “pelame color miele” denunciano l’origine tedesca dell’altera principessa Carolina sua madre. 
 
Il principe non si cura della propria amministrazione finanziaria. Ha mente e cuore rapiti dalle lontananze sideree, notte dopo notte la trascorre all’inseguimento di visioni astronomiche. Malgrado una forte propensione per la matematica, la riversa solo negli studi d’astronomia limitandosi a guardare “la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio” senza alcuna “voglia di porvi riparo”. In solitudine preferisce dialogare con le stelle più che con i propri simili: circondato da uno stuolo di figli, familiari, servi e figure minori, Salina è un uomo solo. Si ritira nella sua stanza-osservatorio e con “cercatori di comete” trova la pace cosmica nella “sublime normalità dei cieli”, alta sulla frenesia umana. Si sente, così, “ricollegato con l’universo”. 
 
È il sovrano dell’esausto regno meridionale a denunciare il nipote allo stesso zio, il principe Fabrizio suo tutore, e lo fa in sciatto dialetto napoletano: “Quel tuo nipote Falconeri… perché non gli rimetti la testa a posto?”. Il giovane avrebbe “cattive frequentazioni”: aderisce alle idee liberali, la patria italiana. Perciò arriva la minaccia secolare: “Digli ca si guardasse o’ cuollo.” 
 
Perché nulla cambi nella sostanza pur cambiando tutto nella forma – secondo il celebre assunto del romanzo – Tancredi arriva a unirsi gli uomini di Garibaldi e battersi con loro: “Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” 
 
La narrazione si stacca dall’ampiezza della storia per tornare al destino particolare all’interno della dimora, alle ceramiche sulla tavola imbandita di casa Salina: il “fasto sbrecciato” con cui si servono le cene alla villa del principe. L’ossimoro dà sintesi mesta al rituale: “Massiccia l’argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i bugnati di Boemia le cifre F. D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre” erano “superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri”. 
 
Il Gattopardo ricorda le numerose storie di decadenza di una famiglia e un’epoca, dai Boodenbrook di Thomas Mann al Silenzio delle cicale di Bona, da Tenera è la notte di Fitzgerald a Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Anche l’antica stirpe dei Salina è inesorabilmente avviata al tracollo, preceduta dal cognato Falconeri, padre di Tancredi: “Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto”. Una di quelle “rovine totali” in cui “si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree”. 
 
Tra i cedimenti corali del popolo e la nobiltà che trascina ozi e stanchezze soavi nel rimpianto della passata grazia perduta, la volgarità ne sta prendendo il posto a passi pesanti. Nell’incontro comico con Calogero Sedara, il padre di Angelica, Fabrizio Salina precisa meglio origini e sostanza del fascino di Trancredi: “è quasi impossibile ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimoni; almeno in Sicilia è così; una specie di legge di natura…”. Dovendo contare quasi unicamente sul proprio fascino per farsi strada nella vita, Tancredi deve guardare molto in alto e sposare una ragazza abbiente. In altre parole deve guardare molto in basso, tra la borghesia arricchita del paese, tra i Sedara, i discendenti di “Beppe merda”. 
 
Malgrado le precise indicazioni dell’autore sul contrario, Il Gattopardo è definito un romanzo storico. Ritratto di un mondo in bilico tra due concezioni di vita – quella vecchia della nobiltà stanca e squisita e quella nuova dell’emergente borghesia forte e volgare – pare incarnare “la perpetua nostalgia per le cose che muoiono e che debbono morire, sorpassate dalla vita, ma viventi e sempre rimpiante nel ricordo” di cui scrive Croce (Poesia antica e moderna). Sarebbe una cronaca, se raccontasse solo il passaggio sociale dopo lo sbarco dei mille in Sicilia. Ma racconta anche la condizione umana sopra la storia e una perdita non solo storica, che trapassando dalla contemplazione alla pratica si spezza la schiena sul crinale del mondo nuovo. 
 
E “la vera e genuina poesia che è sempre alta e grande – è segnata da un che di severo e malinconico”, scrive ancora Croce (Poesia antica e moderna). Qui la perdita simbolica, collettiva, si fonde con l’individuale arrendersi del principe alla morte, che vede come una donna bellissima venuta a incontrarlo, “più bella di come l’avesse mai intravista negli spazi stellari”. Dal consuntivo di una vita, fuori dall’“immenso mucchio di cenere” dell’esistenza rimangono le “pagliuzze d’oro dei momenti felici”: l’anima del romanzo. 
 
Quando gli fu sottoposto, Elio Vittorini rifiutò di pubblicarlo ritenendolo opera “di retroguardia” anche per l’assunto della solitudine aristocratica. Il Gattopardo sarebbe stato dunque pubblicato per l’impegno di Giorgio Bassani, altro scrittore che – come Lampedusa – amava i personaggi “vinti”, “soli” e “nobili”. 
 
In una serie di lettere inviate all’amico Guido Lajolo nel 1956, Lampedusa parlava del romanzo, del suo protagonista e dei suoi temi: “Il protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del Principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me (…) cinque lunghi racconti (…) mostrano il progressivo disfacimento dell’aristocrazia; tutto vi è soltanto accennato e simboleggiato; non vi è nulla di esplicito e potrebbe sembrare che non succeda niente. Invece succedono molte cose, tutte tristi. (…) il protagonista sono, in fondo, io stesso e il personaggio chiamato Tancredi è il mio figlio adottivo”. 
 
Un altro passaggio è spia critica e itinerario di lettura: “Tutto il libro è ironico, amaro e non privo di cattiveria. Bisogna leggerlo con grande attenzione perché ogni parola è pesata ed ogni episodio ha un senso nascosto”. Intellettuale raffinato di cultura cosmopolita, Lampedusa: a testimoniarlo concorrono numerosi saggi su autori inglesi e francesi e le brillanti lezioni private – ed esclusive – date a Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomasi (il Tancredi del romanzo), per fortuna trascritte da Orlando. Oltre la “sicilianità” del contenuto, Il Gattopardo non poteva perciò che essere romanzo di respiro europeo, circostanza rara nella narrativa italiana degli anni ’50, la raffigurazione di una decadenza in prospettiva manniana. “Tutti ne escono male – dice a Lajolo – il Principe e il suo intraprendente nipote, i borbonici e i liberali, e soprattutto la Sicilia del 1860”. 
 
Qualche indizio accomuna i personaggi all’opera di Thomas S. Eliot, poeta molto amato e frequentato da Lampedusa, i cui commenti nelle lezioni riportate da Orlando varrebbero anche per il suo Gattopardo: più che vivere, tutti i personaggi sembrano guardarsi vivere o sopravvivere, con rifiuto quasi patologico della realtà e sconcertante senso di non appartenenza. 
 
Nell’incipit di The Love Song of J. Alfred Prufrock (che apre la raccolta del 1917), Lampedusa rileva la “bellezza triste della natura, la sordidezza di una città” e “il grande tema di Eliot: l’insignificanza del tempo”. Ossatura di Burnt Norton, primo dei Quattro Quartetti, il tempo – “insignificante perché serve soltanto a ripetersi meschinamente” – è in più luoghi anche il punto di vista dell’io narrante Prufrock, la ragione del suo “straniamento” dalla vita in fantasma superstite. 
 
Prufrock è una “lirica di disinganno, ironia, disgusto, la contemplazione di un mondo triviale, sordido e vuoto” afferma Lampedusa e “desolato e desolante è l’universo espresso dai Poems 1920”, raccolta che segue la pubblicazione di Prufrock e ponte di raccordo con The Waste Land. Il poemetto icona del Novecento “minacciosamente canta il disinganno” del mondo moderno in un continuo e vano ammassarsi d’immagini spezzate, frantumate, rotte: “a heap of broken images”, “un mucchio d’immagini infrante”, quasi un calco per accumulo di “a thousand sordid images/Of which your soul was constituted”, “le mille immagini sordide/Che costituivano la tua anima”, già apparse nei Preludes. 
 
Alcuni momenti del “mondo sordido e vuoto” del Gattopardo sembrano nella stessa tonalità della sequenza “immagini-infrante-sordide-anima”: “parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume (…) siciliano”, tutti con “un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia”, o “immersi in un sonno che rassomigliava al nulla”. 
 
In uno gli ultimi brani in cui appare, il principe “Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che se stesso”. Si siede in poltrona e dal balcone d’albergo in cui si trova guarda il mare. Persino Donnafugata gli sembra “una casa apparsa in sogno; non più sua”: “ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; … a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se preziose … tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care”. 
 
Di suo non gli resta che “questo corpo sfinito, (…) questo precipizio di acque tenebrose verso l’abisso. Era solo, era un naufrago alla deriva di una zattera, in preda a correnti indomabili”. (VII) Preda di simile penoso senso di separazione – “Divento vecchio … divento vecchio” – quasi non riconoscendo la propria immagine riflessa nello specchio e invecchiata anzitempo, Prufrock annega in fondo al mare: 
 
Ho udito le sirene cantare l’una all’altra. 
Non credo canteranno per me. 
Le ho viste al largo cavalcare le onde 
Pettinare la candida chioma delle onde risospinte: 
Quando il vento rigonfia l’acqua bianca e nera. 
Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare 
Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune 
Finché le voci umane ci svegliano, e noi anneghiamo. 
 
Analogie tra impressione di straniamento, sorpresa turbata del sogno o meglio dell’incubo, sensazione d’irrealtà. Relitti di ricordi e metafore marine. La figura scrutata nello specchio da un occhio quasi estraneo, non partecipe alla trasformazione fisica. Correnti mortali e morte per acqua – vera per Prufrock, immaginata e vicina per Salina. La percezione netta del temine della parabola vitale, il disfarsi delle coordinate spazio temporali. 
 
Le lezioni di Lampedusa sugli autori inglesi dal 1953 al 1955, si sovrappongono cronologicamente alla stesura del romanzo. La concezione di Eliot può esserci entrata di striscio, l’idea delle cose come “realtà imperturbabili, statiche, che condizionano l’uomo all’immobilità”, secondo Lanza Tomasi, influsso più o meno cosciente di uno scrittore che ne legge altri, “Date o meno a confermarlo, effettiva lettura o no, in ogni caso tra un certo Eliot e il romanzo si avverte affinità d’atmosfera e coloritura generale: la sensazione di osservare non il movimento ma la staticità dei giorni, non la luce ma lo spegnersi dell’ombra. Il Gattopardo trasforma in “correlativo oggettivo” una realtà drammatica: la crudeltà del vivere oltre la trafiggente bellezza del paesaggio, o degli interni. Il connotato esistenziale è sconcertante: osservazione amara e molteplici emblemi di annientamento e morte”. 
 
La stessa Sicilia, con il suo paesaggio eccessivo e straziante, è simbolo di morte. Il sole esalta la consapevolezza che esseri e cose si consumano nella polvere, e ne accelera il processo di declino e disfacimento. Unica misura duratura, unica certezza dove nulla più è certo: “Il sole … si rivelava come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti”. 
 
La campagna “ondeggia” intorno “funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale (…) era come il rantolo della Sicilia arsa”. Nell’“aridità ondulante all’infinito” delle “distese flagellate dal sole” risalta “la macchia indaco del mare, ancor più duro e infecondo della terra”, sempre in sottofondo avvertibile “mescolato a tante agonie”. Il lamento delle cicale “riempie il cielo”, assorda senza pace: espressione cosmica del dolore di vivere in una terra dove l’agonia della natura dura troppi mesi all’anno, un’altra terra desolata che “aspetta invano la pioggia”. E la pioggia non verrà. Natura, personaggi e lettori l’implorano, il cielo implacabile continua a negarla. Leggendo, letteralmente oltre che simbolicamente, abbiamo sete. 
 
Il paesaggio sembra privo di vita, esangue e sfinito nella fatica di sopravvivere. Nel viaggio a Donnafugata, alture e discese si srotolano all’orizzonte che vira in lontananza con rifrazioni malate d’incubo, contro radi alberi “assetati” che “si sbracciano” in cielo: “non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente nelle discese: passo e trotto … stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non si percepiva più se non come manifestazione sonora dell’ambiente arroventato. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati … valicate fiumane integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d’acqua: sole e polverone”. 
 
Lo scenario ripete stanchezza, desiderio di svanire, un’aspirazione all’oblio che niente potrebbe scuotere, come ammette il principe con l’inviato piemontese venuto a proporgli un ruolo al Senato e nell’amministrazione politica del regno. Nel celebre colloquio con il funzionario statale, Fabrizio Salina rifiuta come sappiamo la proposta con parole indimenticabili: “Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori (…) siamo stanchi e svuotati (…) il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare …. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità é desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio d’immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera e di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana”. 
 
Con la porpora negli occhi e l’aroma della cannella tra le labbra, smettiamo di voler penetrare l’imperscrutabile, il nirvana, il nulla, arresi davanti alle frontiere della morte. Letta in questo taglio, l’ultima immagine del cane Bendicò, fedele compagno di caccia del principe, non potrebbe essere più triste, spoglia polvere nella polvere: “Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”. 
1 Gennaio  2022