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Sentieri Selvaggi, o l’immenso cinema di una volta 
di Ninni Raimondi
 
Sentieri Selvaggi, o l’immenso cinema di una volta 
 
Esiste un film che racchiude nei suoi 114 minuti una potenza smisurata. È la summa della poetica di John Ford, qui in uno stato di grazia, e uno dei capolavori di John Wayne, degno di stare nella triade perfetta assieme a Un Dollaro d’Onore e Un Uomo Tranquillo. È il 1956, e mentre l’era di Eisenhower scorreva placida (troppo placida) era necessario cantare di un’epoca ancora vicina come cronologia, ma ormai scomparsa. Sentieri Selvaggi (The Searcherers in originale) è la storia di una famiglia e dell’uomo che la protegge. Ma è anche la storia del west, come la vedevano Ford e Wayne. 
 
Sentieri Selvaggi, una storia da ricordare 
La storia è nota a tutti, ma non fa male ricordarla. 1868 (quindi 88 anni prima dell’uscita del film e in teoria chi aveva vissuto quegli anni poteva essere ancora vivo), Territorio del Texas, tre anni dopo la Guerra Civile. Ethan, ex soldato confederato, si presenta a casa del fratello Aaron. Viene accolto. Non riconosce la figlia minore Debby, perché non era presente alla sua nascita (particolare da non dimenticare). Viene accolto, ma si capisce subito che quello non è il suo posto. È venuto per rivedere la famiglia, e qualcuno, ma non per stare lì. Lui è un protettore, non un gregario. 
 
Poi la tragedia. Approfittando di un momento in cui le difese sono minime gli indiani attaccano la fattoria di Aaron. Uccidono il fratello di Ethan. Uccidono la moglie dopo averla violentata. Uccidono il figlio piccolo. E portano via le due figlie. Debbi la piccola, e Lucy la grande. Dopo giorni di ricerche solo Ethan, il fidanzato di Lucy e il figlio adottivo di Aaron, Martin, con parte dell’ascendenza indiana, continuano la ricerca. Ethan scopre il cadavere di Lucy, violentata ed uccia come la madre, e proprio quando tutto sembra finire inizia il vero film. 
I cercatori (Ethan e Martin) passano i successivi otto anni alla ricerca di Debby, ma con intenti diversi. Per Martin Debby è la sorellina che non ha saputo proteggere, e che vuole salvare e riportare a casa. Per Ethan Debby è qualcosa di più. Non viene mai detto, ma il gioco dei movimenti, degli sguardi, del non detto tra Ethan e Martha la moglie di Aaron, nella scena iniziale ha portato più di uno a ipotizzare che Debby in realtà sia la figlia di Ethan, illegittima, e che Ethan sia fuggito per arruolarsi nei confederati dopo aver consumato l’amore con la cognata. Ecco perché all’arrivo non la riconosce. Perché non sa della sua esistenza. Fuggito dopo aver tradito il talamo del fratello, Ethan non sa di aver una figlia. Poi però lo scopre nei pochi giorni in cui è ospite del fratello. Ma prima di metabolizzare la cosa e trarne forza, la (ipotetica) figlia viene rapita dai selvaggi indiani. 
 
Uno Sciamano protettore 
A questo punto cosa può fare il Maschio Alfa, o usando un’altra categoria lo Sciamano che protegge la tribù da lontano, quando il suo equilibrio viene infranto? Cercare l’elemento di dissonanza ed eliminarlo. Ecco, quindi, che Ethan/Wayne è sì alla ricerca di Debby, ma se Debby si dimostrerà definitivamente perduta, definitivamente passata dall’altra parte (ossia se fosse diventata indiana, violata, e sia pure senza colpa madre di selvaggi), allora l’unica via di salvezza per Debby sarà l’uccisione pietosa da parte del Capostipite. Il Padre che dà la pace della morte alla progenie infetta. 
E il film si dipana per scene e scene, mescolando momenti tragici (due ragazze bianche prigioniere degli indiani, ritrovate ormai dementi e prive di senno dopo le torture) ad altri comici (le tribolazioni di Martin per essere all’altezza del suo mentore). 
 
C’è tutto in questo film. C’è la società del West, patriarcale nel senso che sono gli uomini che vagano per le terre ignote, ma anche matriarcale se vogliamo, perché sono le donne che gestiscono e organizzano la vita negli accampamenti stanziali. Negli Jorgenson, famiglia di immigrati amici della famiglia di Aaron, e che nel film offrono il contraltare “stabile” al vagare di Ethan e Martin, è la moglie/madre Marie a saper leggere mentre il marito, Lars, bravo contadino, no. È un segno di come fosse la vita 90 prima del film. Da un lato chi custodiva, proteggeva, esplorava, dall’altro chi gestiva gli stanziamenti nella vita quotidiana. 
 
Ma perché definire Ethan non solo Maschio Alfa (e lo è, come si vede in tutto il film, personaggio che conduce la storia e non se ne lascia condurre) ma addirittura Sciamano nel senso più pieno del termine, ossia colui che protegge la sua tribù, pur vivendo ai margini? La risposta è tutta nella regia di Ford. Il film si apre con una porta di casa che si apre sul paesaggio del Texas. Poi Ethan da solo che arriva, tornando da un viaggio lunghissimo che lo ha visto lontano nel tempo e nello spazio. Ethan entra in casa, e solleva la piccola Debby chiamandola Lucy. Questa è la sequenza con cui si apre il film, e ci viene presentato il protagonista. 
 
Avanzamento veloce. Siamo alla fine. Si scopre dove è Debby. Si assalta il campo indiani per salvarla. Debby fugge. Ethan la vede. La insegue. La raggiunge. E qui c’è il punto di svolta. Ethan solleva Debby, caduta a terra e di nuovo “piccola” di fronte a lui, come l’aveva sollevata otto anni prima, e in un unico movimento la prende in braccio e dice “Torniamo a casa, Debby”. 
Il vendicatore ottenebrato dal sangue cede il passo al protettore. 
In un meccanismo circolare che salda la fine col principio Ford chiude il film con l’arrivo da lontano di Ethan, Debby e gli altri a casa dei Jorgenson, un’altra casa, un altro punto stanziale. Tutti entrano, ma non Ethan. 
Lui ha compiuto la sua missione. Ha riportato a casa Debby, che solo lui (forse) sa essere sua figlia. La tribù è di nuovo salva. 
Il suo destino non è dentro la casa. È fuori. E il film si chiude con Ethan/Wayne che scende dal portico e si allontana, nella stessa inquadratura di apertura del film. 
 
Un film da vedere e rivedere: ecco perché 
Cos’è questo film se non un monumento all’estetica e all’etica fordiana? John Ford non attenua la ferocia degli indiani, quantomeno di alcuni indiani, ma al tempo stesso non ritiene impossibile una comprensione reciproca tra uomo bianco e indiani. In almeno una scena Ethan, che superficialmente potrebbe essere visto come un razzista incapace di ragionare, ha un rapporto di rispetto reciproco con un capo indiano. Per Ford in questo, come in altri film, se a volte lo scontro tra una civiltà che ha visto (quella dei bianchi) e una che è stata sconfitta dalla storia (quella dei nativi americani) è quasi inevitabile un rapporto improntato al rispetto e alla stima reciproca tra singoli esseri umani, a prescindere dal colore della pelle, è ancora possibile 
 
E c’è spazio anche per riflessioni sull’etica del west, territorio di confine tra civiltà e anarchia, dove a volte la giustizia segue strade efficaci ma non sempre coincidenti con quelle della legge scritta nei codici. Ethan non ha sempre seguito la legge, ma ha sempre cercato di seguire la giustizia. Se nel 1956 non è più possibile questa distinzione, nel 1868 forse era ancora possibile seguire un’etica del genere, e in un certo senso sembra quasi di avvertire il rimpianto di Ford per quei tempi. Sentieri Selvaggi è un film che andrebbe visto e rivisto. È vero. A Jean-Luc Godard non piaceva, ma francamente… chi se ne frega. 
 
2 gennaio  2022