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Giovanni Gentile oltre la retorica: un pensiero per l’Italia 
di Ninni Raimondi
 
Giovanni Gentile oltre la retorica: un pensiero per l’Italia 
 
L’assassinio di Giovanni Gentile: la vittoria dell’odio e dell’anti-Italia 
Esattamente 77 anni fa un piccolo commando di partigiani comunisti (più precisamente “gappisti”) assassinò a Firenze Giovanni Gentile, il più grande filosofo italiano vivente. Gentile, oltre a essere filosofo di fama internazionale, era anche e soprattutto il “filosofo del fascismo”, come è stato spesso definito. Per questo motivo, ucciderlo equivaleva per i suoi boia a seppellire con lui anche la cultura fascista, tanto che girò la leggenda secondo cui Bruno Fanciullacci, colui che probabilmente tirò il grilletto, avrebbe esclamato: «Non uccido l’uomo ma le sue idee». E inoltre, a decenni di distanza, nel 2001, un solerte “gendarme della memoria” ha potuto scrivere in tutta serietà: «L’uccisione di Gentile fu un atto dovuto, più di quello di Mussolini. Uccidendo Gentile si uccideva l’anti-Italia». Fabio Vander, autore delle righe citate, intende con “anti-Italia” proprio il fascismo, ricollegandosi così a una tradizione che in realtà è ormai bell’e morta (e morta bene): è quella di Benedetto Croce, amico e poi acerrimo nemico di Gentile, secondo cui il movimento delle camicie nere avrebbe rappresentato solo una breve “parentesi” nel cammino che avrebbe condotto l’Italia alle «magnifiche sorti e progressive» del liberalismo assurto a meta escatologica dell’umanità. 
 
La mano dell’assassino fu antifascista 
Ad ogni modo, rivendicare l’assassinio di Gentile, se è squallido in sé, rappresenta tuttavia un bel passo in avanti. Sì, perché per decenni si è tentato di addossare la colpa del vile omicidio ai fascisti stessi: è la teoria della “faida interna”, che accompagnerà di lì in poi ogni “inchiesta” giornalistica sui morti neofascisti. Eppure questa teoria nasce proprio allora, il 15 aprile del 1944, come paradigma della vergogna antifascista che tenta goffamente di nascondere i suoi più crudeli e ingiustificabili delitti. Del resto, ormai non ci sono più dubbi: numerose opere hanno ricostruito in maniera circostanziata il movente e le dinamiche dell’assassinio. La mano dell’assassino fu antifascista. La bibliografia è sterminata, ma tra gli studi migliori e più recenti si segnalano quelli di Francesco Perfetti (2004), Paolo Paoletti (2005) e quello monumentale di Luciano Mecacci (2014). Le modalità dell’omicidio sono agghiaccianti: Gentile, senza scorta per non aver voluto gravare sulle spese di una nazione in guerra, si era appena seduto in macchina, allorché vide avvicinarsi due giovani con i libri sotto il braccio. Riconoscendoli quindi come studenti, abbassò il finestrino – come si addice a un professore – per poter discorrere con loro, ma subito venne crivellato dalle pallottole della pistola di Fanciullacci. Ricoverato in condizioni disperate, spirerà alla presenza dei figli Gaetano e Benedetto. 
 
Gentile filosofo europeo 
Ora, per giustificare la viltà di un tale gesto, peraltro stigmatizzato da numerosi antifascisti, l’intellighenzia del dopoguerra ha dovuto far ricorso alla “prova morale”: uccidere Gentile voleva dire uccidere il fascismo e la sua cultura, e cioè l’«anti-Italia». Eppure il filosofo italiano, benché defunto, continua a “parlare”: nonostante decenni di damnatio memoriae, si moltiplicano gli studi su Gentile, oramai rivalutato come “filosofo europeo” (Natoli 1989) e “maggior filosofo del Novecento italiano” – tutte tesi, oltre a quelle di Severino, Marramao ecc., che finiscono per dar ragione ad Augusto Del Noce, il quale scrisse: «Il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la più importante del nostro secolo». Gentile filosofo italiano ed europeo, quindi: un filosofo con cui non è possibile non fare i conti, se si vuol ripensare tutta la filosofia italiana e parte di quella europea. Non a caso Roberto Esposito nella sua celebrata opera Pensiero vivente (2010), per poter fornire la sua interpretazione dell’originalità della filosofia italiana, non ha potuto esimersi dal prender partito contro Gentile. Per questo non è possibile dar torto a Diego Fusaro: «Gentile [sta] al Novecento italiano come Hegel – secondo la nota tesi di Karl Löwith – sta all’Ottocento tedesco: non vi è filosofo, dopo di lui, che non abbia modellato il proprio profilo teorico prendendo posizione – ora esplicitamente, ora implicitamente – rispetto alla dialettica attualistica». 
 
Gentile filosofo fascista 
Gentile tuttavia, oltre ad esser sommo filosofo, fu anche e volle essere fascista, pagando con la vita la sua scelta di campo. Di più: nel momento di massimo pericolo per l’integrità dei confini della nazione, Benedetto Croce fu chiamato per pronunciare in Campidoglio un discorso di pacificazione per tutti gli italiani, ora tutti responsabili della difesa della patria, al di là delle ideologie. Croce, che evidentemente era “patriota” solo su carta stampata, si rifiutò. Gentile invece, nonostante la sua egemonia culturale si fosse da qualche anno eclissata, rispose alla chiamata. Fu il cosiddetto Discorso agli Italiani (24 giugno 1943), in cui il filosofo siciliano esortò tutti i compatrioti a rinunciare agli odi di fazione e a prepararsi alla difesa della nazione. Questo discorso, com’è noto, fu la sua condanna a morte. Perché Gentile voleva unire, mentre i comunisti, sovvenzionati dal capitale (i dollari di Wall Street), volevano dividere. 
 
Un grande italiano 
Abbiamo pertanto il “privilegio” di assistere a un bel paradosso. Coloro che consegnarono la nazione agli anglo-americani rappresenterebbero l’«Italia», mentre Gentile – riformatore della scuola, creatore dell’Enciclopedia Treccani, il più grande organizzatore culturale dall’Unità ad oggi – sarebbe l’«anti-Italia». Miracoli dell’ermeneutica antifascista… A Fanciullacci, assassino di filosofi, è dedicata una via a Firenze: onore che a Gentile non fu e non è concesso. Eppure il filosofo siciliano è sepolto nella Basilica di Santa Croce: nonostante l’odio antifascista, Gentile riposa con i più grandi italiani di sempre, con Michelangelo, Machiavelli, Galileo e Foscolo. È quello il posto che gli spetta. Con buona pace dei figli della vera “anti-Italia”, quella che ammazza i filosofi e celebra i loro assassini. 
 
Due libri recenti ricostruiscono la filosofia del padre dell’attualismo e il complesso rapporto che in essa hanno svolto la religione (non solo cristiana) e la patria 
Il 15 aprile 1944 l’auto di Giovanni Gentile si avvicinava a casa, alle porte di Firenze. I due gappisti Fanciullacci e Martini attendevano sulla strada con i libri in mano: erano travestiti da studenti, sicuri che il filosofo non avrebbe esitato a fermare la macchina e a rispondere a una richiesta che veniva da giovani. Così infatti accadde: Gentile abbassò il finestrino, dai gappisti partì una gragnuola di colpi. Fu sepolto nel Pantheon intellettuale degli italiani: la basilica di Santa Croce in Firenze, dove ancora giustamente riposa. 
 
L’assassinio più vile 
L’accusa che avrebbe dovuto motivare l’omicidio era che Gentile aveva esortato i giovani italiani all’arruolamento nell’esercito della Repubblica sociale, «dunque» era stato il mandante morale delle fucilazioni di coloro che si sottraevano ai bandi di leva. Dopo questa grottesca sentenza, il «processo d’appello» al filosofo si aprì subito dopo la morte. La sensazione di averla fatta grossa, anche nel clima esasperato della guerra civile, dovette sfiorare molti dei componenti del Cln toscano, i quali – con la ovvia eccezione dei comunisti – disapprovarono l’assassinio. Ma un partigiano di ferro come Leo Valiani attesta che gli stessi Togliatti e Gramsci riconoscevano in Gentile il valore di profondo pensatore. 
Negli anni Cinquanta ricominciarono in ambito accademico gli studi gentiliani: non era un’opzione culturale scontata per una duplice ragione. Gli ambienti universitari del dopoguerra pullulavano di discepoli del filosofo-ministro, i quali nella grande metamorfosi italiana notata da Churchill nel 1945 avevano una ragione molto concreta per far dimenticare Gentile, e soprattutto il loro essere stati gentiliani… La seconda motivazione è che Gentile aveva suscitato avversione nell’ambiente cattolico non meno che in quello di sinistra. 
 
Al di là delle ideologie 
Il riemergere del logos gentiliano è stato lento, ma progressivo nel ripensamento dei più lucidi uomini di pensiero della seconda metà del Novecento. Nicola Abbagnano coglie il tratto romantico del pensiero di Giovanni Gentile, Salvatore Natoli smonta il pregiudizio sul Gentile «provinciale», sottolineandone la dimensione europea, il dialogo implicito con i grandi contemporanei. In verità, considerando che Gentile pose le basi insieme a Tucci dell’Ismeo (l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente), si potrebbe parlare di un’ampiezza universale del suo pensiero, con aperture alle prospettive delle culture orientali. Emanuele Severino coglie nel suo pensiero una delle più incisive espressioni di quel «divenire europeo» culminato nell’era della tecnica (anche se non giurerei che detto dall’assorto cantore dell’immobilità parmenidea questo sia un complimento…). Ed ancora, Sergio Romano ha dimostrato come l’esercizio del potere da parte del filosofo-ministro fu sempre pieno di umanità, di pietas verso tutti i meritevoli: agli antipodi rispetto alla spietatezza dei suoi attentatori… Oriana Fallaci, senza peli sulla lingua, ebbe a dire che «l’assassinio di Giovanni fu una carognata ingiusta e vigliacca». 
 
Eredi gentiliani  
Per quanto riguarda gli «eredi gentiliani che non ti aspetti», chi scrive ha un ricordo da condividere: nel 1993 Aldo Masullo teneva un corso sul pensiero di Hegel alla facoltà di filosofia dell’Università Federico II di Napoli. Agli studenti che lo ascoltavano parlare dalla cattedra di filosofia morale si mescolavano i giornalisti napoletani: gente dall’aria poco teoretica che ogni tanto faceva lampeggiare i flash. In un momento di particolare crisi della politica napoletana, il Partito democratico della sinistra aveva lasciato intendere di voler sostenere Masullo come sindaco di Napoli. Ovviamente erano giochetti politici: l’«hegelismo al municipio» durò per poco nella città che pure nell’Ottocento aveva visto emergere una classe dirigente in cui destra storica e pensiero hegeliano si intrecciavano (De Sanctis, i fratelli Spaventa ecc.). 
Masullo osservava con disincanto questo turbinio di politici e giornalisti attorno a lui. Poi, dopo che in una lezione aveva calcato un po’ la mano sul concetto hegeliano di «Stato etico», sollecitato a ricordare quale fosse stata la sua formazione giovanile, in via confidenziale, si abbandonò a un amarcord in cui emergevano le figure di Giovanni Gentile e Ugo Spirito, i temi del corporativismo, dell’idea sociale della «sintesi» o «terza via» e di tutto ciò che, prima di diventare un comunista nel dopoguerra, lo aveva connotato come «corporativista impaziente». 
 
Giovanni Gentile da martire a santino 
Dopo questa rassegna di autorevoli riconoscimenti della grandezza di Gentile, ci è concesso dire che il suo valore avrebbe potuto essere maggiormente considerato in quell’area che faceva del Ventennio e dei suoi protagonisti il riferimento prioritario? La disputa tra «gentiliani» ed «evoliani» vide col passare del tempo diventare sempre più evanescente il riferimento al filosofo dell’attualismo: Gentile era il martire che era stato assassinato dai partigiani, ma il suo pensiero appariva forse criptico e il suo linguaggio plumbeo. I giovani che negli anni Settanta affrontavano gli anni più duri della militanza sentivano molto di più il fascino del mito e della tradizione secondo la lezione di Evola (o di monsignor Lefebvre).  
Sintomatico di questo allontanamento fu il giudizio di Adriano Romualdi, che vedeva in Genesi e struttura della società un’opera situata, col suo «umanesimo del lavoro», sul piano inclinato che conduce al comunismo, nella cui area, concludeva Romualdi, «si collocano tutti i discepoli di Gentile che contano qualcosa»: chiaro riferimento a Ugo Spirito.  
Eppure in Gentile i giovani dell’area «nazionale» avrebbero potuto trovare un quadro di idee che individuava lo spirito non in un passato atemporale, bensì nel corso della storia, della nostra storia, ricucendo in un discorso coerente le fasi culminanti della civiltà italiana: le radici greco-romane della filosofia e del diritto, lo spirito della corte di Federico II e il messaggio di Dante, il Rinascimento e il Risorgimento. La stessa «questione cattolica» si stemperava in Gentile evitando le unilateralità dell’esaltazione fideistica (come nella destra cattolica), o di un’impossibile espunzione dell’esperienza bimillenaria dell’Italia cristiana (come nella destra neopagana): il cattolicesimo veniva concepito come parte integrante, ma non «esclusiva», del cammino dello spirito. 
 
Un gigante da riscoprire 
Per riconsiderare queste tematiche gentiliane è davvero una coincidenza preziosa che di recente siano state pubblicate due antologie del filosofo: Patria, nazione, fascismo (edizioni Mursia) e Ritrovare Dio: scritti sulla religione (delle Mediterranee). La «sincronicità» di queste due edizioni è confermata anche dal fatto che entrambi i volumi si corredano dell’introduzione di Hervé Antonio Cavallera, professore ordinario di Storia della pedagogia nell’Università del Salento, oggi il maggior conoscitore di Gentile, curatore della sua opera omnia. Le due antologie sfatano un mito: la pesantezza del pensiero gentiliano.  
 
Certo sono scritti brevi, in cui prevale l’intento divulgativo dell’autore (che non disdegnava, soprattutto a cavallo della Grande guerra, di intervenire sulle questioni d’attualità sui giornali), ma in questi scritti brevi si ritrovano i leitmotiv del maestro dell’attualismo. 
 
31 Gennaio  2022