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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Vittorio Veneto 
di Ninni Raimondi
 
Vittorio Veneto 
 
In questa straordinaria Fotografia, le truppe Austroungariche entrano a Vittorio Veneto, che viene conquistata l'8 novembre 1917, dopo lo sfondamento di Caporetto 
 
La difficile convivenza 
Una moltitudine di costrizioni, proibizioni e imposizioni accompagnò la vita dei vittoriesi dal novembre 1917. I muri della città erano continuamente tappezzati da avvisi e disposizioni dei vari Comandi, spesso scritti in bilingue. 
La popolazione, visse così il periodo dell’occupazione in costante tensione non solo per la consapevole vicinanza del nemico, per le difficili condizioni di vita ma anche a causa dei tanti obblighi e divieti imposti. 
 
Il controllo serrato degli spostamenti della popolazione locale fu una delle necessità immediate degli occupanti poiché temevano che fra le persone potessero nascondersi spie e perché la presenza di civili nelle strade rischiava di intralciare le comunicazioni e i movimenti dei militari che avevano la priorità assoluta.  
Una delle prime misure adottate dagli Austroungarici fu, dunque, quella di fornire, nel gennaio del 1918 tutti gli abitanti sopra i 16 anni, ridotti addirittura ad 11 nell’aprile dello stesso anno, di una specie di carta d’identità obbligatoria, la cosiddetta Ausweiskarte.  
Era un documento di legittimazione, rilasciata dal Comando di tappa, che permetteva di poter circolare liberamente a Vittorio Veneto: chi ne era sprovvisto veniva arrestato. 
Se l’Ausweiskarte consentiva la libera circolazione in città, per uscire dal proprio comune era invece necessario un altro lasciapassare il Verkehrsschein, o passaporto, che dava la possibilità di raggiungere altre località. Ma questo spostamento non avveniva facilmente perché il passaporto doveva essere controfirmato da tutti i Comandi di tappa che si attraversavano lungo il tragitto. 
 
I Comandi Supremi emanarono  in quell’anno numerosi altri ordini e disposizioni con i quali limitarono il normale vivere: applicarono il coprifuoco; vietarono ai vittoriesi di svolgere molte attività, anche quotidiane, come lo stendere i panni, il suonare le campane e l’accendere fuochi per la paura che potessero comunicare con i paesi non occupati; impedirono di incontrarsi in gruppi di più di quattro persone o di ospitare qualcuno in casa per evitare cospirazioni e ribellioni. 
Inoltre ai cittadini vennero imposti diversi obblighi per mantenere in ordine la città e garantire il minimo sforzo agli occupanti come pulire la propria porzione di strada quotidianamente, seppellire tutti i corpi di animali deceduti o consegnare quanto abbandonato dai soldati partenti. 
Tra gli avvisi più singolari, a dimostrazione di quanto fosse efficace e quindi temuta l’attività italiana di spionaggio, quelli riguardanti i piccioni con l’obbligo di sopprimere questi volatili e il divieto di aprire cestini, leggere il contenuto delle lettere, pena addirittura la morte. 
 
In questa difficile convivenza la popolazione, insieme ai prigionieri di guerra, fu impegnata, con compensi quasi simbolici, in lavori di vario tipo per gli occupanti. In particolare le donne vennero utilizzate presso le lavanderie militari, come rammendatrici, cuoche, operaie in quelle poche attività produttive ancora attive e passate sotto il controllo straniero, come ad esempio gli stabilimenti bacologici. 
Non solo: fu precettata manodopera che venne mandata a lavorare nei domini Austroungarici e tedeschi, con la garanzia di vitto e viaggio fino al luogo di lavoro e la possibilità di inviare lettere e denaro ai familiari. 
In queste drammatiche condizioni di vita, la presenza in città degli occupanti si faceva paradossalmente notare anche per gli svaghi e i divertimenti.   
Nelle ville si tenevano spesso feste scandalose, le osterie ogni sera ospitavano avventori stranieri, venivano  programmati vari spettacoli di varietà e di cinema per  intrattenere i soldati, si svolgevano giochi  anche all’aperto. Nonostante tutto, stranieri e popolazione necessariamente convivevano condividendo anche momenti “spensierati” come testimoniano molte fotografie che ritraggono  occupanti e cittadini sorridenti in posa per foto ricordo. 
 
L’anno dell’occupazione è ricordato come il difficile “an de la fan”. Nei primi giorni di occupazione nemica, la città di Vittorio fu oggetto di frequenti ed impietosi saccheggi. Al loro arrivo, i soldati affamati si trovarono di fronte una città, grazie al buon raccolto del 1917, con scorte di viveri, grano, vino e bestiame a disposizione e inizialmente gli episodi di razzia e i furti furono perpetrati senza alcun controllo.  Quando i viveri dopo breve tempo iniziarono a scarseggiare, l’autorità straniera nell’interesse di tutti, occupanti e occupati, dovette gestire il problema dell’approvvigionamento dei generi di prima necessità: autorizzò  la Commissione vittoriese appositamente costituitasi Il 19 novembre 1917  all’istituzione di cucine popolari per sfamare la gente e dispose la regolamentazione delle requisizioni per cui il prelievo di beni non poteva avvenire in modo arbitrario, ma veniva permesso solamente con l’esibizione di un certificato rilasciato dal Comando di Tappa. 
 
Ciascun possessore di beni passibili di requisizione doveva dichiararne il possesso alle autorità occupanti, sotto pena di pesanti provvedimenti punitivi. Coloro che poi subivano questo provvedimento ricevevano in cambio delle tessere annonarie, che davano diritto a una determinata quantità di cibo da richiedere agli spacci cittadini e stabilita in base al numero dei componenti della famiglia. 
L’attuazione delle requisizioni fu affidata a due vittoriesi: Francesco Sartori e Mons. Bianchini, che erano sempre accompagnati da un paio di soldati. Passavano di casa in casa per censire e raccogliere beni. 
 
Inizialmente furono recuperati i viveri di prima necessità ma via via con il tempo vennero ritirati materiali di ogni tipo. 
Non solo cibo grano, vino, carne ed altre provviste, ma anche animali e oggetti, biancheria, materassi, ferro, rame e quanto ritenuto utile. Enorme risalto ebbe, in tutti i territori occupati, a maggio 1918, la requisizione delle campane per il riutilizzo militare del metallo, citata in quasi tutti i diari del periodo: un fatto scioccante per la popolazione colpita nella sua religiosità più profonda. 
 
Ma le necessità erano tante. Tutto scarseggiava anche nell’Impero e ciò che veniva requisito non doveva bastare solo per l’intera popolazione, residente e occupante: una parte dei beni veniva inviata in Austria-Ungheria e Germania, in una madrepatria ormai ridotta alla fame per gli alti costi di guerra 
Da parte italiana, per sostenere il morale della popolazione, venivano diffusi in territorio occupato manifestini e volantini, che si richiamavano a temi identitari ed emozionali e incitavano a resistere e combattere per la propria patria. Questi materiali contenevano brevi messaggi, a volte scritti in maiuscolo, con poche parole che colpivano il lettore e spesso erano accompagnati da elementi tricolori.  
Frequenti erano anche gli inviti ai soldati avversari a disertare e ad abbandonare la guerra 
 
Perché dimenticare ... 
 
18 Febbraio  2022