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Ecco perché il 25 aprile non è una festa di popolo 
di Ninni Raimondi
 
Ecco perché il 25 aprile non è una festa di popolo 
 
 
Proviamo a fare un ragionamento sereno sul 25 aprile, vi va?  
Quando dico un “ragionamento sereno” intendo dire un discorso in cui il giudizio di valore sul fascismo, sull’antifascismo, sulla Seconda guerra mondiale, sulla Resistenza etc venga per un attimo messo in sospeso. Proviamoci, dunque. Cosa si festeggia il 25 aprile?  
La definizione ufficiale parla di “anniversario della Liberazione”.  
Sottinteso: dal fascismo.  
 
Già qui c’è il primo problema.  
Da un punto di vista fattuale, il fascismo cade in due fasi: la prima è costituita da un golpe militare, orchestrato dalla Corona, da frondisti interni e sotto la supervisione degli inglesi e avviene il 25 luglio del 1943. La seconda ha a che fare con la vittoria militare americana. 
 
Una favola a cui non crede più nessuno 
Che ci sia stata una vasta ribellione popolare, una insurrezione di massa, un “popolo alla macchia” che ha abbattuto l’odiato tiranno è una favoletta oleografica a cui non crede più nessuno. Il contributo militare partigiano alla sconfitta del fascismo è stato del tutto trascurabile e comunque limitato alle fasi finali della guerra, quando le file della Resistenza si ingrossano di ex fascisti, opportunisti, delinquenti comuni, personaggi in cerca d’autore o di una pensione da ex-combattente. Quindi, se anche di “liberazione” si potesse parlare, questa sarebbe stata compiuta dagli eserciti alleati, non certo dai partigiani. 
 
25 aprile, nessun “senso di liberazione” 
Il concetto di “liberazione”, in senso più ampio, implica inoltre una dimensione di ritrovata felicità, di pienezza di senso, di sovranità conclamata. Che gli italiani oggi non sperimentino tutto ciò da un bel pezzo è noto. E anche qui bisogna scegliere: o chi avrebbe “liberato” l’Italia si fa carico della nazione che ha edificato, come si suol dire, “sui valori della Resistenza” e ci spiega come siamo giunti fino a questo punto, oppure ci si aggrappa al mito della “Resistenza tradita”. È il caso dell’odierno antifascismo militante, che tuttavia dovrebbe smetterla di inneggiare alla Costituzione e limitarsi a mitizzare la guerriglia sui monti, con tutte le contraddizioni del caso. Le divisioni fra la celebrazione istituzionale del 25 aprile e quella militante, quest’anno particolarmente acute, rientrano in questa problematica. 
La gazzetta ufficiale del fighettismo, Internazionale, si è lamentata che nelle celebrazioni ufficiali del 70esimo anniversario della “liberazione” (cioè nella campagna #ilcoraggiodi, lanciata da Palazzo Chigi) sia stato rimosso l’antifascismo. Si parla di un generico “coraggio”, dei “patrioti” che hanno dato la vita “per la nostra libertà”, ma non apertamente dell’antifascismo. Leggiamo: 
 
“La liberazione è un regalo alle generazioni che verranno, un atto di fede più che di rottura, un imperativo morale più che storico. E, prima di ogni altra cosa: la liberazione è un racconto commovente. […].  
La commozione mette d’accordo tutti, i belli con i brutti, è un potente veicolo retorico attraverso il quale si perdono le ragioni, in nome di qualcosa che però rimane indefinito, dai contorni incerti, in nome di qualcosa che non si sa cosa è. Chi libera cosa? Perché? Nella conferenza stampa che presenta le iniziative del settantennale si accenna en passant al fatto che la liberazione è dai nazifascisti, lo fa la ministra Giannini, dopo una decina di minuti dall’inizio della conferenza stampa. Ma non si parla mai di antifascismo. […]  
Della liberazione rimane, invece, l’aspetto del sogno, che diventa, sì, commovente quando, per esempio, viene affidato il discorso alla voce di Samantha Cristoforetti, che nel suo spot di #ilcoraggiodi dice: ‘Dal passato ho imparato a credere nel futuro’. Così Alex Zanardi, testimonial dell’altro video: ‘Dai nostri nonni abbiamo imparato a non arrenderci mai’.  
Cosa ci trasmettono il pilota e l’astronauta? Una dimensione salvifica e astorica, ma soprattutto profondamente individuale, singolare, della memoria, che si erge come pietra angolare su cui fondare un senso comune”. 
 
Quando deve spiegare perché avvenga questo, l’autrice dell’articolo invoca la rimozione della violenza che caratterizza la nostra epoca. L’antifascismo, in quanto violento, fa scandalo. Meglio affidarsi a un generico idealismo. Ma è vero solo in parte. L’odierno revisionismo – non privo di aspetti pop e superficiali, è vero, ma da che pulpito arriva la critica… – ha messo in luce le cosiddette “pagine nere della Resistenza”, in cui però quel che ripugna la coscienza comune non è la violenza in sé, quanto la violenza a guerra finita, la vendetta, la faida. Ma non è neanche questo il punto. 
 
Un fenomeno d’élite 
Il punto è che l’antifascismo, in Italia, è stato un fenomeno d’élite. Già qualche tempo fa facevamo notare come suonassero stonate e in fondo incomprensibili per l’Italiano medio gli appelli alla sollevazione antifascista contro l’orda salviniana. Questa idea per cui “con i fascisti non si parla” o “uccidere un fascista non è un reato” e via delirando, molto semplicemente, è estranea alla coscienza comune degli italiani. Abbiamo anche già ricordato come per esempio un Aldo Cazzullo, cantore odierno di quella Resistenza genericamente “patriottica” e spoliticizzata, abbia ammesso di aver avuto difficoltà nel rintracciare italiani che gli raccontassero le eroiche gesta dei parenti partigiani, cosa che non era invece accaduta ai tempi delle sue ricerche sulla Grande Guerra. È la differenza fra un evento di popolo e un evento di élite. 
 
Escluso dalla narrazione nazionale 
Ovviamente tutte le ideologie, al fondo, sono divisive. Lo fu certamente anche il fascismo. Ma esso seppe farsi forza non solo di massa, ma anche nazionale. Non parliamo solo dei numeri (e negli “anni del consenso” l’adesione all’avventura di Mussolini sfiorò davvero l’unanimità) ma anche di sostanza: istituendo un asse (a torto o a ragione, nella storia, non conta) fra Regime, Grande Guerra e Risorgimento, il fascismo si è inserito indelebilmente in una narrazione collettiva da cui l’antifascismo rimane carnalmente estraneo. Fascismo e Italia, per 20 anni, sono stati sinonimi. Anche fascismo e Stato sono stati a lungo sinonimi, con segni tangibili che restano anche nell’impalcatura statuale di oggi. Agli antifascisti fu riservata talora la galera e il confino, ma spesso anche uno stipendio o un ruolo nella stesura dell’Enciclopedia italiana.  
 
Che questo ecumenismo poi abbia più danneggiato che rafforzato il fascismo è un altro conto. Resta il fatto che il fascismo ha saputo essere narrazione nazionale. L’antifascismo no.  
Fu numericamente e qualitativamente un fenomeno di minoranza e tale resta tuttora, tant’è che per scaldare le masse nel 70esimo anniversario si è costretti a creare artificialmente il mito di una Resistenza idealistica, astorica, buonista, fatta di “brave persone”, che ci insegnano a “credere nel futuro” e a “non arrenderci mai”. Una Resistenza da Baci Perugina, da fiction Rai, da canzone di Ligabue. Una Resistenza che vuol dire tutto. E che quindi non vuol dire più niente. 
26 Aprile  2022